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venerdì 25 novembre 2016

IMBARCO SU NAVE AUDACE


Finalmente, con la quarta alba ad Augusta, arrivarono anche le agognate navi.
Non vedevamo l’ora di salire a bordo e lasciare quella desolata caserma sulla terraferma.
Eravamo felici più del solito, sentivo l’adrenalina circolare sotto pelle. Finalmente potevo iniziare a fare il marinaio, il segnalatore.
Ci ritrovammo tutti pronti, il gruppetto di allievi appena congedati dalle scuole sottufficiali, sul molo dell’arsenale di Augusta ad aspettare le rispettive motobarche inviate a terra dalle navi, in attesa nella calma rada.
Nave Audace si stagliava sullo sfondo, leggermente più lontana delle altre, che formavano parte della Prima Divisione Navale.
Nonostante la mole imponente, si stagliava sull’orizzonte slanciata ed elegante.
Il cacciatorpediniere lanciamissili Audace, gemella dell’Ardito, dislocava i suoi oltre centoquaranta metri di lunghezza in mare, con la grazia di una ballerina.
Nei suoi contorni spiccavano, poderosi, i due cannoni 127/54 ubicati a prua sotto la plancia.
Cominciai a pensare a quanto tempo ci sarebbe voluto per conoscere  e dove stavano i circa quattrocento marinai ospitati a bordo.
Arrivò finalmente la motobarca con la scritta Audace. Salimmo, ognuno con i propri numerosi e pesantissimi bagagli, contenenti tutta le nostra mercanzia. Eravamo una decina di ragazzi al primo imbarco, riconoscibili dalla divisa impeccabile, ed un certo numero di sottufficiali in abiti civili, che rientravano dai vari permessi. La motobarca si diresse verso il largo, lento moto. Il fumo nero ed acro che fuoriusciva dalle fiancate, ogni tanto lasciava il suo olezzo puzzolente. Arrivammo finalmente ai piedi di un barcarizzo, scala retrattile che viene calata sulle mure delle navi, per far salire o scendere le persone.
Quella specie di scala appesa era abbastanza scomoda e stretta,  dovetti fare su e giù due volte per riuscire a portare tutti i bagagli.
Gloria Audaciae Comes, il motto della nave stampigliato in bronzo, dava il benvenuto a bordo.
Un sottufficiale di guardia raccolse i vari documenti e chiamò i rispettivi segretari dei reparti a cui dovevamo appartenere a seconda delle categorie e delle specializzazioni possedute.
Arrivò un sergente con l’uniforme jeans di lavoro e chiamò a se tutti gli specialisti delle telecomunicazioni, a cui io appartenevo.
Finalmente entrammo nel ventre della nave. Percorremmo tutta una serie di scale passando varie porte normali ed a chiusura stagna. Mi ero già praticamente perso.
Nei corridoi attraversati era tutto un andirivieni di marinai. I corridoi pavimentati di un lucido azzurro  e le pareti interne dipinte di bianco davano un senso di calma e benessere. Dovunque si sentivano  ronzii vari, talvolta misti a sibilo, quel rumore tipico della vita della nave, che accompagna tutta la carriera i marinai.
Arrivammo davanti ad un’angusta cabina che fungeva da segreteria. Sulla scrivania solidale con la parte interna erano collocate due grosse macchine da scrivere elettroniche.
Il sergente cominciò a redigere il pandettamento (una specie di cartella personale contenenti i dati personali) di ognuno di noi.
Alla fine fui assegnato al Servizio Operazioni, seconda squadra, operatore in plancia.
Mi accompagnarono all’alloggio, posto a centro nave. Passammo attraverso la mensa marinai, formata da due sale con i tavoli comprensivi di quattro posti fissi.
Scendemmo di un livello ed arrivammo in uno degli alloggi marinai.
Mi venne assegnata una brandina al terzo piano. Sotto la prima cuccetta c’erano tre cassettoni, uno di quello era il  mio. Per aprirlo bisognava chiedere all’occupante del primo piano di alzarsi.
Su di un lato, appena più  spostato, c’era il mio armadietto, non più alto di cinquanta centimetri. Quello era tutto lo spazio che avevo a disposizione. Mi chiesi subito come avrei fatto a riporre ed a mettere a posto ed in ordine tutto il vestiario, civile e militare che avevo a seguito.
Il sergente mi disse di lasciare per il momento tutti gli zaini a terra e di seguirlo.
Gira di qua, gira di là, ogni tanto qualche rampa di scala, arrivammo ai piedi di una scala molto più bella delle altre, con i passamano lustrati di ottone e gli scalini coperti di moquette. In alto si intravedeva la luce del sole.
Ai piedi della scaletta, in un angolo, c’era una piccola porticina che accedeva ad un piccolissimo ufficio, non più grande di quattro metri quadrati. Dentro uno strumento che faceva un baccano continuo ed emetteva da un lato un lunga striscia gialla tutta punzonata.
Era una telescrivente. Seduto davanti c’era il sergente segnalatore Guarna, che con un accento spiccatamente fiorentino diede il benvenuto ai nuovi tre segnalatori.
“Meno male, vi aspettavo. Da domani verrete a fare le guardie qui con me,  in questo ufficio” esordì tutto contento. Praticamente era il posto dove arrivava e veniva smistata tutta la posta via etere della nave.
“Ora andate da Capo Stefanelli, il capo segnali che vi aspetta in plancia”, ci congedò Guarna.
Il capo segnali indossava una tuta intera blù con un largo cinturone dello stesso colore. I pochi capelli canuti ed il colorito rossiccio della pelle bruciata dal sole gli donavano un’aria sapiente.

Il capo ci salutò uno ad uno chiedendoci la provenienza. Dopodiché ci disse in genovese: “Benvenuti in plancia, questa, oltre all’alloggio sarà il posto dove passerete la maggior parte del vostro tempo a bordo. Però ora non vi perdete in chiacchiere, andate a togliervi la divisa ordinaria e mettete gli abiti jeans da lavoro, ho giusto tre nuovi pennelli da consegnarvi. Ricordatevi che il motto per tutti, sulla nave è: Pennello e pittura carriera sicura”!

domenica 30 ottobre 2016

CICCIOBELLO

Il Varignano mi catturò. Dopo le scrupolosissime visite mediche, a cui fui sottoposto presso l’ospedale militare di La Spezia, ed i tre giorni di faticosissimi test fisici, fui dichiarato idoneo a provare a frequentare il corso Incursori della Marina Militare, appunto presso la caserma del Varignano.
Eravamo in cinquantotto ragazzi, con età media di venti anni, che superammo tutte le prove previste.
Ci alloggiarono tutti in uno stanzone enorme, circondato da grigi armadietti metallici. Al centro dell’enorme camerone vi erano due file da venti letti a castello, i restanti diciotto trovarono posto in un camerone attiguo, leggermente più piccolo, diviso da grossi tendoni pesanti blue scuro.
Quest’ultimo camerone aveva quattro grossi finestroni che affacciavano nel piazzale principale. Dalle soglie superiori delle finestre partivano in obliquo verso il sottostante selciato, delle draglie (funi) di acciaio fasciate con della cima di canapa. Questo era il mezzo per salire nei cameroni dopo le attività. Le scale, che pure esistevano si potevano utilizzare solo se autorizzati.
Iniziai a svuotare due enormi zaini contenente tutto il vestiario consegnatoci per affrontare le varie fasi del corso. Fu un’impresa veramente difficile, sistemare tutto per bene nell’angusto armadietto assegnato.
La mia preoccupazione maggiore era rivolta ai pensieri che mi frullavano nella mente.
Come potevo affrontare un corso simile della durata di un anno, fatto principalmente di impegno fisico e sacrificio mentale?
Come potevo sopportare tutto quello che mi si sarebbe prospettato, fin dal giorno dopo, considerando la mia proverbiale pinguedine che mi aveva portato a pesare novantasei chili. Oltretutto avevo saputo, da un maresciallo che conoscevo, i risultati dei miei test fisici.
Prova di velocità cento metri: appena sufficiente; prova sui quattrocento metri: appena sufficiente; prova sui duemila metri: da rivedere; prova di salita alla fune: superata con riserva; prova di salita alla pertica: cinquanta per cento.
Giudizio finale: ammesso con riserve.
Non ce l’avrei mai fatta, ma ormai ero lì e non avevo nulla da perdere. Ogni giorno era buono per tornarmene a bordo della mia nave.
La sera, la stanchezza si impadronì del mio corpo e mi immobilizzò nel letto, ma la notte passò presto, troppo presto.
Alle cinque e cinquanta, ora della sveglia mattutina, l’allievo di guardia svegliò tutti. Avevamo solo dieci minuti per lavarci, sistemarci per bene, fare il letto in modo perfetto ed ordinare tutto nell’armadio. Nulla doveva essere lasciato fuori in vista.
Alle sei in punto, inquadrati e coperti, in assemblea nel sottostante piazzale. Indossavamo la tuta azzurra di cotone e le scarpe alte a suola bassa marca superga. Scarpe che sarebbero servite per tutte le attività in caserma.
Ci aspettarono quella prima mattina quattro istruttori più il direttore del corso.
Dopo alcune raccomandazioni, ci sistemarono in fila indiana, esortandoci al silenzio monacale ed a seguirli nel percorso mattutino di condizionamento fisico, che sarebbe durato all'incirca un’ora.
Il maresciallo più anziano, che gli altri chiamavano “il biondo” cominciò a correre, in testa alla fila, gli altri si sistemarono lungo tutta la fila a cercare di far serrare i ranghi ai ritardatari.
Cercai di stare al passo, ma già dopo cinquecento metri cominciai a sentire il cuore in gola. Non sarei mai riuscito a tenere quel ritmo. Sembrò quasi che il capo m’avesse ascoltato, perché cominciò a rallentare, consentendomi così di racimolare un po’ di fiato. Le discese si susseguivano alle salite. Il Varignano, costruito sull’estremità di una collinetta affacciata sul mare offriva questo tipo di percorso. Sembrava studiato apposta. Dopo una ventina di minuti, qualcuno cominciava a rimanere indietro, assistito da uno degli istruttori che chiudeva la fila. Il mio cuore ormai era arrivato in testa e pulsava nelle tempie. Il respiro era diventato sonoro ed annaspante. Il cuore mi chiedeva di fermarmi, ma la ragione prendeva il sopravvento. Non potevo mollare proprio il primo giorno. Salita, discesa, salita, discesa, “il biondo” non si fermava mai. Le gambe dure, i muscoli tesi in uno spasmo di dolore, cominciavano a sentire tutto l’acido lattico prodotto a dismisura.
Arrivammo nel piazzale, “il biondo” finalmente si fermò. Mi piegai in due e vomitai tutta la bile possibile.
Una ventina di allievi arrivarono con qualche minuto in ritardo, accompagnati da altri due istruttori.
Eravamo tutti provati dopo quaranta minuti di corsa continua. Con la bocca spalancata cercavo di reclutare più aria possibile da mandare giù nei polmoni che si aprivano e chiudevano come mantici.
“Il biondo” mi si avvicinò e con il tipico accento bresciano mi disse: “Bravo CICCIOBELLO. Non avrei mai creduto che saresti arrivato fin qui con il gruppo di testa. Ma se non hai mollato oggi mollerai sicuramente domani!”
Cominciammo a fare esercizi di defaticamento e di preatletismo, per una ventina di minuti ancora.
Ma il maresciallo mi aveva messo un’altra pulce nell’orecchio. Anzi due. Perché credeva che ce non l’avessi fatta? Perché mi appioppò quel nomignolo, Cicciobello?
Le risposte le ebbi dopo la doccia, mentre ero davanti allo specchio a farmi la barba.
Ma certo, lui facendomi sentire non all’altezza del compito, forse voleva spronarmi a reagire, ed io così farò, pensai spronandomi mentalmente. Ed il nomignolo? Ma certo, non era riferito alla mia pinguedine, ciccio, ma alla sola seconda parte del nome, bello!
Mi sorrisi consapevole allo specchio ed andai felice e sicuro ad affrontare il resto della giornata.
A quella giornata succedettero altre trecentotrenta giornate circa. Tutte faticose e dure quante le altre. Alla fine, da quel camerone, uscimmo solo dieci sottufficiali e due ufficiali. Avevamo superato il corso. Indossavamo il Basco Verde da Incursore. Avevo perso la prima parte del mio nomignolo, pesavo settantadue chili. La seconda rimase per svariati anni ancora.

p.s. : Da quel giorno, gli operatori incursori del  Varignano, mi chiamarono affettuosamente Cicciobello. Ancora oggi. Ma voi che leggete non vi azzardate a farlo. Solo gli uomini autorizzati ad indossare quel Basco Verde possono chiamarmi così.

giovedì 20 ottobre 2016

IL LAVORO MINORILE - PALA E PICCONE


Nessuna sorpresa arrivò per me dall'uovo di pasqua del 1974. Il fastidio che avvertivo al braccio sinistro, nella parte alta dell'omero, cominciò a manifestarsi anche con dolori frequenti. Fu così che l'ortopedico decise di inviarmi in ospedale per mettere fine al mio calvario ormai quotidiano. Erano anche parecchi giorni che saltavo i giorni di scuola e non potevo continuare a farlo.
Fui ricoverato all'ospedale di Nola, dove si decise di intervenire chirurgicamente.
Nola era anche la città dove frequentavo il primo anno di ragioneria. Mia mamma mi accompagnò in ospedale e mi chiese di aver molta pazienza e rassegnazione.
Dovetti, infatti, rassegnarmi a stare da solo, perché nessuno dei miei genitori potevano darmi assistenza durante l'ospedalizzazione.
Negli anni settanta i ricoveri in ospedale duravano tantissimi giorni. Ricordo che tra preparazione, operazione e post intervento, rimasi con medici ed infermieri più di venti interminabili giorni.
Una mattina, quando meno me lo aspettavo, un infermiere mi disse di prepararmi che lasciavo finalmente il mio posto a qualcun altro.
Mi feci aiutare nel vestirmi e mi apprestai a lasciare l'ospedale. Non avevo soldi con me né potevo avvisare nessuno a casa, non avevamo il telefono in famiglia.
Per fortuna avevo con me l'abbonamento studenti per i treni della circumvesuviana, proprio nella tratta Nola-Marigliano.
Fui dimesso dall'ospedale con il braccio immobilizzato e con la prognosi di venti giorni di ulteriore convalescenza.
Alla fine dei conti persi più di quaranta giorni di scuola, proprio nel pentamestre finale. Quando mi presentai a scuola, accompagnato da mia mamma, ci accolse la preside. Non fu per nulla ottimista e mi chiese di provare a frequentare le lezioni per capire se riuscivo a mettermi al passo con gli altri.
Volli provare, ma fu un'impresa impossibile. La stenografia, già materia a me abbastanza invisa, era diventata peggio dell'arabo. Non ci capivo più nulla. Matematica e geometria uguale. Lo stesso per le altre materie. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile. Decisi così di ritirarmi da scuola. Tanto avevo la licenza media e tanta voglia di lavorare.
Aspettai giusto il tempo che il dottore mi dichiarasse finalmente guarito anche dai punti di sutura.
Sapevo già cosa volevo fare per guadagnare qualcosa. Nei periodi di convalescenza andavo a vedere come lavoravano alcuni miei amici, un pochettino più grandi di me. Mi piaceva quel gruppo che stava lavorando, come muratori, nel costruire un campo di gioco per le bocce, commissionato dai frati Francescani di San Vito.
Lavoravano sodo tutto il giorno, ma c'era tanta armonia ed amicizia tra di loro, erano dei giocherelloni. Si divertivano lavorando.
Fu così che chiesi a Carmine, il capo, se mi prendesse a lavorare con lui.
Mi disse che al termine di quel lavoro, ne avrebbe iniziato un altro e sicuramente avrebbe avuto bisogno anche di me.
Ero felice e non vedevo l'ora di iniziare, non mi interessava neppure sapere quanto avrei guadagnato. Il solo fatto di poter andare a lavorare e stare tutto il giorno con Massimo, il fratello del capo e soprattutto con Andrea, un burlone nato, mi avrebbe ripagato di tutto.
Arrivò finalmente il fatidico giorno. Ci presentammo tutti e quattro da signor Raia, per prendere atto del tipo di lavoro da fare.
Il signor Raia era molto conosciuto a san Vito, un uomo dal fisico statuario, una presenza forte ed un rigore indiscusso. Era un brigadiere dei carabinieri in pensione e prestava il suo tempo al servizio dei frati del convento. Era il tuttofare e uomo di fiducia.
Ci portò all'interno del convento, fino ad un seminterrato che andava in discesa, fino ad interrompersi di fronte ad una porticina non più alta di un metro. Era tutto buio e umido. Il signor Raia spiegò a Carmine che dietro quella porticina ci sarebbe dovuto essere una specie di sottopassaggio che collegava il convento dei frati a quello delle monache e che sarebbe servito ai frati per recarsi al refettorio situato dalle vicine suore.
In pratica, con l'uso di pale e picconi, avremmo dovuto scavare sotto quella volta di mattoni, liberarlo dalla terra per creare un passaggio comodo e sicuro.
Iniziammo il lavoro. Eravamo in quattro, io il più giovane, Massimo ed Andrea due anni più di me, Carmine, il più vecchio, non aveva più di venti anni.
Carmine, con la sua forza spaventosa, si mise subito all'opera con il piccone, Massimo con la pala riempiva le carriole che io ed Andrea le facevamo percorrere avanti ed indietro, portando all'esterno la terra spalata.
I giorni passavano, la terra portata via era tanta e tanta ancora ne rimaneva da spicconare. Le mie mani, non abituate a quel tipo di lavoro gridavano pietà. I calli avevano ormai preso il posto delle vesciche ed iniziai ad andarne fiero.
La sera ero stanco morto, ma la mattina riandavo a lavorare molto volentieri, perché si stava davvero bene insieme a loro. Nonostante la fatica fosse tanta, era sempre tutta una risata,con Andrea non poteva essere altrimenti. Sempre la battuta pronta, sempre attento a cogliere l'attimo per inventare qualcosa su cui ridere. Finalmente un giorno cadde l'ultimo diaframma che portava al convento delle suore. La fessura nel muro diventava sempre più ampia e la luce inondava quella caverna illuminata dalle candele.
Con grande sorpresa ci venne a far visita suor Candida, che ci portò da bere dei succhi di frutta fatti da loro, una bontà. Li bevemmo con avidità. Poi ci offrì delle fette di pane con della confettura di arance del convento. Una prelibatezza.
Tutti i giorni, Andrea, che aveva il dono dell'ilarità e della sfrontatezza andava a chiedere succhi e marmellata alla suora, che non sapeva dire di no.
Quel lavoro durò quasi tutta l'estate. Poi andammo a lavorare in un altro posto.
Io però lasciai quella squadra di lavoro, a malincuore. Volli riprovare ad andare a scuola.
Mi iscrissi al primo anno dell'ITIS di Somma Vesuviana. Ma questa è un'altra storia.
Marigliano, settembre 1975

Nello Ricciardi

lunedì 19 settembre 2016

RITA

La vita dei giovani marinai è sempre stata descritta piena di avventure amorose e divertimento facile. Non sempre, però, nel mio caso, lo stereotipo ha rispecchiato la realtà. Ho sempre fatto molta fatica ad identificarmi nel personaggio tipico descritto nelle storie o nei film. La mia vita sentimentale ha sempre risentito del poco tempo, che il Varignano e la specificità altamente operativa della mia specializzazione, mi lasciava disponibile.
Il poco tempo utile allo svago e per rilassarci lo trovavo soprattutto dal pomeriggio del sabato a tutta la domenica, se non risultavo in servizio di guardia.
Fu proprio una di queste domeniche, che insieme al mio collega ed amico di sempre, mi apprestavo a partire, di buon ora,  dal Varignano per recarmi nel paesino di Montemarcello, dove eravamo stati invitati da alcune ragazze del luogo, conosciute il sabato pomeriggio precedente, a trascorrere la domenica con loro.
Come al solito toccava a me guidare la A112 azzurra metallizzata di Alessandro, lui non aveva la patente. Il mio piede destro, diversamente dal piede sinistro calzava una ciabatta, in quanto ero reduce da una operazione all'alluce. Ero da poco rientrato dalla licenza di convalescenza, che in parte avevo trascorso nel mio paese natio, a Marigliano, in provincia di Napoli, dove avevo la fidanzata.
Curavo sempre molto il mio vestire, sono sempre stato, da giovane, amante del vestito classico e comunque della cravatta, che non doveva mai mancare.
Così, anche quella mattina, avevo indossato il mio abito di fresco lana moderno ed elegante, grigio con i puntini neri, la camicia bianca con lo spillone color oro, che collegando gli angoli del colletto decorava il nodo della cravatta blu di lana, con la punta monca. La solita goccia inebriante di patchouli sul collo risultava come la ciliegina sulla torta. Mi piaceva sentirmi più adulto dei miei ventuno anni e forse nella testa e nel modo di pensare lo ero veramente.
La giornata  bella e piena di sole  ci regalava una temperatura settembrina ancora tutta da godere. Iniziammo ad impegnare la panoramica per Montemarcello, passando dalla frazione lericina Della Serra. Era la prima volta che percorrevamo quella strada. In uno dei rettilinei che forava la meravigliosa macchia mediterranea, dove dominavano lecci ed ulivi, si aprì uno squarcio nel verde che ci regalò un panorama da cartolina illustrata.
Ci fermammo ad assistere estasiati a quello spettacolo gratuito della natura. La parte terminale del Golfo Della Spezia si stagliava sotto i nostri occhi, che catturavano lo spazio turchino che contrapponeva Lerici a Portovenere, con il capoluogo incuneato sullo sfondo, riparato dalla imponente diga foranea. Le isole Palmaria e Tino confinavano all'altra estremità il mare aperto di un blù intenso.
Ci fermammo a contemplare affascinati quel paradiso naturalistico il tempo di una marlboro.
Riprendemmo il nostro viaggio solo per paura di arrivare tardi all'appuntamento con le ragazze di Montemarcello.
Arrivammo finalmente al parcheggio e ci dirigemmo al bar Arnold's. Beppe, l'anziano e taciturno gestore ci preparò due caffè.
Ci sedemmo in un tavolino all'esterno, su una specie di terrazzino che guardava il paese arroccato sulla cima, all'estremità del Caprione. Sembrava che si potesse racchiuderlo tutto nel pugno di una mano.
Ripassammo, per non sbagliare, i nomi delle tre ragazze che avevamo conosciuto la sera precedente, attribuendo ad ognuna il proprio, e che ci avevano invitati a ritornare quella mattina.
Poco dopo le vedemmo arrivare da una stradina che arrivava dal centro del paese, per la verità prima di vederle ne sentimmo il vociferare chiassoso e le risate senza senso tipiche della gioventù spensierata. Non erano tre, bensì un bel gruppetto di ragazze, più o meno della stessa età. Quelle che conoscemmo la sera prima si atteggiavano con le altre a conquistatrici e ci presentarono tutte le amiche. Piacere Nello, piacere Alessandro, dall'altra parte Monica, Anna, Serena, Barbara, Valentina, Antonella e Rita.
Ci invitarono subito a fare una passeggiata a Punta Corvo. Appena ci incamminammo a piedi e si accorsero che al posto della scarpa avevo una ciabatta, cominciarono a ridere a crepapelle ed a prendermi in giro, anche perché erano convinte, complice il mio amico Alessandro, che quello era il mio modo naturale di calzare le scarpe.
Durante quella passeggiata verso uno degli scorci più suggestivi del Golfo, come di consuetudine, approfondimmo le conoscenze. Naturalmente ci fecero mille domande sulla nostra provenienza e sul nostro lavoro. Tutto sommato erano tutte ragazze allegre, simpatiche e carine. Ma come succede sempre in questi casi, una suscitò più delle altre le mie attenzioni.
Aveva un modo di comportarsi leggermente diverso dalle altre, mi risultò fin da subito più sobria e riservata. Aveva dei capelli corvini pettinati in modo naturale che formavano una cascata di riccioli morbidi e vaporosi  dalle forme più disparate che declinavano dolcemente sulle spalle. Piccola di statura ma dal portamento aggraziato. Vestiva molto elegante e mi colpì il suo tailleur gessato blu, indossato su di una camicetta bianca con i voulant di seta. Le calze velate e il decoltè nero con il tacco importante, le conferivano il portamento di una donna di classe, nonostante i suoi sedici anni. Completavano il favoloso quadro di donna, le labbra segnate da un rossetto carminio, incastonate in un viso da bambola, davvero carino con due occhi grandi e neri che mi incutevano allo stesso tempo soggezione e tenerezza.
Immerso nei miei pensieri tutti rivolti ovviamente a questa ragazza, arrivammo al belvedere di Punta Corvo. Mi accorsi che qualcosa di strano mi stava succedendo, mi sentivo attratto troppo da questa bella ragazza. Avevo paura di sbagliare l'approccio. Mi avvicinai con una scusa e le chiesi se gentilmente mi ripetesse il suo nome. Mi guardò con i suoi occhi dolci e penetranti, da donna matura e mi sussurrò, Rita. 
Rimasi ammaliato!
Montemarcello settembre 1981
Nello Ricciardi

sabato 17 settembre 2016

CUORE E SCINTILLE

Nel mese di giugno del 1971 arrivò, per me,  anche l'ultimo giorno delle scuole elementari. 
Avevo terminato il primo ciclo delle scuole primarie con entusiasmo e senza particolari problemi. La licenza elementare mi portò, oltre alla consapevolezza di aver concluso un ciclo tutto sommato divertente, al pensare ad occupare le giornate in modo più proficuo e meno ludico. Insomma cominciavo a sentirmi grande e volevo dimostrare, soprattutto a me stesso questa presa di coscienza nuova che mi bolliva dentro.
Una mattina, dopo che mia mamma lasciò casa per recarsi al lavoro, confidai a mio padre la mia voglia di cercare un lavoro che tenesse occupato le mie giornate e che magari mi aiutasse ad esaudire qualche mio desiderio, primo tra tutti comprare il mio primo  libro. Ma non un libro qualsiasi. Mi erano rimaste impresse nella memoria le bellissime strorie che la maestra Correale ci leggeva ogni tanto da quel libro con la copertina di cartone pressato rosso e con il titolo impresso con i caratteri del color dell'oro. Racconti bellissimi di impegno, dedizione e senso del dovere, rispetto dell’autorità e della famiglia, amore per la patria, di solidarietà e di cuore.
Mio padre approvò la mia decisione ed uscii di casa per andare alla ricerca di un lavoro.
Mi diressi a piedi verso il centro di Marigliano, la mia città, non tralasciai nessuna attività, mi fermai a chiedere in tutte le botteghe e negozi di commercianti ed artigiani, ma non fui fortunato. Tutti guardavano la mia esile corporatura ed abbozzando un sorriso mi dicevano più o meno la stessa cosa  " ma cosa vuoi lavorare alla tua età, vai a divertirti con i tuoi amici e magari torna tra qualche anno". 
Non capivano nulla, non conoscevano nulla di Enrico, Garrone e di Precossi.
Quando ormai il sole cominciò a picchiare duro a filo a piombo sulla testa, stanco sfiduciato e arrivato quasi ai margini del lato opposto della città, vidi un uomo accucciato sotto  un camioncino semi arrugginito che con una specie di pistola in mano, che al posto della canna montava un filo lungo e consistente, con l'altra mano manteneva davanti agli occhi una strana maschera nera senza fessure e con un vetrino nero al centro. Ogni volta che l'uomo toccava con la punta della sua strana pistola il ferro, questo sprigionava migliaia di scintille colorate che andavano dal giallo all'azzurro, dal rosso al verde. Il suo viso veniva totalmente investito dalle faville e dal fumo acre che ne scaturiva, ma grazie al mascherone protettivo nero, la sua faccia ne usciva indenne ogni volta.
Rimasi affascinato ad osservare quello spettacolo, quando ad un tratto un signore mi esortò in modi bruschi a non guardare ed a girarmi dall'altra parte. Ma dall'altra parte non c'era nulla ed io indispettito tornavo ad ammirare quello spettacolo sfavillante.
Mi avvicinai all'uomo con la pistola di fuoco, quando finì il suo lavoro e gli chiesi se mi prendesse a lavorare con lui. 
Mi guardò e mi disse: "Cosa sai fare"?  "Nulla, ma vorrei imparare a fare le scintille," gli risposi.
L'uomo mi diede la mano e mi portò dentro l'officina. Il posto era abbastanza squallido, sporco e pieno di attrezzi e ferraglia sparsa in ogni dove.
"Ti voglio dare fiducia", mi disse, "entro stasera voglio che metti in ordine tutto qua dentro, sei libero di iniziare da dove vuoi". E se ne uscì.
Rimasi da solo dentro quel locale tetro, lurido e trascurato.
Cominciai a raccogliere chiavi inglesi, cacciaviti, martelli, pinze e tenaglie in ogni dove ed a riporli su un vecchio banco da lavoro ormai spoglio. Dopo un paio d'ore cominciai ad avvertire i morsi della fame, ma di mangiare non se ne parlava. Intanto le mie mani avevano acquisito una spessa patina di nero appiccicoso. L'uomo entrò con un'altra persona nell'officina e mi disse di muovermi perchè secondo lui ero troppo lento. Nel frattempo sistemò una barra di ferro in una morsa e cominciò a produrre le solite scintille variopinte. Mi fermai di nuovo a guardare ammirato quello spettacolo. Entrambi continuavano a dirmi di non guardare le scintille e di girarmi dall'altra parte. Ma perchè non dovevo assistere a quello spettacolo?
Giunse la sera tardi, il sole non c'era già più. Ero stanco stremato. l'officina era stata riordinata, dietro il banco facevano bella mostra appesi ed organizzati tutti gli attrezzi.
Il fabbro mi disse di andar via e che mi avrebbe aspettato l'indomani alle otto in punto.
La maglietta ed il pantalone erano praticamente lerci e pieni di unto nero. Arrivai a casa stremato, sporco ed affamato. Anche il contorno degli occhi era diventato nero per i continui sfregamenti delle mani sugli occhi, che nel frattempo cominciavano a farmi male seriamente.
Quella notte non riuscii a dormire continuavo ad avere i bagliori negli occhi e mi sentivo le orbite colme di sabbia. Mi mamma mi fece mettere due fette di patate sopra gli occhi per lenire il dolore.
Ma il mattino arrivò inesorabile. Gli occhi erano gonfi e rossi e la sensazione di sabbia dentro persisteva. Mi recai al lavoro. Tutta la settimana fu sempre la stessa  solfa. Mettere in ordine, pulire, rassettare, non guardare le scintille (finalmente ne capii il motivo).
Arrivò infine il sabato sera. Le mani sempre unte ed il rumore assordante dei colpi di maglio sulla lamiera, non mi fecero innamorare di quel lavoro. Ormai non mi piaceva neppure più guardare il fabbro saldare con le sue miriadi stelline colorate. O meglio non si poteva guardare.
Decisi così quella sera di mettere fine a quella brutta esperienza e ne resi partecipe il capo officina. Mi disse di non preoccuparmi, mi ringraziò e mi diede trecento lire. Praticamente cinquanta lire al giorno.
Ero felice, durante la strada del ritorno, fatta di corsa, mi fermai nella libreria al centro della città. Cercai affannato tra i tanti libri colorati e dalle copertine patinate quello che io volevo.
Non c'era. Chiesi all'edicolante. In mezzo a tanti libri che sembravano abbandonati in un angolo, prese in mano quello che volevo.
"CUORE" di Edmondo De Amicis. Prezzo 230 Lire.
Lo comprai e di corsa tornai a casa, diedi il resto dei soldi a mio padre. Quella sera non cenai neppure , aprii il libro ed andai subito alla ricerca delle storie più belle.
Marigliano, giugno 1971
Nello Ricciardi

venerdì 19 agosto 2016

LA TEMPESTA

L'alba era ancora seminascosta dalla linea alta e biancastra delle Apuane, nel cielo appena illuminato dalla timida luna, pascolavano greggi di nuvole che si muovevano lentamente verso sud.  La  brezzolina di maestrale, ancora acerba, si apprestava a gonfiare con fatica le nostre vele che da lì a poco avremmo issato, per dirigerci lentamente verso la meta assegnata.
La barca, costruita da un intraprendente gruppo di amici nel '92, aveva già navigato con diversi equipaggi ed aveva visto alternarsi  almeno sette comandanti più o meno abili alla navigazione, sempre comunque accorta,  il più delle volte a vista e senza allontanarsi mai in mare aperto.
Lo yacth si presentava in discreto  stato, ma con molte apparecchiature ormai obsolete da controllare o addirittura da sostituire.
Anche nel nostro caso, come di consuetudine e regole ben accertate, l'equipaggio fu scelto dai soci che armavano la barca. Ci accordarono la loro fiducia per i prossimi tre anni di navigazione, che avremmo dovuto diligentemente sfruttare per portare in acque tranquille ed acquisire agevolmente gli obiettivi che ci saremmo imposti e concordati con gli armatori.
Nessuno dei prescelti aveva esperienze di comando con una simile imbarcazione, anzi solo Fabrizio aveva guidato la barca, però quando era nuovissima ed appena uscita dai cantieri. Ma era passato troppo tempo e nel frattempo le regole di navigazione erano cambiate ed i codici e le norme erano diventati troppo cavillosi.
Prima di partire per la nostra navigazione ci assegnammo i compiti. Mio malgrado, fui proclamato skipper della barca con relativi compiti di supervisione e comando. L'ufficiale in seconda era Laura, una donna molto esperta in programmazione, conoscitrice di persone al di fuori delle nostre cerchie abituali. A Greta, la più giovane del gruppo, fu dato l'incarico di commissario di bordo e marketing.  Pietro, esperto commerciante, assunse il compito di furiere di bordo con compiti di daziere. Completavano l'equipaggio Clelia, che assunse i compiti di stampare i bollettini di bordo e di curare la cambusa, compito che divideva con Antonella, addetta anche alla comunicazione con gli Enti pubblici.
Prima di partire verso la nostra meta assegnata, controllai con meticolosità il livello di carburante.  Era veramente poco e ci avrebbe consentito pochissime miglia senza nessun porto raggiungibile facilmente.
Svuotammo i serbatoi e ne pulimmo il fondo dalla melma, in modo da avere gasolio pulito e filtrato nelle taniche. Nel frattempo avremmo dovuto viaggiare il più possibile a vela, per risparmiare il prezioso carburante, che ci avrebbe fatto navigare in tranquillità anche in acque più movimentate.
Appena fuori dal porticciolo, alzammo la randa, pronta a raccogliere il vento del nord, feci fissare il boma in maniera da non prendere subito troppa velocità.  Il mare di un blù intenso era particolarmente accogliente e la prua sbeffeggiava le piccole onde con armonia.
Eravamo  tutti in coperta ad ammirare i colori che ci offriva l'alba, consapevoli di poterci infilare in qualche pioggia o anche temporale , ma consci di essere una squadra unita da buoni intenti.
Durante la tranquilla navigazione, ci vennero incontro vari amici su diverse barche, chi ad augurarci il classico "in culo alla balena", chi ad offrire qualche litro di carburante da utilizzare nel lungo percorso. Non mancarono i naviganti che, seppur ben conosciuti,  ci offrirono la luce rossa di sinistra sfilando veloci verso l'orizzonte, senza nemmeno degnarci di un timido saluto.
Il sole era già abbastanza alto nel cielo, ma i cirrocumoli a pecorelle nel cielo avevano lasciato il posto a grosse formazioni di  nubi bianche simili a "panna montata", che non lasciava filtrare la luce solare. Sapevo che queste nuvole,  si formano a basse quote nei giorni caldi e soleggiati. Questa volta però avevano le sommità a cupola ed ingrigite oltremodo.
Chiamai l'equipaggio ad un controllo veloce e puntuale su tutte le attrezzature e le strumentazioni di bordo, sicuro che di li a poco ci avrebbe colto la pioggia.
Il vento diminuì fino ad avvertirne l'assenza, ormai la barca era ferma, pertanto feci ripiegare le vele ed accesi il piccolo motore entrobordo.
Non fu un'allegra partenza, quella dei pistoni, che sbuffarono prima brontolando e poi stridendo fumo nero ed acre che ci investì tutti, lasciandoci senza respiro.
Poi goffamente le bielle cominciarono a mulinare forzatamente i pistoni che riuscirono a dimenarsi nei cilindri con una certa regolarità, fino a trasmettere il giusto consenso all'asse dell'elica che iniziò a frullare il mare di poppa spingendo lentamente la barca in avanti.
Il mare non era più azzurro e liscio come in partenza, i cumuli sempre in numero maggiore e sempre più scuri, restituivano alla superficie del mare un colorito plumbeo. Il vento cominciò a soffiare con forza cambiando spesso direzione ed increspando oltremodo la superficie.
Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere rumorosamente sul ponte della barca, rimasi al timone per cercare di contrastare le onde, che nel frattempo erano cresciute, fino ad avere la forza di un adolescente che sente pulsare i primi ormoni nel cervello.
Le donne chiesero di scendere in cabina per ripararsi e per cercare di mettere sul fuoco qualcosa da mangiare.
Fabrizio e Pietro, indossarono una grossa cerata gialla e rimasero con me sul ponte di comando.
Intanto il sole venne inghiottito da cumulinembi scuri che man mano si addensarono sopra la nostra testa, pronti a scaricarci addosso ettolitri di acqua.
In lontananza si potevano scorgere, ormai ad intervalli regolari, grossi bagliori seguiti dai suoni cupi dei tuoni.
Presagendo un vago pericolo, pensai di girare il timone di 180 gradi e tornare nel porticciolo di partenza. Al termine della manovra di inversione, il motore, tra sbuffi e brontolii vari si fermò, regalandoci l'ennesima dose di fumo intenso nero ed acre.
Provammo a rimettere in moto più volte, fino a quando il motorino di avviamento non volle più sapere di rispondere ai persistenti giri di chiave.
Cominciai a preoccuparmi, l'acqua scendeva dal cielo copiosa, la temperatura si stava abbassando e le onde ormai cominciavano a sbattere prepotentemente contro lo scafo.
Era impensabile aprire le vele, in quanto nel frattempo il vento era diventato forte, impetuoso ed imprevedibile. Lo scafo ormai era abbandonato a se stesso. Non ci restò altro che pregare e sperare che quel temporale non si trasformasse in tempesta.
I fulmini ormai ci abbagliavano da vicino ed i tuoni ci ruttavano addosso tutta la loro aggressività, manifestata da centinaia di millimetri di pioggia fredda e fitta.
Le prime onde spumose cominciarono ad arrivare sul ponte spostando tutto quello che trovavano libero.
Chiesi a gran voce di inviare un SOS con tutti  i mezzi disponibili, nel frattempo mi legai alla spalliera dietro al timone, per cercare di governare la barca per quanto possibile.
Non sapevo più in che punto mi trovavo, non si scorgevano luci della costa in lontananza ed il radar aveva smesso di funzionare.
Pietro mi urlò che anche la radio non dava segni di vita e che le donne erano  impaurite e piangevano al pensiero di poter affondare. Ad un tratto sentii il timone durissimo e le luci di via sull'albero si spensero. Anche le batterie ci avevano lasciato.
Eravamo in balia delle onde, del vento e del temporale, nel bel mezzo di una vera tempesta.
La nave era ingovernabile, sembrava un guscio di noce sballottato tra i flutti. Mandai tutti negli alloggi a ripararsi, non c'era motivo per continuare a prendere freddo ed acqua.
Cercavo di buttare lo sguardo avvilito oltre quel muro di acqua per scorgere qualche barlume di luce, seppur in lontananza.
Nulla, solo buio ed acqua, l'unica luce era dovuta agli squarci dei fulmini tra le nere nuvole.
Le onde cominciarono a sovrastare tutta la barca, soverchiandola di una massa enorme di liquido spumeggiante e denso per la velocità.
Uno schianto di prua mi fece capire che l'albero maestro era andato perso, inghiottito dai flutti, insieme alla vela ed al boma.
Non sapevo le condizioni del resto dell'equipaggio, tutti rintanati sotto coperta. Non potevo muovermi perchè ero legato e se mi slegavo orobabilmente non sarei riuscito ad arrivare sottocoperta.
Non avevo più riferimenti e mi sentivo stanco e spossato, la tempesta sembrava ancora lunga da passare e la barca ad ogni ondata rischiava di scuffiare sul serio.
Non sapevo più cosa fare, o meglio, non potevo più fare niente se non pregare.
I cavalloni cresciuti a dismisura si abbattevano rumorosamente sul  ponte con una forza bestiale. Ormai anch'io ero sovrastato dalla loro altezza ed irruenza. Ogni onda mi riempiva le narici e la bocca di acqua salata, che mi innescava una tosse spossosa e cavernicola.
Ormai non riuscivo quasi più a respirare, acqua sopra, acqua sotto, acqua di lato, i boati dei tuoni assordanti mi pungevano forte i timpani arrecandomi forti e persistenti acufeni.
Seguita ad un enorme bagliore vidi un'onda enorme abbattersi sulla prua, con la forza di mille balene, si appropriò di mezza barca e la spinse verso le profondità scure e tumultuose.
Mi sentii sollevare come una piuma, priettato in alto là, dove nascevano i fulmini.
In un barlume mi ritrovai a capofitto pronto ad infilarmi sotto i flutti del mare in tempesta. Riuscii a scorgere, con gli occhi del terrore Nettuno e Poseidone che mi aspettavano a braccia aperte.
Uno di loro mi prese per le spalle e mi scosse violentemente.
"Nello, Nello svegliati, abbiamo la tavernetta allagata a seguito del violento temporale di stanotte".
Aprii gli occhi gonfi di lacrime, ero sudato fradicio nel mio letto, oltremodo sottosopra, e Rita continuava ad esortarmi a svegliarmi per aiutarla ad asciugare l'acqua che aveva allagato la nostra tavernetta.
"Nooooo ti pregoooo, basta acqua, prima voglio un caffè"!
19 agosto 2016
Nello Ricciardi