Translate

mercoledì 17 gennaio 2024

IL LAVORO MINORILE - LE PATATE (seconda parte)


Incominciai con buona lena a mettere d’accordo tutte quelle cassette multicolori, per farle entrare una dentro l’altra. Inizialmente un pochettino impedito nella manualità, ma poi trovato presto il modo più semplice e veloce, con un tantino di scaltrezza, riuscii presto a far nascere quel muro uniforme formato da cassette impilate ed ordinate. 
Ad un certo punto mi venne il dubbio che qualcuno, di nascosto, si prendesse beffa di me facendone aumentare il numero. Non finivano mai. Di tanto in tanto, notavo il viso della signora, che presa a compassione, mi spiava di sottecchi per vedere come me la cavavo.  
A metà mattinata il sole era già abbastanza alto e maturo nel cielo carico di azzurro. Il caldo canicolare penetrava attraverso l’aria impastata dalla polvere che scaturiva dai nastri trasportatori delle migliaia di patate intrise di terra, scaricate dal camion per finire la loro corsa nei sacchetti di rete plastificata.
Mi chiamò la figlia del proprietario e mi invitò a mangiare una fettina di dolce fatto in casa, accompagnato da un bicchiere di birra e gassosa versato da una caraffa colma di palline di ghiaccio. Tutti gli altri lavoratori si fermarono giusto il tempo per quel piccolo ma graditissimo intermezzo di piacere.
Ritornai rinvigorito, da quella provvidenziale pausa, a riprendere il mio lavoro. Le ultime tre cassette, volarono letteralmente al loro posto quando arrivò l’avviso di terminare i lavori per accingersi alla pausa pranzo. I rumorosi nastri trasportatori si spensero e si quietarono. Tutti i lavoratori, me compreso, sembravamo degli zombi, impolverati fino al midollo osseo. 
Mi indicarono una fontanella fuori dal fabbricato principale, attaccata ad un piccolo manufatto in lamiera, dove potei sciacquare tutta la terra appiccicata alla pelle madida di sudore. Nella piccola baracchetta, senza copertura, non più grande di un metro c’era un piccolo gabinetto in ceramica, utilizzato da tutti i lavoratori. 
Tutti i presenti si riunirono nell’ombra disegnata da un grande pioppo, che sembrava messo in quel posto di proposito. Ognuno di loro prese una cassetta di plastica per sedersi. Cominciarono a mangiare il loro cibo pronto preparato e portato da casa. Io non avevo nulla. Non sapevo come fosse organizzata la giornata e quindi non ero preparato. Non potevo prendere la bicicletta ed andare a casa, avrei impiegato troppo tempo. 
Qualcuno, mosso a compassione mi offrì qualche pezzo del loro pranzo. Rifiutai con goffa gentilezza e con patetica fierezza, allontanandomi da quel posto conviviale. Mi appartai da solo in un angolo abbastanza nascosto, sentivo i ragni nello stomaco e qualche lacrima di rabbia trovò strada tra le guance cotte dal sole. 
Arrivò all’improvviso, un angelo con le sembianze della figlia del proprietario, mi allungò un piatto con due belle fette di pane fresco con una fetta di mortadella ed un pezzetto di formaggio, insieme al solito bicchiere di birra e gassosa. Non ricordo se borbottando riuscii a dire qualcosa che somigliasse ad un ringraziamento, ma sentii chiaramente l’esortazione a ricordami, per il giorno dopo, di munirmi del necessario per il pranzo. La pausa pranzo durò giusto il tempo per ingurgitare l’ultimo boccone di pane. 
Mi chiamò il figlio del proprietario e mi invitò a salire accanto a lui sul camioncino.  Arrivammo in un campo, non tanto lontano, era molto vasto e si vedevano file smisurate di patate scavate dalla terra e lasciate ad asciugare al sole, pronte per essere raccolte. Alcune donne, curve verso terra, raccoglievano i preziosi tuberi e li sistemavano in cassette uguali a quelle a cui mi ero dedicato tutta la mattina. Arrivò un uomo che mi disse di scendere dal camioncino e di camminare nel terreno dietro al camion, mentre questo si spostava avanti lentamente, rasentando le cassette già piene e pronte per essere caricate. Il mio compito era quello di prendere le cassette e metterle sul pianale, dove c’era un altro signore che le sistemava impilandole sistematicamente. Iniziai subito ad alzare da terra la prima cassetta, facendo una smorfia per l’inaspettato sforzo. Pesavano circa venticinque chili l’una. Iniziai a caricare le cassette lungo il percorso e dietro il camioncino, una, due, tre, dieci, venti, trenta ed ancora, ancora tante, tantissime. Il peso di ogni cassetta sembrava aumentare con il passare del tempo. Il sole, nel pieno del sua potenza giornaliera, picchiava su quel campo arido, polveroso e senza riparo. Persi il conto delle cassette caricate, ma credo che superassero abbondantemente le cento unità. Le gambe, al loro primo giorno di lavoro, non reggevano più, le braccia non erano da meno, ogni tanto mi sentivo prendere dallo sconforto, ma non volevo mollare. Finalmente il pianale del camioncino non presentò più spazi liberi. L’ultimo sforzo, le mie gambe lo fecero per salire in cabina, dove mi accasciai sul sedile.
Arrivammo, ahimè, troppo presto al capannone. La signora (la persona più buona di tutta la compagnia), che già più volte era intervenuta in mio soccorso, mi chiamò e mi disse di sistemarmi alla fine del nastro trasportatore, dove sarebbero arrivate le patate appena raccolte e scaricate dal fratello sui nastri. Vedrai che qui lavorerai di meno o comunque con meno fatica. Effettivamente, il primo beneficio arrivava dal lavorare all’ombra, ma questo giovamento era quasi cancellato dal fatto che i sacchi fatti di rete, tipo raffia, erano grandi da contenere venti chili di patate. Io dovevo tenere accuratamente sotto il nastro il sacco, fermare il nastro, quando credevo di avere il sacco più o meno a peso giusto, sollevarlo metterlo su di una di bascula per controllarne il peso, aggiungere o togliere le patate a mano e spostarlo di lato, dove una donna cuciva il lato aperto, rendendolo pronto per essere venduto. Si fecero le otto della sera, quando finimmo di insaccare tutte le patate disponibili. Ero distrutto! 
Le mani mi bollivano, non c’era un centimetro di pelle libera, interamente coperte da grosse ed umide vesciche nei palmi delle mani.
Il proprietario mi salutò dicendomi che ero stato veramente bravo e che non avrebbe scommesso un centesimo che io fossi arrivato a sera, senza mollare prima.
Ci vediamo domattina alle sei e trenta, vieni direttamente al campo, che ci sarà da finire di caricare le cassette di patate, mi disse il capo.
Presi la bici, ma non riuscivo a tenere le mani sul manubrio, guidavo la bici armeggiando con i polsi.
Arrivai a casa, mia mamma mi fece degli impacchi con olio e fette di patate sulle mani, poi mi bucò con l’ago ed il filo di cotone, una ad una, tutte le bolle nelle mani, lasciando il pezzettino di filo dentro, allo scopo di far spurgare il siero sanguineo contenuto. Non sentivo il dolore, sicuramente più lieve del dolore offerto dalle vesciche già aperte. Il mattino dopo arrivò troppo presto, le mani avvolte in stracci dovettero subire un’altra giornata di supplizio.
Caricare il camion con le pesanti cassette di patate, riempire i sacchetti, di rete tagliente, carica i sacchetti sui camion dei commercianti che venivano a rifornirsi per i mercati. 
Queste erano le giornate, tutte uguali, tutte estremamente faticose. Finì la prima settimana di duro lavoro.
Venni ricompensato con l’equivalente di circa due pacchetti di sigarette al giorno, diecimila lire ed un sacchetto di patate da venti chili.
Ero letteralmente distrutto, ma ero felice. Non avevo mai guadagnato tanti soldi e poi c’era anche l’extra delle patate.
Quando arrivai a casa, i miei genitori non si capacitavano di quanto io fossi felice. Ma come fai a ridere che sei pieno di lividi e con le mani distrutte?
Avevo finalmente provato per la prima volta a guadagnare con il mio sudore, quello per me era una soddisfazione che non aveva prezzo.
Il lunedì successivo riandai a lavorare, ed ancora un altro lunedì successivo ed un altro ancora. 
L’estate stava finendo, mi ero accordato con il capo che avrei smesso di andare a lavorare una settimana prima di iniziare la scuola, per riprendermi un pochino e, ricordandomi che ero un ragazzino, rivedermi tutti i giorni, con gli amici di gioco. Le mani non avevano più problemi, vistosi e duri calli avevano rimpiazzato le viscide e sanguinolenti vesciche. Il fisico si era temprato al duro lavoro e non mostravo più sofferenze. 
Ero anche diventato bravissimo a riempire i sacchetti con il quantitativo esatto di patate, senza doverle pesare. Mi bastava alzare il sacchetto e sospenderlo con le due braccia, per essere sicuro di averne messo dentro esattamente venti chili. 
La stessa abilità la ritrovai una decina di anni dopo, dove con una sola manciata e senza guardare, riuscivo ad essere sicuro di aver preso dalla cassa delle munizioni, quindici cartucce calibro nove parabellum, da introdurre nel caricatore bifilare della mia pistola Beretta 92SB.
Ma questa è un’altra storia!





Nessun commento: