Non
vedevamo l’ora di salire a bordo e lasciare quella desolata caserma sulla
terraferma.
Eravamo
felici più del solito, sentivo l’adrenalina circolare sotto pelle. Finalmente
potevo iniziare a fare il marinaio, il segnalatore.
Ci
ritrovammo tutti pronti, il gruppetto di allievi appena congedati dalle scuole
sottufficiali, sul molo dell’arsenale di Augusta ad aspettare le rispettive
motobarche inviate a terra dalle navi, in attesa nella calma rada.
Nave Audace
si stagliava sullo sfondo, leggermente più lontana delle altre, che formavano parte
della Prima Divisione Navale.
Nonostante
la mole imponente, si stagliava sull’orizzonte slanciata ed elegante.
Il
cacciatorpediniere lanciamissili Audace, gemella dell’Ardito, dislocava i suoi
oltre centoquaranta metri di lunghezza in mare, con la grazia di una ballerina.
Nei suoi
contorni spiccavano, poderosi, i due cannoni 127/54 ubicati a prua sotto la
plancia.
Cominciai a
pensare a quanto tempo ci sarebbe voluto per conoscere e dove stavano i circa quattrocento marinai
ospitati a bordo.
Arrivò
finalmente la motobarca con la scritta Audace. Salimmo, ognuno con i propri
numerosi e pesantissimi bagagli, contenenti tutta le nostra mercanzia. Eravamo
una decina di ragazzi al primo imbarco, riconoscibili dalla divisa impeccabile,
ed un certo numero di sottufficiali in abiti civili, che rientravano dai vari
permessi. La motobarca si diresse verso il largo, lento moto. Il fumo nero ed
acro che fuoriusciva dalle fiancate, ogni tanto lasciava il suo olezzo
puzzolente. Arrivammo finalmente ai piedi di un barcarizzo, scala retrattile
che viene calata sulle mure delle navi, per far salire o scendere le persone.
Quella
specie di scala appesa era abbastanza scomoda e stretta, dovetti fare su e giù due volte per riuscire
a portare tutti i bagagli.
Gloria
Audaciae Comes, il motto della nave stampigliato in bronzo, dava il benvenuto a
bordo.
Un
sottufficiale di guardia raccolse i vari documenti e chiamò i rispettivi
segretari dei reparti a cui dovevamo appartenere a seconda delle categorie e
delle specializzazioni possedute.
Arrivò un
sergente con l’uniforme jeans di lavoro e chiamò a se tutti gli specialisti
delle telecomunicazioni, a cui io appartenevo.
Finalmente
entrammo nel ventre della nave. Percorremmo tutta una serie di scale passando
varie porte normali ed a chiusura stagna. Mi ero già praticamente perso.
Nei
corridoi attraversati era tutto un andirivieni di marinai. I corridoi pavimentati
di un lucido azzurro e le pareti interne
dipinte di bianco davano un senso di calma e benessere. Dovunque si sentivano ronzii vari, talvolta misti a sibilo, quel
rumore tipico della vita della nave, che accompagna tutta la carriera i
marinai.
Arrivammo
davanti ad un’angusta cabina che fungeva da segreteria. Sulla scrivania
solidale con la parte interna erano collocate due grosse macchine da scrivere
elettroniche.
Il sergente
cominciò a redigere il pandettamento (una specie di cartella personale
contenenti i dati personali) di ognuno di noi.
Alla fine
fui assegnato al Servizio Operazioni, seconda squadra, operatore in plancia.
Mi
accompagnarono all’alloggio, posto a centro nave. Passammo attraverso la mensa
marinai, formata da due sale con i tavoli comprensivi di quattro posti fissi.
Scendemmo
di un livello ed arrivammo in uno degli alloggi marinai.
Mi venne
assegnata una brandina al terzo piano. Sotto la prima cuccetta c’erano tre
cassettoni, uno di quello era il mio.
Per aprirlo bisognava chiedere all’occupante del primo piano di alzarsi.
Su di un
lato, appena più spostato, c’era il mio
armadietto, non più alto di cinquanta centimetri. Quello era tutto lo spazio
che avevo a disposizione. Mi chiesi subito come avrei fatto a riporre ed a
mettere a posto ed in ordine tutto il vestiario, civile e militare che avevo a
seguito.
Il sergente
mi disse di lasciare per il momento tutti gli zaini a terra e di seguirlo.
Gira di
qua, gira di là, ogni tanto qualche rampa di scala, arrivammo ai piedi di una
scala molto più bella delle altre, con i passamano lustrati di ottone e gli
scalini coperti di moquette. In alto si intravedeva la luce del sole.
Ai piedi
della scaletta, in un angolo, c’era una piccola porticina che accedeva ad un
piccolissimo ufficio, non più grande di quattro metri quadrati. Dentro uno
strumento che faceva un baccano continuo ed emetteva da un lato un lunga
striscia gialla tutta punzonata.
Era una
telescrivente. Seduto davanti c’era il sergente segnalatore Guarna, che con un
accento spiccatamente fiorentino diede il benvenuto ai nuovi tre segnalatori.
“Meno male,
vi aspettavo. Da domani verrete a fare le guardie qui con me, in questo ufficio” esordì tutto contento.
Praticamente era il posto dove arrivava e veniva smistata tutta la posta via
etere della nave.
“Ora andate
da Capo Stefanelli, il capo segnali che vi aspetta in plancia”, ci congedò
Guarna.
Il capo
segnali indossava una tuta intera blù con un largo cinturone dello stesso
colore. I pochi capelli canuti ed il colorito rossiccio della pelle bruciata
dal sole gli donavano un’aria sapiente.
Il capo ci
salutò uno ad uno chiedendoci la provenienza. Dopodiché ci disse in genovese:
“Benvenuti in plancia, questa, oltre all’alloggio sarà il posto dove passerete
la maggior parte del vostro tempo a bordo. Però ora non vi perdete in
chiacchiere, andate a togliervi la divisa ordinaria e mettete gli abiti jeans da
lavoro, ho giusto tre nuovi pennelli da consegnarvi. Ricordatevi che il motto
per tutti, sulla nave è: Pennello e pittura carriera sicura”!