Ospedale Ascalesi |
Le idi di febbraio del 1967 mi portarono febbre altissima e continua, accompagnata da fortissimi mal di gola. L’impossibilità di mangiare e bere, debilitava il mio povero fisico già fortemente provato ed asciutto all’inverosimile. Mia mamma preoccupata per il mio repentino calo di peso, mi portò dal dottore che dopo aver cercato invano di ispezionare la mia gola, utilizzando il solito, a me fortemente inviso, manico del cucchiaio per schiacciare la lingua, dopo sei o sette iniziali conati di vomito, con il serio pericolo di fuoriuscita delle orbite oculari dalla loro sede naturale, rinunciò ad infierire, sentenziando una abnorme infiammazione delle tonsille. Non preoccupatevi, riferì a mia mamma, una bella cura con sei fiale di penicillina intramuscolo, risolverà al meglio il brutto malore. Nel mentre che il dottore pronunciava questa ultima frase, la mia mente iniziò velocissimamente a percorrere la nostra casa, in cerca dei vari nascondigli utili a non farsi trovare dalla nostra vicina, “zi’ Felicella”, deputata occasionalmente ad infermiera volontaria di tutto il vicinato.
Il primo nascondiglio utilizzato non funzionò. Mi attaccarono su tre lati e senza alcuna pietà per i miei lacrimoni, mi trascinarono fuori da sotto il letto. Non volevo guardare quello scatolino d’acciaio pieno d’acqua bollente, contenenti gli strumenti di tortura per i malcapitati bambini inermi.
Zi’ Felicella, che doveva scegliere l’ago, diceva che a suo insindacabile parere, avrebbe dovuto utilizzare l’ago più grosso, ovviamente, per via della polvere contenuta nella penicillina. Alle sue parole cercai di trasformarmi in una biscia per svincolarmi dalla possente presa rugbistica di mio padre. Non ci fu alcun combattimento, la lotta era impari ed ero destinato a soccombere contro tutte le mie volontà. A nulla servirono le mie promesse urlate riguardanti la revisione e remissione in tutto nel mio carattere, già di per sé buono, che sarebbe diventato fin da subito angelico. L’ago rigido, freddo e ciclopico entrò nel mio piccolo gluteo irrigidito fino allo spasmo, con la stessa forza che parimenti l’urlo gigantesco uscì dalla mia gola seppur già torturata dalle tonsille.
Il dolore che mi procurò il liquido denso, mi portò quasi allo svenimento, dalla bocca non usciva più un alito di fiato, solo gemiti di sottomissione.
Subito dopo fui liberato da tutte le prese, scappai velocemente e raggiunsi immediatamente il nascondiglio purtroppo già violato, ancora con il pantaloncino abbassato.
Altre cinque strazianti puntate, dello stesso identico copione, si susseguirono nei giorni successivi. Tutti i miei nascondigli furono deliberatamente forzati e scoperti.
Nonostante questi sacrifici e sofferenze, la febbre non calava, ormai avevo perso il conto dei giorni di scuola che stavo perdendo.
Frequentavo la prima elementare, mia mamma preoccupata per le troppe assenze scolastiche, una mattina decise di accompagnarmi a scuola, per parlare con la mia cara maestra.
Giunti in classe, di corsa, occupai il mio solito posto, il primo banco. Ho sempre amato occupare quella posizione, anche negli anni a seguire, mi dava sicurezza e non mi consentiva opportunità di distrazione. Ero molto attratto dalle due enormi cartine geografiche, l’Italia politica e quella fisica, poste sul muro dietro la cattedra. Inoltre amavo ripassare nella mente tutte le grandi schede con disegni colorati che riportavano le lettere iniziali degli oggetti ivi rappresentati. Scritte in stampatello, in corsivo, minuscolo e maiuscolo, nei quattro angoli, formavano le ventuno lettere dell’alfabeto italiano.
Ero felice di stare li quella mattina, con il quaderno aperto sul banco e la penna già pronta per scrivere.
Non persi però l’occasione di ascoltare la conversazione tra mia mamma e la maestra.
Tra i vari discorsi riuscii a capire che da li a poco avrei dovuto ricoverarmi per l’asportazione delle tonsille. Mia mamma era angosciata al pensiero degli ulteriori giorni di assenza che avrei accumulato oltre a quelli già passati. La maestra la rassicurò, le disse di non preoccuparsi, in quanto ero un bambino diligente, disse proprio così, abbastanza avanti nell’apprendimento e che sapevo già leggere e scrivere molto bene e che ci avrebbe pensato lei a giustificare nei confronti del direttore le mie numerose assenze.
Stava per arrivare la primavera, ma molto prima di essa arrivò inesorabile il giorno previsto per il mio ricovero in ospedale. Accompagnato dalla mamma, prendemmo il treno della Vesuviana da Marigliano a Napoli. Non stavo bene, ero fortemente debilitato ed ero tormentato dalla febbre che non mi dava tregua.
Mia mamma mi teneva per mano, gliela tenevo stretta sapendo che da li a poco avrei dovuto lasciarla. Durante il tragitto mi spiegò il motivo di quel viaggio, mi disse che avrebbe dovuto lasciarmi nell’ospedale qualche giorno, in modo che i dottori potessero finalmente liberarmi dal mostro che si era impossessato della mia gola.
Arrivati alla stazione di Napoli, ci dirigemmo verso Porta Nolana, attraversandola. La mamma volle entrare in una chiesa lungo la strada, mi disse che lei si fermava spesso a pregare in quel luogo, quando si recava al suo lavoro, situato qualche centinaio di metri più avanti, lungo il Corso Umberto I.
La chiesa di Santa Maria Egiziaca a Forcella era situata a ridosso del popolare quartiere Forcella, affacciata sul Rettifilo (Corso Umberto I). Entrammo in quella chiesa, mi sembrò subito molto più grande di quanto dava da dimostrare esternamente. Ci sedemmo in una delle prime panche, dopo aver inserito qualche spicciolo nell’offertorio sotto il quadro della Madonna, a cui mia mamma volle raccomandare il suo figliolo ammalato e quello che aveva in grembo, tendendomi la mano aperta sulla testa.
Uscimmo dalla chiesa per incamminarci verso il vicinissimo ospedale, lasciammo la famosa piazzetta del Cippo a Forcella a sinistra ed arrivammo davanti all’ingresso del nosocomio, situato di fronte ad una grande fontana che mi intimorì non poco.
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Fontana della Scompigliata |
La vecchia struttura ospedaliera era proprio di fronte, alla fontana, con i muri ammalorati e quasi senza intonaco.
L’ospedale Ascalesi, si trovava in quell'antico complesso da circa una cinquantina di anni, aveva preso il posto di un monastero. Costruito nel trecento dalla regina Sancha d’Aragona, moglie di Roberto D’Angiò, per ospitare le prostitute pentite. Il complesso, comprendente la chiesa, fu dedicato a Santa Maria Egizica, la santa vissuta da eremita in Egitto, dopo una vita fatta di elemosina e prostituzione.
Delle fasi concitate del ricovero non ricordo granché, solo carezze sulla testa dei vari addetti in camice bianco a compassione del mio fisico fortemente debilitato. Ricordo bene che tutti mi presero in giro quando mia mamma mi spogliò per mettermi il pigiama.
Trovarono il mio povero fisico fortemente dimagrito ed in contrasto con la pancia voluminosa, tanto da accostarmi ad un bambino del Biafra.
Molto indispettito, giurai di rifarmi presto del mio fisico, mantenendo però intatto il volume della mia pancia. Devo dire, al cospetto di tanti anni, di aver mantenuto la promessa.
Mi ritrovai da solo, impigiamato e sistemato in un letto che mi sembrava enorme per il mio fisico minuto. Eravamo in otto ragazzi in quello stanzone, io ero visibilmente il più piccolo. Mi sentivo gli occhi addosso e cercavo di nascondermi sotto le lenzuola, per sfuggire ai loro sguardi indiscreti ed interroganti. Rimuginavo circa la “scapellata”, pensando che di notte potesse attraversare l’enorme finestrone per venirmi ad ispezionare la gola. Non ci potevo pensare. Quando stavo per acquetarmi da questi brutti pensieri sentii una presenza vicino al letto. “Guagliò scetate, amma piglià nu poco e sango” (ragazzo svegliati, dobbiamo prendere un po’ di sangue). L’infermiere nerboruto e con la voce roca, faceva paura, rimasi impietrito, non riuscivo a fare nessun movimento. Mi prese il braccio e mi lego un laccio di gomma, mi disse di guardare dal lato opposto, non riuscii a girare il collo, bloccato come uno stoccafisso in tutto il corpo. Quell’ago entrò ed uscì in svariati punti del mio braccio innumerevoli volte. Sudavo freddo e cominciai a tremare, conati di vomito non trovavano la strada nella gola ostruita e ritornavano violentemente nello stomaco striminzito e pieno d’aria. Girò attorno al letto, senza aver prelevato una goccia di sangue. Si impossessò dell’altro braccio. Altro laccio di gomma, più volte stretto, slegato e riallacciato in varie posizioni. Ma è incredibile, disse con meraviglia, Biafra non ha le vene. I miei occhi ormai pieni di lacrime si spalancarono, la mia mente andò indietro nel tempo per cercare di capire in quale circostanza avrei potuto smarrire le mie vene.
Arrivarono altre due infermiere, dopo svariati tentativi fatti dal trio vestito di bianco, finalmente una di loro trovò la fatidica vena, ubicata a loro dire profondamente, nel dorso della mano. Al termine, le mie esili braccia erano ricoperte da numerosi lividi di vario colore e cerotti, mi sembravano la cartina fisica dell’Italia appesa nella mia scuola.
Il supplizio dei prelievi del sangue durò per l’intera settimana. Ero esausto, senza forze e molto preoccupato. Oltretutto non vedevo mia mamma da qualche giorno. Una mattina la intravidi nel corridoio, feci uno sforzo per alzarmi e mi trascinai da lei. Anche le gambe mi facevano male. Sentii un dottore che le diceva di essere preoccupato, in quanto nonostante le forti dosi di antibiotico, il quadro clinico non migliorava. Le tonsille erano infettate e purulenti, si prospettava una operazione molto più complessa del dovuto. Intanto chiesero l’autorizzazione a mettermi una cannula dal collo per evitare di bucarmi in continuazione le membra, senza più spazio dove cercare le vene buone.
La mamma scoppiò a piangere, andai veloce per quanto potessi verso di lei, mi abbracciò continuando a piangere. Cercai di rincuorarla e le dissi di stare tranquilla che avrei accettato qualsiasi cosa pur di tornare presto a scuola.
Quella stessa mattina, un ago si fece strada nella mia gola per lasciare un tubicino fermato con vari cerotti. Quella, nei giorni a seguire diventò l’unica via per i continui prelievi e flebo, sia per introdurre medicinali che supporti all’alimentazione, visto che dalla bocca entravano solo cibi liquidi.
Passarono una decina di giorni abbastanza tranquilli, senza più punture, la febbre sparì del tutto, cominciai anche a camminare speditamente in giro per il reparto. Tutti mi conoscevano, ricoverati e personale medico ed infermieristico, purtroppo con il nome di Biafra, ed avevano compassione per me. Tutti in qualche modo mi coccolavano, vedendomi quasi sempre solo, senza familiari. Io però sapevo che mia mamma era impegnata con il lavoro e mio padre era impossibilitato a venire a trovarmi.
Finalmente il 27 marzo, giorno di Pasqua, al mattino, con mia grande meraviglia vidi entrare nella camera la mamma, con un pancione enorme, il papà e mio fratello Giacomo. Scoppiai a piangere. Li abbracciai forte tutti. Mi portarono tanti doni, ma il più gradito fu quello consegnatomi da mio fratello.
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Quelle feste pasquali passarono senza lasciare nessun ricordo. Il mio impegno era tutto mirato a completare il mio prezioso album. A giorni alterni passava mia mamma e oltre a regalarmi qualcosa di dolce da mangiare, mi lasciava sempre qualche agognata bustina di calciatori. Tante persone che mi vedevano sempre solitario mi regalavano bustine di figurine, altri mi portavano i doppioni dei loro figli. Anche alcuni infermieri e dottori mi assecondavano nel mio unico passatempo.
Passarono così circa quaranta giorni, ormai conoscevo tutti in quell’ospedale e tutti mi conoscevano. Una mattina arrivarono insieme la mamma e papà. Mi preoccupai di vederli insieme, in passato era capitato giusto in pochissime occasioni. La mamma mi disse di non preoccuparmi e di conservare le mie forze, perché quella mattina, finalmente mi avrebbero tolto il mostro dalla gola. Mi stesero su una barella e mi portarono in sala operatoria. Non ricordo più nulla! Ho rimosso dalla mia mente quel supplizio. Ero di nuovo seduto nel mio letto, con la gola arsa ed il sentore di continuare ad ingoiare sangue. Dopo qualche giorno cominciai a bere liquidi freddi e poi di seguito dei brodini e poi, finalmente tornare alla normalità.
Stavo bene, non avevo più mal di gola, ero rinato. Mi dissero che erano passati quarantacinque giorni che ero ospite dell’Ascalesi e che quel pomeriggio sarebbero venuti i miei familiari per portarmi a casa.
Preparai tutte le mie cose da portare a casa, pronto e vestito. Quando vidi la mamma in lontananza corsi verso di lei. L’abbracciai e la pregai di portarmi subito a scuola, non volevo più rimanere lì, tanto l’album dei calciatori l’avevo completato. Anzi no, mi mancava lo scudetto della Juventus ed il portiere della Roma, Pizzaballa.
Ma non sentivo alcun bisogno di averli.
Napoli, aprile 1967
Nello Ricciardi
3 commenti:
Fantastico racconto non l'avevo ancora letto, è impressionante la tua memoria così dettagliata dei fatti...ti ricordi addirittura che ti avevo portato io l'album della Panini, comunque anche io ero molto attaccato a te e mi mancavi...e quel mio bene e cresciuto sempre nei tuoi confronti...ho avuto per te sempre un senso di protezione e oggi tu continui ad essere nel mio cuore e ci resterai per sempre.
Ma che magnifico racconto! Noi boomer siamo accomunati da quella polvere micidiale chiamata penicillina!
Complimenti, la capacità narrativa è notevole, quel piccolo ometto non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe stato oggetto di blog
Grazie Rosi. Quel piccolo ometto, addirittura non avrebbe mai immaginato che, alla soglia dei sessant'anni, sarebbe diventato un amante delle danze caraibiche.
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