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venerdì 23 agosto 2019

LO SCIARRANO PORTICESE

A Portici abitava, con la sua famiglia, il primo fratello di mio padre, da cui ho ereditato il nome. Lo zio Aniello era felice quando ci vedeva arrivare. Mio padre ne approfittava, nel periodo delle poche ferie, concesse allo zio, dall’Italsider di Bagnoli, dove lavorava, per stare una giornata insieme a lui.
Partivamo di buon’ora da Marigliano, con la nostra misera mercanzia e con il treno della vesuviana andavamo alla stazione di Napoli. Rimanevo incantato e confuso a vedere quella moltitudine di gente che camminava in ogni dove fuori la stazione di Piazza Garibaldi. Mercatini stradali affollati e multicolorati, ambulanti che strillavano intonando note di motivi conosciuti per attirare i compratori.
I miei genitori ci tenevano stretti per mano, per paura di perderci nella folla. Prendevamo la via che portava verso il mare e quasi subito venivamo avvicinati da qualche pulmino fiat, di quelli a otto posti, di solito già strapieni, che ci offriva il passaggio. Dopo gli usuali accordi sul prezzo, ci caricava tutti pressandoci uno sull’altro come acciughe sotto sale. La scomodità e l’odore nauseabondo di qualche passeggero più accaldato e sudato, mi faceva stare male.
Per fortuna non era lontanissimo Portici. Arrivavamo già stanchi a casa dello zio, il tempo dei convenevoli saluti di rito e si partiva per la spiaggia. La discussione era sempre su quale lido scegliere. Di solito la mamma, voleva passare attraverso un giardino di un palazzo ove aveva lavorato da giovane a servizio di una famiglia bene di Bellavista. Ricordo il profumo di quei rigogliosi e freschi giardini attraversati, i pergolati di uva ed i tanti melograni in fiore. Spesso si intravedevano code di fieri pavoni.
Alla fine di quei giardini, dopo aver attraversato il ponte della ferrovia che costeggiava il mare, si accedeva al lido. Non ricordo se era il Dorado o l’Aurora. Anche perché erano lidi dove si pagava e quindi frequentati da ricchi borghesi. Noi non potevamo permettercelo. Quindi lo zio Aniello ci portava alla spiaggia libera del “Ranatiello” .
Il nome in dialetto proveniva da Granatello, dalle perdute distese di melograni: in napoletano “ ‘e granate”.
Sulla affollata spiaggia di sabbia vulcanica nera, papà trovava il posto per l’ombrellone, stendevamo i nostri teli e ci si apprestava subito a trovare giovamento alla calura nelle fresche acque marine. Non avevamo nessuna protezione solare per la pelle, cosicché, dopo qualche ora, mio fratello Giacomo risultava già bronzeo e sorridente, mentre io ero già rosolato, sconsolato e del colore dei gamberi rossi.
Odiavo il mare ed il sole per questo motivo, oltre a non saper nuotare, così mi rifugiavo tra le braccia sicure della mamma, anch’ella più votata alla più fresca montagna.
Mio padre e Giacomo, invece, erano sempre in acqua e facevano a gara a chi arrivava prima ad una piccola diga di scogli difronte alla spiaggia. Al mio papà piaceva tanto il mare, gli ricordava la sua infanzia vissuta sull’arenile di San Giovanni a Teduccio. Giacomo aveva preso da lui, sembrava un delfino felice nel suo ambiente naturale.
Mentre stavo sotto l’ombrellone con la mamma, mio zio Aniello continuava a farmi i complimenti per il mio bellissimo nome, che a suo dire dovevo portare con orgoglio.
Mi raccontava varie storie. Di quando lui fu militare, durante la seconda guerra mondiale. Partecipò alla guerra d’Africa, a Tobruk e fu fatto prigioniero dagli inglesi. Ma la cosa che mi incuriosì e mi intimorì di più, fu la storia di un pesce particolare che frequentava i lidi di Portici. “Statt accorto al pesce ricchione”. Continuava ad avvisarmi.
Probabilmente un particolare pesce ermafrodita, trovato e studiato dai biologi da queste parti, lo Sciarrano Porticese.
Nel tardo meriggio, per trovare refrigerio e scampare all’arsura, presi il coraggio a quattro mani e piano piano, senza essere visto da nessuno, mi incamminai in acqua, dirigendomi verso la scogliera. Ero ormai al limite del tocca non tocca e volevo provare a lasciarmi andare per riuscire a galleggiare. Ero rassicurato dalla vicina scogliera ed ero sicuro di non andare in alto mare. Quasi toccavo gli scogli, quando ad un tratto mi sentii afferrato ad una caviglia e mi ritrovai sott’acqua. Provai a scalciare forte, ma senza riuscire a divincolarmi. Volevo urlare, ma bevevo solo schifosa acqua salata. Cercai di muovere vorticosamente tutte le membra a disposizione. La presa non mi mollava e mi tirava sempre più sotto. Trovai la forza di aprire gli occhi sott’acqua, ero sicuro di essere stato catturato dal pesce ricchione. Doveva essere grosso, cattivo e potente. Ad un tratto mi sentii liberato, scattai in alto con tutte le forze rimaste ormai al lumicino. Fuori dall’acqua cercai con larghe boccate di prendere più aria possibile ed inviarla ai polmoni ormai ariditi. Sentii ridere a crepapelle. Erano mio fratello Giacomo e mio padre che mi avevano fatto uno scherzo, di cattivissimo gusto. Scappai in direzione del Vesuvio e probabilmente era lassù che desideravo fortemente rifugiarmi. Trovai sulla riva il grembo sicuro della mamma che mi abbracciò, gridando epiteti coloriti ai due compari in acqua, che continuavano a ridere incuranti delle mie paure.

2 commenti:

Umby ha detto...

Un'altra perla dei tuoi racconti biografici... Se non ti conoscessi, direi inventato, tant'è bello...

Giacomo Ricciardi ha detto...

Nello non ci posso credere che tu ricordi certi momenti così lontani e pieni di particolari...e il bello è che leggendo i tuoi ricordi li fai riaffiorare piano piano anche a me nella mia mente. Se adesso mi metto a pensare questi momenti che descrivi molto bene li rivedo e li ricordo seppur vagamente. Grazie di ricordare questi spaccati della nostra vita.❤