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giovedì 20 ottobre 2016

IL LAVORO MINORILE - PALA E PICCONE


Nessuna sorpresa arrivò per me dall'uovo di pasqua del 1974. Il fastidio che avvertivo al braccio sinistro, nella parte alta dell'omero, cominciò a manifestarsi anche con dolori frequenti. Fu così che l'ortopedico decise di inviarmi in ospedale per mettere fine al mio calvario ormai quotidiano. Erano anche parecchi giorni che saltavo i giorni di scuola e non potevo continuare a farlo.
Fui ricoverato all'ospedale di Nola, dove si decise di intervenire chirurgicamente.
Nola era anche la città dove frequentavo il primo anno di ragioneria. Mia mamma mi accompagnò in ospedale e mi chiese di aver molta pazienza e rassegnazione.
Dovetti, infatti, rassegnarmi a stare da solo, perché nessuno dei miei genitori potevano darmi assistenza durante l'ospedalizzazione.
Negli anni settanta i ricoveri in ospedale duravano tantissimi giorni. Ricordo che tra preparazione, operazione e post intervento, rimasi con medici ed infermieri più di venti interminabili giorni.
Una mattina, quando meno me lo aspettavo, un infermiere mi disse di prepararmi che lasciavo finalmente il mio posto a qualcun altro.
Mi feci aiutare nel vestirmi e mi apprestai a lasciare l'ospedale. Non avevo soldi con me né potevo avvisare nessuno a casa, non avevamo il telefono in famiglia.
Per fortuna avevo con me l'abbonamento studenti per i treni della circumvesuviana, proprio nella tratta Nola-Marigliano.
Fui dimesso dall'ospedale con il braccio immobilizzato e con la prognosi di venti giorni di ulteriore convalescenza.
Alla fine dei conti persi più di quaranta giorni di scuola, proprio nel pentamestre finale. Quando mi presentai a scuola, accompagnato da mia mamma, ci accolse la preside. Non fu per nulla ottimista e mi chiese di provare a frequentare le lezioni per capire se riuscivo a mettermi al passo con gli altri.
Volli provare, ma fu un'impresa impossibile. La stenografia, già materia a me abbastanza invisa, era diventata peggio dell'arabo. Non ci capivo più nulla. Matematica e geometria uguale. Lo stesso per le altre materie. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile. Decisi così di ritirarmi da scuola. Tanto avevo la licenza media e tanta voglia di lavorare.
Aspettai giusto il tempo che il dottore mi dichiarasse finalmente guarito anche dai punti di sutura.
Sapevo già cosa volevo fare per guadagnare qualcosa. Nei periodi di convalescenza andavo a vedere come lavoravano alcuni miei amici, un pochettino più grandi di me. Mi piaceva quel gruppo che stava lavorando, come muratori, nel costruire un campo di gioco per le bocce, commissionato dai frati Francescani di San Vito.
Lavoravano sodo tutto il giorno, ma c'era tanta armonia ed amicizia tra di loro, erano dei giocherelloni. Si divertivano lavorando.
Fu così che chiesi a Carmine, il capo, se mi prendesse a lavorare con lui.
Mi disse che al termine di quel lavoro, ne avrebbe iniziato un altro e sicuramente avrebbe avuto bisogno anche di me.
Ero felice e non vedevo l'ora di iniziare, non mi interessava neppure sapere quanto avrei guadagnato. Il solo fatto di poter andare a lavorare e stare tutto il giorno con Massimo, il fratello del capo e soprattutto con Andrea, un burlone nato, mi avrebbe ripagato di tutto.
Arrivò finalmente il fatidico giorno. Ci presentammo tutti e quattro da signor Raia, per prendere atto del tipo di lavoro da fare.
Il signor Raia era molto conosciuto a san Vito, un uomo dal fisico statuario, una presenza forte ed un rigore indiscusso. Era un brigadiere dei carabinieri in pensione e prestava il suo tempo al servizio dei frati del convento. Era il tuttofare e uomo di fiducia.
Ci portò all'interno del convento, fino ad un seminterrato che andava in discesa, fino ad interrompersi di fronte ad una porticina non più alta di un metro. Era tutto buio e umido. Il signor Raia spiegò a Carmine che dietro quella porticina ci sarebbe dovuto essere una specie di sottopassaggio che collegava il convento dei frati a quello delle monache e che sarebbe servito ai frati per recarsi al refettorio situato dalle vicine suore.
In pratica, con l'uso di pale e picconi, avremmo dovuto scavare sotto quella volta di mattoni, liberarlo dalla terra per creare un passaggio comodo e sicuro.
Iniziammo il lavoro. Eravamo in quattro, io il più giovane, Massimo ed Andrea due anni più di me, Carmine, il più vecchio, non aveva più di venti anni.
Carmine, con la sua forza spaventosa, si mise subito all'opera con il piccone, Massimo con la pala riempiva le carriole che io ed Andrea le facevamo percorrere avanti ed indietro, portando all'esterno la terra spalata.
I giorni passavano, la terra portata via era tanta e tanta ancora ne rimaneva da spicconare. Le mie mani, non abituate a quel tipo di lavoro gridavano pietà. I calli avevano ormai preso il posto delle vesciche ed iniziai ad andarne fiero.
La sera ero stanco morto, ma la mattina riandavo a lavorare molto volentieri, perché si stava davvero bene insieme a loro. Nonostante la fatica fosse tanta, era sempre tutta una risata,con Andrea non poteva essere altrimenti. Sempre la battuta pronta, sempre attento a cogliere l'attimo per inventare qualcosa su cui ridere. Finalmente un giorno cadde l'ultimo diaframma che portava al convento delle suore. La fessura nel muro diventava sempre più ampia e la luce inondava quella caverna illuminata dalle candele.
Con grande sorpresa ci venne a far visita suor Candida, che ci portò da bere dei succhi di frutta fatti da loro, una bontà. Li bevemmo con avidità. Poi ci offrì delle fette di pane con della confettura di arance del convento. Una prelibatezza.
Tutti i giorni, Andrea, che aveva il dono dell'ilarità e della sfrontatezza andava a chiedere succhi e marmellata alla suora, che non sapeva dire di no.
Quel lavoro durò quasi tutta l'estate. Poi andammo a lavorare in un altro posto.
Io però lasciai quella squadra di lavoro, a malincuore. Volli riprovare ad andare a scuola.
Mi iscrissi al primo anno dell'ITIS di Somma Vesuviana. Ma questa è un'altra storia.
Marigliano, settembre 1975

Nello Ricciardi

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