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giovedì 17 ottobre 2024

GLI AMBULANTI "URLATORI" DI UNA VOLTA

Gli anni sessanta segnarono profondamente la città di Marigliano, costretta a risollevarsi dopo la sommossa della cosiddetta “Rivolta delle patate”, dove i contadini e i commercianti mariglianesi, maggiori produttori nella provincia del prezioso ma poco pagato ortaggio assaltarono la casa comunale, insieme ai colleghi venuti a dare manforte dai paesi viciniori. La rivolta, nonostante l’intervento di un nutrito numero di militari delle forze dell’ordine, culminò con l’incendio del palazzo comunale, era il 1959.

Marigliano era una città di circa ventimila abitanti, di cui quasi la metà si occupava di agricoltura e del relativo indotto.

Dalla locale stazione delle FF.SS., diretti al nord, ogni giorno partivano vagoni carichi di patate raccolte nell’agro nolano.

Ci vollero un paio di anni per sistemare al meglio le cose negli uffici comunali distrutti.

La gente dimenticò presto quella rivolta, che portò Marigliano alla ribalta nazionale.

Tutto sommato non si viveva male in questa cittadina, dove non mancavano i negozi di tutti i tipi, vantando anche la presenza di due sale cinematografiche e due stazioni ferroviarie.

A metà degli anni sessanta c’erano antiche botteghe e negozi, di antica memoria, ormai inesistenti. Ricordo addirittura una “Boulangeria” (panetterie), che vendeva pane ed alimentari. C’erano diverse mercerie, che vendevano un po’ di tutto, ma soprattutto filati. Le pollerie e le baccalerie. Insomma il commercio era basato sulle piccole botteghe, non erano ancora arrivati i discount ed i supermercati.

Nella mai vuota centrale Piazza Municipio, stazionavano sempre numerosi commercianti e uomini d’affari, non mancavano mai gli “spiccifacenti e sanzari”(mediatori e procacciatori d’affari). Queste tre ultime categorie, molto ben rappresentate, seppur in incognito, si occupavano dell’intermediazione e della relativa vendita, di case, terreni e bestiame; affitti di terreni o appartamenti; ma talvolta riuscivano persino anche a procacciare ed organizzare incontri matrimoniali.

A noi ragazzi degli anni sessanta, del quartiere San Vito, situato alla periferia ovest della città, poco importava dei negozi del centro cittadino, passavamo le nostre giornate giocando al sicuro nel nostro grande cortile, soprannominato “Shanghai” per il gran numero di famiglie che vi abitavano.

Non ci si annoiava mai in quel grande cortile, si giocava, si correva e si viveva come fossimo in una bella grande comunità. In quel cortile, ci furono degli anni dove si poterono contare circa venti famiglie ed una cinquantina tra bambini e ragazzi.

Insomma vietato tediarsi. 

Pur restando lontano dal centro cittadino, eravamo spesso visitati da venditori ambulanti urlatori, che ci portavano direttamente a casa svariate merci oppure offrivano vari servizi.

Quello che a noi bambini piaceva sicuramente di più era il “gratta ghiaccio”. Arrivava soprattutto d’estate, con una bicicletta a tre ruote, con un piccolo portapacchi anteriore. Lo sentivamo e riconoscevamo subito perché avvisava del suo arrivo con uno strano fischietto lungo, seguito dal grido “ratta ratta fridd fridd” (Gratta gratta freddo freddo). Scendeva dalla bicicletta e veniva subito attorniato dai bambini, che si acquetavano solo all’arrivo dei rispettivi genitori. Il tizio alzava una coperta dove sotto veniva messa in bella mostra una grossa lastra di ghiaccio. Con un attrezzo di metallo a forma di parallelogramma, grattava sulla superfice della lastra, riempendo lo strumento di ghiaccio tritato che scaricato in una carta, veniva irrorato di sciroppo, che poteva essere limone, menta, arancia o amarena. Erano i nostri gelati primordiali.

Dello stracciaio, ne ho già scritto in un altro racconto appropriato (link a fondo pagina).

Un altro personaggio che ricordo volentieri era “Vincenzo lo Stuccaiuolo” (Vincenzo venditore di stoccafisso). Arrivava da Somma Vesuviana, il paese per eccellenza per la lavorazione del baccalà e dello stoccafisso.

Entrava dal portone con la sua Lambretta beige, con una cassetta al posto del seggiolino del passeggero. Il suo grido era “Voglio o stocch, co' limone 'o stocch” (Voglio lo stoccafisso, con il limone lo stoccafisso). 

Vendeva pezzi pregiati ed alcuni a buon mercato, tra cui ricordo il “mussillo, la pancetta ed il filetto”.

Vincenzo amava raccontare l’origine dei suoi merluzzi ed il perché la sua città fosse diventata così importante per la lavorazione di questo pesce. 

Raccontava che l’origine dello stoccafisso risaliva ai Vichinghi, tra i primi a sottoporre il merluzzo fresco di pescato, diliscato e decapitato, a quel processo di essiccazione ai venti freddi dell’Artico fino a trasformarlo come un bastone di legno (dall’olandese stoc “bastone” e visch “pesce”).

Leggermente differente, invece, l’origine del baccalà, che si deve ai pescatori baschi, impossibilitati ad essiccare il merluzzo al soffio di venti particolarmente freddi. Essi escogitarono quindi un metodo di conservazione diverso, quello della salatura, che prevedeva di ricoprire di sale il merluzzo pescato dopo averlo privato delle interiora.

Entrambi però necessitavano di essere lavorati in ammollo per renderli utilizzabili in cucina. Somma Vesuviana era avvantaggiata per avere a disposizione l’acqua limpida e fresca delle sorgenti del fiume Sebeto. Insomma, Vincenzo era un venditore di pesce e dispensatore di cultura.

Circa trimestralmente ci faceva visita lo “Mpagliasegge” (l’impagliatore di sedie). Un uomo che girava con un vecchio fumante e rumoroso motocarro, contenente sedie di legno impagliate nuove ed alcune matasse di paglia, con i relativi attrezzi per aggiustare i pianali delle sedie, che a quei tempi erano quasi tutte impagliate. Chiaramente il suo grido per farsi sentire non poteva essere che “Mpagliasegge”.

Si fermava solitamente all’inizio della scalinata, subito dopo l’ingresso nel cortile. Quando poteva si metteva subito a riparare le sedie che gli venivano portate. Quando invece queste erano veramente messe male chiedeva tempo per rimetterle a posto e le portava via, talvolta lasciando una in prestito.

Valentino, il “cassusaro” (venditore di gassose), vendeva bibite varie e gassose, molto utilizzate a quei tempi per allungare il vino. Aveva un piccolo camioncino, veniva da Lausdomini. Minutino di corporatura, moro e ricciolino, era davvero una persona molto simpatica. Non urlava, ma si faceva sentire con un fischio strano autoprodotto, che sembrava vagamente il verso di un uccellino. Nonostante il suo fisico minuto, aveva un’abilità nel far letteralmente volare le casse di plastica contenenti le bottiglie di vetro. Oltre alle bibite, vendeva anche le bombole del gas butano.

Alcuni venditori che capitavano saltuariamente erano davvero strani. Ormai non esistono più. Uno era il capellaio. Era un personaggio che non piaceva a noi bambini, sempre dall’aspetto burbero e vestito molto male e sudicio. Comprava ciocche di capelli e trecce tagliate, per farne parrucche. Si faceva sentire urlando “Capille e parrucche” (capelli e parrucche). 

Non aveva l’abitudine di pagare, ma di barattare con varie mercanzie per la cucina, per la verità di poco conto e probabilmente anche di scarso valore. Spesso, quando riteneva che le ciocche di capelli offerti erano striminzite e per lui di poco conto, offriva la possibilità di riportarlo in un libretto e mettendolo in conto per le volte successive. Naturalmente le litigate delle avventrici, che reclamavano i loro diritti, erano all’ordine del giorno

Soprattutto d’inverno, capitava nel cortile, con la sua bicicletta trainante un rimorchietto di legno rudimentale, l’ombrellaio. “Forbice e curtielli e mbrielli” (forbici, coltelli ed ombrelli), era il suo richiamo.

Riparava qualsiasi ombrello con grande abilità ed in pochissimo tempo, oltre ad affilare lame, rasoi, coltelli e forbici di casa, grazie ad una mola che azionava tramite i pedali della bicicletta, una volta alzata su di un cavalletto, dopo aver staccato la catena dalla trasmissione del velocipede alla mola.

“Jamme ca varrichina” (andiamo con la candeggina) era il grido del venditore di detersivi. Con il suo pulmino chiuso, era avanti tecnologicamente rispetto agli altri, utilizzava già un megafono amplificato. La potenza del suo grido gli permetteva di poter rimanere in strada, senza entrare nel nostro cortile.

Svariati, invece, erano i verdurai, alcuni con il carretto trainato da animali da soma, alcuni con motocarri. Tutti accomunati dall’urlo quasi simile, che richiamava alle loro verdure e frutta di stagione. Ricordo uno in particolare che vendeva i cocomeri che richiamava la gente con “so’ russi, so’ belli, magni, bive e te lavi ‘a faccia” (sono rossi, sono belli, mangi, bevi e ti lavi la faccia).

Molti di questi venditori si alternavano con le stagioni diverse. 

Nei mesi estivi passava, con la sua cesta in testa, tremendamente in equilibrio, la “Cevezara” (venditrice di gelsi), venditrice di dolci more, gelsi e fragole, ottime anche per le marmellate. Con una voce stridula e forte richiamava al grido di “so  ddoce ‘e ceveze” ( sono dolci i gelsi).

In autunno capitava il “semmenzaro” (venditore di sementi secche), con una bicicletta con un grosso cesto pieno di lupini, semi di zucca, frutta secca varia al grido di “tengo e salatielli, vieni a pruvà” (ho i semi salati vieni a provarli).

Talvolta avverto la nostalgia del “grido” del venditore ambulante, figura che è ormai tramontata.

A piedi o con il carrettino, carichi di una merce da reclamizzare attraverso le loro colorite costruzioni verbali.

Erano gli ambulanti con la loro unicità nella forma espressiva, la precarietà del loro lavoro, l’avventatezza di quel commercio al minuto spesso senza nessuna organizzazione, si fidavano e si affidavano ai loro richiami coloriti per catturare compratori. La necessità di sopravvivere, commisurata all’importanza della vendita del loro prodotto o all’offerta dei loro servizi li rendeva riconosciuti e validi nel momento del bisogno.

Ottobre 2024

Nello Ricciardi


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Lo Stracciaio


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