Nessuna
sorpresa arrivò per me dall'uovo di pasqua del 1974. Il fastidio che
avvertivo al braccio sinistro, nella parte alta dell'omero, cominciò
a manifestarsi anche con dolori frequenti. Fu così che l'ortopedico
decise di inviarmi in ospedale per mettere fine al mio calvario ormai
quotidiano. Erano anche parecchi giorni che saltavo i giorni di
scuola e non potevo continuare a farlo.
Fui
ricoverato all'ospedale di Nola, dove si decise di intervenire
chirurgicamente.
Nola era
anche la città dove frequentavo il primo anno di ragioneria. Mia
mamma mi accompagnò in ospedale e mi chiese di aver molta pazienza e
rassegnazione.
Dovetti,
infatti, rassegnarmi a stare da solo, perché nessuno dei miei
genitori potevano darmi assistenza durante l'ospedalizzazione.
Negli anni
settanta i ricoveri in ospedale duravano tantissimi giorni. Ricordo
che tra preparazione, operazione e post intervento, rimasi con medici
ed infermieri più di venti interminabili giorni.
Una mattina,
quando meno me lo aspettavo, un infermiere mi disse di prepararmi che
lasciavo finalmente il mio posto a qualcun altro.
Mi feci
aiutare nel vestirmi e mi apprestai a lasciare l'ospedale. Non avevo
soldi con me né potevo avvisare nessuno a casa, non avevamo il
telefono in famiglia.
Per fortuna
avevo con me l'abbonamento studenti per i treni della
circumvesuviana, proprio nella tratta Nola-Marigliano.
Fui dimesso
dall'ospedale con il braccio immobilizzato e con la prognosi di venti
giorni di ulteriore convalescenza.
Alla fine
dei conti persi più di quaranta giorni di scuola, proprio nel
pentamestre finale. Quando mi presentai a scuola, accompagnato da mia
mamma, ci accolse la preside. Non fu per nulla ottimista e mi chiese
di provare a frequentare le lezioni per capire se riuscivo a mettermi
al passo con gli altri.
Volli
provare, ma fu un'impresa impossibile. La stenografia, già materia a
me abbastanza invisa, era diventata peggio dell'arabo. Non ci capivo
più nulla. Matematica e geometria uguale. Lo stesso per le altre
materie. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile. Decisi così di
ritirarmi da scuola. Tanto avevo la licenza media e tanta voglia di
lavorare.
Aspettai
giusto il tempo che il dottore mi dichiarasse finalmente guarito
anche dai punti di sutura.
Sapevo già
cosa volevo fare per guadagnare qualcosa. Nei periodi di
convalescenza andavo a vedere come lavoravano alcuni miei amici, un
pochettino più grandi di me. Mi piaceva quel gruppo che stava
lavorando, come muratori, nel costruire un campo di gioco per le
bocce, commissionato dai frati Francescani di San Vito.
Lavoravano
sodo tutto il giorno, ma c'era tanta armonia ed amicizia tra di loro,
erano dei giocherelloni. Si divertivano lavorando.
Fu così che
chiesi a Carmine, il capo, se mi prendesse a lavorare con lui.
Mi disse che
al termine di quel lavoro, ne avrebbe iniziato un altro e sicuramente
avrebbe avuto bisogno anche di me.
Ero felice e
non vedevo l'ora di iniziare, non mi interessava neppure sapere
quanto avrei guadagnato. Il solo fatto di poter andare a lavorare e
stare tutto il giorno con Massimo, il fratello del capo e soprattutto
con Andrea, un burlone nato, mi avrebbe ripagato di tutto.
Arrivò
finalmente il fatidico giorno. Ci presentammo tutti e quattro da
signor Raia, per prendere atto del tipo di lavoro da fare.
Il signor
Raia era molto conosciuto a san Vito, un uomo dal fisico statuario,
una presenza forte ed un rigore indiscusso. Era un brigadiere dei
carabinieri in pensione e prestava il suo tempo al servizio dei frati
del convento. Era il tuttofare e uomo di fiducia.
Ci portò
all'interno del convento, fino ad un seminterrato che andava in
discesa, fino ad interrompersi di fronte ad una porticina non più
alta di un metro. Era tutto buio e umido. Il signor Raia spiegò a
Carmine che dietro quella porticina ci sarebbe dovuto essere una
specie di sottopassaggio che collegava il convento dei frati a quello
delle monache e che sarebbe servito ai frati per recarsi al
refettorio situato dalle vicine suore.
In pratica,
con l'uso di pale e picconi, avremmo dovuto scavare sotto quella
volta di mattoni, liberarlo dalla terra per creare un passaggio
comodo e sicuro.
Iniziammo il
lavoro. Eravamo in quattro, io il più giovane, Massimo ed Andrea due
anni più di me, Carmine, il più vecchio, non aveva più di venti
anni.
Carmine,
con la sua forza spaventosa, si mise subito all'opera con il
piccone, Massimo con la pala riempiva le carriole che io ed Andrea le
facevamo percorrere avanti ed indietro, portando all'esterno la terra
spalata.
I giorni
passavano, la terra portata via era tanta e tanta ancora ne rimaneva
da spicconare. Le mie mani, non abituate a quel tipo di lavoro
gridavano pietà. I calli avevano ormai preso il posto delle vesciche
ed iniziai ad andarne fiero.
La sera ero
stanco morto, ma la mattina riandavo a lavorare molto volentieri,
perché si stava davvero bene insieme a loro. Nonostante la fatica
fosse tanta, era sempre tutta una risata,con Andrea non poteva essere
altrimenti. Sempre la battuta pronta, sempre attento a cogliere
l'attimo per inventare qualcosa su cui ridere. Finalmente un giorno
cadde l'ultimo diaframma che portava al convento delle suore. La
fessura nel muro diventava sempre più ampia e la luce inondava
quella caverna illuminata dalle candele.
Con grande
sorpresa ci venne a far visita suor Candida, che ci portò da bere
dei succhi di frutta fatti da loro, una bontà. Li bevemmo con
avidità. Poi ci offrì delle fette di pane con della confettura di
arance del convento. Una prelibatezza.
Tutti i
giorni, Andrea, che aveva il dono dell'ilarità e della sfrontatezza
andava a chiedere succhi e marmellata alla suora, che non sapeva dire
di no.
Quel lavoro
durò quasi tutta l'estate. Poi andammo a lavorare in un altro posto.
Io però
lasciai quella squadra di lavoro, a malincuore. Volli riprovare ad
andare a scuola.
Mi iscrissi
al primo anno dell'ITIS di Somma Vesuviana. Ma questa è un'altra
storia.
Marigliano,
settembre 1975
Nello
Ricciardi
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