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martedì 14 luglio 2020

UN NUOVO SESSANTENNE

Non sono vecchio, sono “baby boomer”.
A differenza dei miei genitori e dei miei nonni, faccio parte della generazione che non ha conosciuto la guerra.
Sono stato protagonista di grandi cambiamenti, nella vita e nella società.
Se mi guardo indietro, mi vedo come i nostri genitori quando avevano 40 anni.
Mi ritengo un baby pensionato, ma anche uno che è andato via dagli affetti più cari troppo presto e quindi diventato grande prima del tempo.
Al contrario di tanti miei coetanei in pensione, non ci penso lontanamente di trovare un altro lavoro. Utilizzo il mio tempo libero, per curare il tempo che mi rimane da vivere, questa diventa la scusa per trovare il tempo per racimolare i miei racconti di vita, dal mio blog personale, e lasciarli ai posteri, impressi su carta. Le mie figlie sono grandi già da tempo e mi hanno nutrito di soddisfazioni. Chiedo solo una duratura alleanza alla donna che mi sopporta da 35 anni, nell’aiutarmi a comprendere, sempre al meglio, le sue necessità. Insomma vorrei continuare, se il Signore me lo permette, a sognare, insieme a lei, ancora fino a 90 anni. Oltretutto sarò obbligato in solido, dalla nuova vita che si mostrerà tra settembre ed ottobre. L’emozione di diventare nonno.
Ma vogliamo parlare della sessualità di questi giovani sessantenni?
Una generazione che ha scoperto il sesso tramite le pagine patinate di Postalmarket, quelle modelle con i vestiti succinti e biancheria intima mostrata, come nessuna TV avrebbe mai fatto. L’andare troppo spesso dai barbieri, per rubare i piccoli calendari pieghevoli ed odorosi, che mostravano avvenenti donnine nude.
Bisogna vergognarsene?
La società stava cambiando, la sessualità diventava libera e non più nascosta, insomma non era più un tabù.
La generazione che ha conosciuto i primi calcolatori, i primi computer in commercio pronti per essere utilizzati da tutti.
Siamo i sessantenni che hanno rubato i social ai giovani, buttandoli fuori da Facebook e Twitter, relegandoli su Instagram, dove non si parla, non si discute, si dialoga con gli scatti istantanei che non resteranno in memoria a nessuno. Generazione strana, duttile ed accomodante, che ha imparato a dialogare con i vecchi, ad ascoltare i giovani, ma anche a dare ordini ad "Alexa", a "Ehi Siri" ed a "Ok Google".
Ho anche tante paure però. La prima di veder perdere la felicità delle mie figlie, pur sapendo che sarà difficile. Il timore di perdere la salute. Esperienza già fatta in un recente passato, relegato e rinchiuso a chiave nel dimenticatoio.
La paura di perdere l’ultimo genitore rimasto, che ha imboccato il tunnel della demenza. Non avere più un interlocutore conosciuto da sessant’anni e perdere la qualifica materiale di figlio. La paura di perdere l’amore di Rita, l’affetto dei fratelli.
Tutte queste situazioni hanno in comune una parola: perdita.
Quello che mi fortifica a questa età è di non aver perso la fede. Valore che mi rafforza e da un senso, mettendo il sale alla mia vita.
Vivo il presente, anche pensando orgogliosamente al passato. Gli anni della spensierata fanciullezza, nel nostro piccolo grande cortile, Shanghai, di San Vito. Quello che ho vissuto nei primi anni adolescenziali a Marigliano, come lavoratore assai precoce. Aver lasciato la famiglia in età troppo presto, per la speranza di arrivare celermente al futuro. Audace nella professione scelta e portata avanti, con sacrificio, volontà e grandissima soddisfazione.
Mi piace, ancora oggi, cercare e mantenere i contatti con quelli che, insieme a me, hanno avuto lo stesso percorso.
Insomma, mi piace vivere il presente, mantenendo un rapporto realistico con il passato.
Cerco di curare il mio corpo con una discreta attività fisica, con lunghe camminate. Anche se gli sforzi trasformano, inesorabilmente, i loro benefici solo in un punto del mio corpo. L’addome.
Cerco di tenere allenata la mente leggendo libri, scritti, navigando su internet alla ricerca di cose belle e mondi da scoprire.
Cerco di rimanere autonomo, nelle mie cose di tutti i giorni, fisicamente ed intellettualmente, anche perché vorrei continuare a chiedermi, nei rapporti con le persone più care, come insegnava Erich Fromm: “ti amo perché ho bisogno di te”, oppure: “ho bisogno di te perché ti amo”.
Insomma, per chi è arrivato a leggermi fino a qui, ci sono anch’io.
Nello, il nuovo sessantenne.

lunedì 20 aprile 2020

LE VACANZE A POSILLIPO

Agli inizi degli anni settanta, mia mamma lavorava a servizio, presso una famiglia che abitava in Corso Umberto I a Napoli. Il titolare era un avvocato, anche proprietario di una tenuta agricola in provincia di Arezzo, dove amava trascorrere i periodi di fine estate, quelli che introducevano alla stagione della vendemmia e della raccolta delle olive. Il periodo, fortunatamente per noi, combaciava con la settimana di ingresso gratuito, ad uno stabilimento elioterapico, per tutta la nostra famiglia, eravamo sette in tutto. La possibilità ci era stata offerta dai servizi sociali del comune di Marigliano, che regalava, alle famiglie indigenti e numerose, una settimana di settembre da trascorrere al mare, in uno stabilimento balneare a Posillipo.
Era la prima volta che ci capitasse di usufruire di questa inaspettata possibilità.
Di solito andavamo al mare, sporadicamente e per singole giornate, prendendo un autobus o il treno per recarci al lido Mappatella di Torre Annunziata.
Fu così che il datore di lavoro di mia mamma, allo scopo anche di avere un controllo del suo appartamento rimasto vuoto, ci offrì di soggiornare a casa sua, rendendoci i viaggi giornalieri per lo stabilimento balneare molto più agevoli.
Ci ritrovammo così a scorrazzare in quell’appartamento grande e signorile al centro di Napoli.
La prima sera dormimmo poco, nonostante fossimo al quarto piano, sentivamo tutti i rumori del traffico cittadino e le numerose sirene delle forze dell’ordine e delle ambulanze che sfrecciavano velocissime nel sottostante corso stradale. Ci mancò subito la quiete della nostra tranquilla periferia di paese. Trascorsi parecchie ore di quella sera, affacciato al grande balcone, ad osservare incuriosito tutto quello che succedeva in quello sprazzo cittadino. A Napoli la gente non si fermava e non dormiva mai.
Arrivò presto mattina, dopo la colazione con latte, biscotti marie e ovomaltina, questi ultimi una gustosa novità per noi, abituati alla zuppa di latte con il pane raffermo. Prendemmo tutta la mercanzia necessaria per trascorrere una giornata al mare, sembrava un trasloco. Ci dirigemmo verso la fermata dell’autobus, direzione Posillipo. Borse con teli da mare, ombrellone, valigetta frigo con dentro il mangiare per una settimana,  l’immancabile pizza di maccheroni, cotolette ben allargate e sottili e peperoni in agro dolce in quantità industriale, finalmente, senza badare a spese. Ognuno aveva più di qualcosa da portare, non erano esclusi Rosanna ed Umberto, i più piccoli della nidiata, solo mio fratello Giacomo aveva, sotto il braccio, l’inseparabile pallone super santos.
Riuscivamo da lontano a scorgere il bus che ci avevano consigliato. Ormai risucchiati dalla folla in attesa, a stento riuscivamo a contrastare gli spintoni per guadagnare posto nel probabile punto di fermata ed apertura della porta. Mia mamma era espertissima a calcolare il punto esatto, cominciava ad ondeggiare prima con qualche finta, poi anche ad alta voce: “Venite, venite, tanto si ferma qua”. Ma all’ultimo momento, con una mossa repentina  scattava sul lato opposto, il tutto tenendoci con mano a formare una corda umana. Signori biglietti, signori biglietti, urlava accaldato il fattorino inascoltato dai più. Tutti a precipitarsi ad occupare i pochi posti, anzi gli spazi, in piedi ancora rimasti. Non mancava mai qualche pittoresca scaramuccia, soprattutto tra le donne. Mia mamma in questo era insuperabile, riusciva ad intromettersi in tutte le discussioni e ne diventata subito la protagonista. Alla fine più di qualche promessa di accapigliarsi, ricordandosi a vicenda probabili antenati di cattiva fama, oppure affermando dell’altra origini incerte, non succedeva mai nulla.
Fortunatamente il Largo Posillipo arrivava presto. Iniziava così la corsa all’ingresso dello stabilimento per accaparrarsi i posti migliori. Era sempre lei, la nostra lottatrice ad andare avanti. Mia mamma era una super mamma, senza costume da super eroe. Noi rimanevamo con mio padre, che con tutta calma ci portava verso l’ingresso del Bagno Elena.
Lo stabilimento elioterapico era formato da una stretta striscia di sabbia vulcanica di color nero. Faceva parte di uno dei primi lidi nati a Napoli, frequentato nel dopoguerra da Totò ed Eduardo De Filippo. Questo meraviglioso angolo di storia partenopea era racchiuso tra i palazzi Donn’Anna e Guercia. Un’oasi marina sbocciata in pieno centro urbano tra i palazzi liberty, presenti numerosi nella zona.
Una lunga ed abbastanza ripida scalinata in travertino immetteva allo stabilimento, si attraversava un bar con l’immancabile jubox, dove perdevamo subito Giacomo, attratto dalle melodie dei Pooh, sempre presenti a quei tempi.
Le cabine, non avendo spazi a terra, erano state costruite su una lunga impalcatura di palafitte sul mare. Già dal patio del bar vedevamo nostra mamma che si sbracciava contenta di mostrarci la miglior posizione guadagnata.
Dopo aver preso posto, allargando il più possibile il territorio conquistato dalla nostra eroina, io, mia sorella Anna e Giacomo andavamo in spiaggia, dove già stazionava un gruppo nutrito di nostri coetanei. I due più piccoli, pala e secchiello in mano, rimanevano all’ombra con i nostri genitori, già intenti a preparare il leggerissimo pranzo.
Stringemmo subito amicizia con il gruppetto di ragazzi, ci invitarono così a partecipare al gioco della bottiglia.  Seduti in cerchio, la bottiglia girava e quando si fermava indicava la persona che doveva dare un bacio o una penitenza a chi voleva. Quel gioco non mi attrasse più di tanto, anzi mi risultò subito noioso e discriminante. Giacomo, fin dal primo giro, acchiappava solo baci da tutte le ragazze, a me, invece, toccavano tutte le penitenze. Finiva sempre che me ne andavo scoraggiato in acqua, sotto l’impalcatura delle cabine e tenendomi e spingendomi da un palo all’altro, cercavo di guadagnare il largo in sicurezza. Quando arrivavo in fondo alle cabine, potevo vedere i temerari che si tuffano dall’impalcatura soprastante a capofitto. Capobanda sempre Giacomo. Sembrava un delfino per come si proiettava sotto il pelo dell’acqua.  Io, che in tutta sincerità, provavo un sentimento di orgoglio e di invidia per non essere così coraggioso, rimanevo prudentemente attaccato come una cozza all’ultimo palo, finendo di passarci alcune ore ben appeso, prima di decidermi, attratto dall'odore delle cotolette, a rientrare con molta cautela, non tralasciando di pensare con terrore all’abisso che si celava sotto i miei piedi!
Quella prima sera, a casa, mi presi la rivincita. Giacomo piangeva dal mal d’orecchie, a causa dei numerosi tuffi e sfide a raggiungere il fondo del mare. Io mi pavoneggiavo allungando oltremodo il collo, perché non sentivo assolutamente nessun fastidio se non il suo pianto. 
Eh eh, non ti preoccupare Giacomo, domani ti faccio vedere il mondo da sotto le cabine!

sabato 18 aprile 2020

LA VITA AI TEMPI DEL COVID19.


Era più di un mese che stavo a casa, ligio ai vari dcpm. Ma ieri mattina, venerdì 17, dovevo uscire con Rita per andare dal notaio. Lo studio si trova a Marina di Carrara, altro comune, altra regione!
Entrambi abbiamo avuto una notte insonne e pensierosa, non tanto per il costoso atto notarile che andavamo a stipulare, quanto per
il pensiero di essere fermati da quei cattivi figuri che imperversano nei numerosi filmati virali su Facebook. Questi ormai tristemente famosissimi uomini in divisa, che pullulano sulle nostre strade vuote, fermano chiunque gli passi davanti e dopo aver chiesto i documenti, quando va bene, fanno verbali da svuotare il conto in banca, dopo averti ridicolizzato con sguardi duri ed atteggiamenti di rambesca memoria. Ma se qualcosa non va per il verso giusto, ti assalgono cercando di contorcerti le braccia dietro la schiena, per provare a fissare ai polsi quei bellissimi braccialetti lucenti che hanno sul cinturone. Ma se ti opponi, sputando o addirittura resistendo, allora sono schiaffi, pugni, calci e sbattimenti per terra. Ovviamente non mancherà il buon samaritano, che mosso a compassione, girerà tutta la scena con il suo telefonino, per poi darla in pasto al popolo degli acab mai domi sui social.
La macchina, ormai ferma anche lei da più di un mese parte subito. Un ultimo controllo ai documenti d'identità, l'autodichiarazione debitamente compilata, il foglio con l'invito del notaio e copia della mail con appuntamento.
Rita insiste per lasciare a casa l'elmetto ed il giubbotto antiproiettile. Insisto per portare almeno le protezioni per polsi, ginocchia e gomiti di rotellistica memoria. Niente da fare, mi dice che basta la mascherina ed i guanti di gomma.
Mi convince e partiamo. Le strade sono vuote e desolate il panorama è bellissimo e terso come la giornata. Non ci sembra vero di essere tornati nella nostra vecchia macchina, insieme come tanto prima.
Quando arriviamo sul lungomare di Marinella, da lontano scorgiamo una macchina grigioverde con lampeggiante, al bordo della strada e due militari con la paletta pronta da mostrarci le loro insegne e relativo comando di stop. Comincio a sudare freddo, cerco di infilarmi goffamente la mascherina, imprecando verso Rita che non ha voluto sedersi dietro, le chiedo di spostarsi almeno di un metro buono e lei obbedendo si appiccica alla portiera. Ormai lo vedo in faccia, cattivissimo, ghigno sicuro e paletta diritta verso il centro dei miei occhi. Rapidamente vado a cercare nel cassetto della mia memoria a lungo termine, alcune mosse di difesa personale da mettere in atto appena provasse a toccarmi. Sono fermo, abbasso il finestrino e con la faccia più cattiva che riesco a produrre lo fisso negli occhi. "Buongiorno signori, solo un normale controllo, favorisca patente e libretto e possibilmente un documento della signora che sta accartocciata sulla portiera affianco". Tutta una frase così lunga, pronunciata con estrema gentilezza e senza nemmeno provare a toccarmi?
"Se lo ritiene più comodo può scendere, altrimenti può rimanere in auto". A questo punto decido di mollare il manico di legno duro, che avevo smontato dal mio martello e che tenevo nascosto nel vano sotto il freno a mano.
"Avete mica una dichiarazione già compilata di dove andate, altrimenti ve la fornisco io".
Orgogliosamente tiro fuori le dichiarazioni compilate con estrema precisione, alle tre di notte, e gliele porgo.
"Andate da un notaio, signori? Avete per caso la convocazione?"
Con fierezza e gonfiando non poco il petto, gli consegno anche la convocazione notarile.
"Vi chiedo solo la gentilezza di aspettare un minuto mentre trascrivo i dati e poi vi lascio andare".
Guardo Rita, che intanto si era rimessa comoda al suo posto, ma che razza di forze dell'ordine ci hanno fermati? Per favore, sia gentile, per cortesia, vi lascio andare........ma come parla questo?
Non mi ha nemmeno guardato storto, rivolto un insulto, nessuna sfida a duello, nessun tentativo di prendere le manette luccicanti.
Mah, vatti a fidare delle forze dell'ordine.
Arriva di nuovo verso di me con tutti i documenti e porgendomeli mi dice: "Buona giornata signori, ho letto che lei è campano. Anch'io, sono di Caserta. Se dovessero rifermarvi i colleghi, vi forniranno loro un'altra dichiarazione perché questa la devo trattenere io.
Vi lascio comunque una copia della convocazione del notaio da mostrare ad eventuali altri controlli. Chiedo scusa se vi ho fatto perdere qualche minuto ma facciamo il nostro dovere".
Sono rimasto sconvolto, non poco, di tutto questo eccessivo buonismo.
Passo i documenti a Rita, saluto, anch'io, cordialmente e riparto.
Poi mi accorgo, guardando dallo specchietto retrovisore, che non c'era nessuno nelle vicinanze a girare il video da mettere su Facebook.
Ecco il motivo di questo racconto!

lunedì 27 gennaio 2020

I MIEI GENITORI (Gli inizi)

Giuseppe Ricciardi e Maddalena Manzi, si conobbero in “campo neutro”, a Portici, essendo provenienti, lei da Palma Campania e lui da San Giovanni a Teduccio. Maddalena era alla soglia dei trent’anni, veniva da una famiglia umile composta da cinque figli. Abitava, insieme al resto della sua famiglia, a Mugnano del Cardinale, ai confini dell'antica provincia di Terra di Lavoro, ai margini del territorio avellinese, così si chiamò fino al 1927 quella provincia con capoluogo Caserta. Il padre Giacomo, barcamenava il lunario facendo il duro lavoro del boscaiolo. In questo umile, antico e faticoso lavoro condusse ben presto anche il figlio e le figlie. Le ragazze fin da piccole, dovettero, loro malgrado, imparare ad arrampicarsi nottetempo sui pendii scoscesi dell’odierno parco regionale del Partenio, per portare a valle le ingombranti e pesanti fascine di legna accuratamente tagliate e preparate dagli uomini. Era una vita molto dura e di sacrifici estremi, soprattutto per giovani ed esili donne. Appena ne ebbe l’occasione, Maddalena si trasferì in città per dedicarsi ad un lavoro più consono ad una giovane donna. Cominciò a fare la donna di servizio in casa di persone dell’alta borghesia napoletana. 
Giuseppe era di sette anni più giovane, rispetto a Maddalena, proveniva da una famiglia poverissima, che abitava a San Giovanni a Teduccio, composta da sette figli. Tutta la famiglia abitava in un monolocale. Il papà di Giuseppe, anche lui con lo stesso nome del figlio, quando si ritrovava, quelle poche volte sobrio, riusciva a guadagnare qualche liretta come scaricatore nel vicino porto, dove spesso arrotondava gli esigui guadagni, vincendo scommesse su chi portava in spalla i sacchi più pesanti. Dicevano di lui che, nelle sole ore mattutine, fosse un toro, per quanti sacchi riuscisse a portare. Iniziò a trovare miglior sostentamento economico, smettendo di lavorare, ma mai di bere, quando i primi figli maschi cominciarono, in tenera età, a sobbarcarsi la responsabilità familiare ed a rimboccarsi le maniche per inventarsi i più svariati lavori per sfamare tutta la famiglia. Il papà di Giuseppe, morì poco dopo i cinquant'anni, proprio a causa dell'abuso di alcool, che gli aveva distrutto il fegato. Anche Giuseppe non si tirò indietro alla chiamata della necessità per la vita. Si adattò fin da piccolissimo a svolgere i servizi ed i lavori più umili, finanche a raccogliere mozziconi di sigarette al fine di recuperarne il tabacco e venderlo nelle osterie insieme al fratello Luigi, che tra i cinque fratelli maschi, aveva l'ingegno di inventarsi i lavori più strani pur di portare a casa la pagnotta tutte le sere. Tuttavia, con il passare del tempo, le cose cominciarono anche a mettersi benino per lui, quando al termine dell’adolescenza si ritrovò a lavorare, con uno stipendio fisso, in una nota fabbrica di pelati della zona ovest di Napoli. Ma quando le condizioni di vita cominciarono piano piano a migliorare, il fato avverso volle manifestarsi in tutta la sua crudeltà. Giuseppe aveva compiuto da poco diciannove anni, quando si svegliò una mattina e si accorse di non vedere quasi più nulla, solo grosse ombre rarefatte. La diagnosi fu infausta, "atrofia al nervo ottico irreversibile". Perse di conseguenza anche il il posto in fabbrica e si dovette accontentare di seguire corsi appositi, di avviamento al lavoro, per ciechi civili. Frequentò diversi corsi, ma il lavoro non arrivò mai e si accontentò di sopravvivere di una esigua pensione d'invalidità. 
Giuseppe e Maddalena si incontrarono la prima volta per caso, durante un classico festino di ballo in casa di amici comuni. Lei abitava a Portici, a servizio da una famiglia facoltosa, e talvolta riusciva a ritagliarsi qualche serata libera da trascorrere con amici. Lui si trovò a quel festino invitato dalla sua fidanzata, già conoscente di Maddalena. Lei, sentimentalmente, non era impegnata con nessuno. Ebbero così modo di conoscersi  in quella serata di festa trascorsa insieme. Quella prima sera, si congedarono con la promessa di rivedersi presto in qualche altra occasione. Giuseppe ricevette dalla sua fidanzata il compito di trovare un amico da portare con lui, da presentare a Maddalena, in modo da poter uscire in quattro.
Agli appuntamenti successivi, Giuseppe portò con se, come richiesto dalle ragazze, Vincenzo, uno dei suoi fratelli più grande di lui di un paio di anni. Purtroppo a Maddalena, causa anche le proverbiali timidezze di Vincenzo, non le si accese nessuna fiammella d'interesse, né al cuore né alla testa.
Il destino volle, però, che Maddalena non rimanesse a lungo impassibile, difronte al giovane fascino di Giuseppe e se ne innamorò perdutamente. Dall’altra parte, Giuseppe fu rapito dal carattere allegro e scherzoso di Maddalena, il buon “Cupido” ci mise l’arco e le frecce giuste, ed i due, messa da parte l'incolpevole ormai ex fidanzata di Giuseppe, si trovarono uniti in un fidanzamento.
Si frequentarono amorevolmente per un discreto periodo, Giuseppe trovò il modo di confessare a Maddalena il suo grosso problema. Lei se ne era già accorta, ma non aveva voluto farlo sentire in imbarazzo e se ne guardò bene dal dirglielo. Si amavano e decisero di convolare a nozze, che avvennero, con una cerimonia essenziale, in un caldo mese di agosto del 1955. Non avendo altre possibilità che una coperta di stelle, andarono a vivere nel monolocale della mamma di Giuseppe, a San Giovanni a Teduccio. In quella monocamera, oltre alla mamma, c'erano ancora due fratelli ed una sorella di Giuseppe, che non erano ancora sposati. Fu ricavato così una piccolo spazio in un angolo, separato da una tenda scorrevole, dove trovava posto il loro piccolo giaciglio nuziale.
Non fu una convivenza tranquilla, date le misere condizioni logistiche, accentuata oltretutto dalla presenza troppo intromissiva della suocera. Insomma l'inizio fu abbastanza burrascoso, le litigate tra Maddalena e la suocera Anna ormai erano all'ordine del giorno. Fu così che decisero di trasferirsi, in attesa di una migliore sistemazione e di tranquillità, a Marigliano, un piccolo paesino ad est di Napoli, dove chiesero ospitalità alla sorella maggiore di Maddalena. Violanda accettò subito il richiamo di aiuto della sorella ed insieme al marito Felice offrirono una momentanea ospitalità alla giovane coppia, offrendo a loro di dividere la loro seppur mesta abitazione.
Cominciò così la nuova avventura dei giovani sposi, lontano dai suoceri.