Non credo possano essere esistiti ragazzi della mia
generazione, che non abbiano subito ferite, escoriazioni e lussazioni. Questi
ricordi d’infanzia hanno lasciato, sulla mia pelle e quella dei miei coetanei,
segni simili a geroglifici, su diverse parti del corpo, soprattutto sulle
ginocchia, gomiti, dorsi e nocca delle mani e persino sulla testa.
Per la verità le ragazzine erano quasi immuni a queste
esperienze. Il giocare con le bambole o comunque essendo caratterialmente più posate
degli agguerriti maschietti, rimanevano al riparo da questi imprevisti.
I giovani d’oggi non conoscono queste sensazioni che
abbiamo provato noi.
Certo è difficile cadere mentre si gioca alla play station
o con l’i-pad o con lo smartphone.
Al massimo si può rimediare un bernoccolo, quando
camminando ed allo stesso tempo giocando
con lo smartphone, si finisce per sbattere contro un qualche ostacolo.
E’ pur vero che, oggi,
questo tipo di incidente ormai capita a qualsiasi età.
La mia adolescenza l’ho vissuta in periferia di una
cittadina tranquilla di campagna.
In quegli anni, tra il sessanta ed il settanta, a
Marigliano non circolavano ancora tante auto, anzi, spesso la sera ci
attardavamo in strada a contare i lenti carretti dei contadini che, stanchi per il duro lavoro, rientravano dalle
campagne. Piccoli carri di legno, per lo più artigianali, trainati da cavalli
di media statura ma molto dotati muscolarmente. Per la verità la maggior parte
dei contadini utilizzava le mucche, buone anche per la fornitura di latte. Era
divertente vedere questo lento andare dei buoi, con il collo calato sotto il
giogo, che senza fermare il loro altalenare della testa, alzavano la coda e
lasciavano cadere sull’asfalto i loro escrementi fumanti, che si spiaccicavano a
terra occupando più carreggiata possibile.
Proprio la presenza di pochi mezzi a motore, incentivava
l’uso delle biciclette. Tutti noi avevamo almeno una bicicletta in famiglia.
Purtroppo la bicicletta, primo mezzo di locomozione e
fedele compagna di giochi, era anche quella che più ci esponeva ad escoriazioni
e ferite, conseguenti a incidenti dovuti alla voglia di tutti i bambini di
provare sempre di più l’ebrezza della velocità o di provare plastiche figure
che sfidavano la forza di gravità.
Ma anche il gioco del calcio, di gran lunga il più
praticato da tutti, vedeva il suo normale svolgersi sui piazzali asfaltati o
campi sterrati dei cortili, lasciava spesso i suoi segni indelebili sulle
nostre membra.
Fin dall’età delle scuole elementari, i luoghi più frequentati
per i nostri giochi, oltre ovviamente al cortile di casa, erano la Vasca San
Sossio ed il largo di San Vito. La Vasca era un luogo unico ed amato da tutti i
ragazzi e non solo. Si prestava per tutti i nostri giochi, sia a piedi che in
bicicletta. Luogo idoneo per scampagnate e picnic familiari. Oltretutto nella
sua depressione scorreva sempre un piccolo ruscelletto. L’acqua veniva
utilizzata spesso per sciacquare e lenire le ferite e le escoriazioni riportate
al termine della giornata di svago.
Talvolta succedeva che il ruscelletto fosse secco, allora
si doveva rimediare a pratiche non da tutti accettate. Io per la verità l’ho
fatto diverse volte e devo dire che se non sono stato meglio, nemmeno peggio.
Quando ti trovi in un posto che non c’è acqua cosa fai?
Non fate finta di nulla e non vi scandalizzate. Basta fare la pipì!
Proprio cosi. Per pulire le ferite coperte dal fango ed
altro, lo facevamo con la nostra urina. Giuro che non ho mai utilizzato quella
degli altri.
Spesso però, succedeva che, soprattutto se l’escoriazione
fosse abbastanza estesa e sanguinolenta, la pipì puliva l’area colpita, ma non
fermava il sangue. Se questo avveniva nelle ore serali, che si doveva tornare a
casa, si rimediava poi dai genitori, ma se succedeva all’inizio dei nostri
giochi e non volevamo per nulla al mondo rinunciare a stare con gli altri e
tornare a casa anzitempo, rimaneva una sola scelta. Prima si puliva la ferita
con l’urina, poi si cercava una zona umida del terreno, con la mano a coppetta
si grattava una giusta quantità di fango e lo si spalmava bene sulla ferita,
affinché seccandosi tamponasse il sangue fastidioso.
La sera a casa, però, bisognava trattare le ferite del
giorno come da prassi medica. Dopo le solite rimostranze materne, che non
capivano mai che i nostri giochi erano ben più importanti di qualche fastidiosa
sbucciatura, cercavamo di farci curare a modo loro. In particolare ricordo
l’uso di una pomata, l’ittiolo, che giudicavo schifosa, una puzza nauseante
quando si apriva la piccola scatoletta di latta con disegnato un serpente.
L’unguento scuro e pastoso veniva apposto sulle ferite non troppo estese. Una
fasciatura, che durava lo spazio di una notte completava l’opera.
Per la verità io preferivo la polverina bianca contenuta
in una boccettina di plastica color crema e con il cappuccio marrone. La
penicillina streptosil.
La magica polverina, aveva il potere di impastarsi con il
sangue e formare come per incanto, già dal giorno dopo, una crosticina più o
meno spessa, che diventava una sorta di passatempo nei momenti quieti della
giornata. Seppur leggermente doloroso, chi non ha provato l’ebrezza di quando,
pizzicando piano piano con le dita, si faceva saltare via quella crosticina!
Ma prima di queste pratiche lenitive, bisognava passare
sotto la penitenza dell’alcool denaturato. Veniva spruzzato a volontà
direttamente sulle ferite, quasi con sadismo dai parte dei genitori, il più
delle volte accompagnato dal classico rimprovero: “Così impari a farti male!!”
Preferivo di gran lunga l’urina .
Gli incidenti più brutti per noi comunque rimanevano
quelli che ci facevano rimanere per terra, senza escoriazioni, ma con qualche
grave lussazione.
I genitori se ne accorgevano quando venivamo accompagnati
a casa da qualcun altro, o zoppicando o con le braccia bloccate in qualche
posizione strane.
Le presunte slogature erano una cosa seria.
Per curarle occorrevano, a seconda della gravità: dai due
ai quattro chili di zucchero e di caffè, dodici uova, un pacco o due di cotone
idrofilo e una robusta benda di garza per fasciatura.
I miei genitori mi portavano da una signora di mezza età,
casalinga, che abitava nella masseria Quadretti. Zia Giuannina ‘a
Libbrttella, meglio conosciuta da noi ragazzi coma “la stoppatrice”.
Lo zucchero, il caffè e quello che rimaneva delle uova,
andavano alla signora, per i suoi servigi.
Avevamo tanto timore di quella donna, ma sapevamo che dopo
il dolore sarebbe arrivata la guarigione. Che io sappia, non ha mai fallito. A
me personalmente ha messo a posto, più volte,
gomiti, polsi, caviglie e ginocchia, con i suoi metodi abbastanza
cruenti.
Per prima cosa doveva controllare con le sue mani la
gravità del danno e se riteneva che non fosse una lussazione, ci spediva subito
in ospedale. “Nun è cosa mia” diceva.
Ma se riteneva di intervenire, si metteva subito all’opera
per preparare la cosiddetta “stoppata”.
Prendeva una zuppiera capiente e ci rompeva un numero di
uova che riteneva utili, a seconda dell’arto da trattare. Poi aggiungeva aceto.
Poi prendeva dalla sua credenza una piccola bottiglietta contenente dell’olio,
se lo spalmava nelle mani e quando veniva verso di noi con le mani unte in
cerca dell’articolazione lussata, cominciavano le corse intorno al tavolo.
Corse se non si trattava di arti inferiori, altrimenti non rimaneva altro da
fare che urlare. Zi’ Giuannina cominciava a tirare, contrapporre, massaggiare
fino a che lo ritenesse opportuno, o almeno fino a che ci avesse sfiancato per
le urla. Nel frattempo la figlia andava a raccogliere delle piccole striscette
di legno spesse come fogli di carta.
Fermato l’arto nella posizione idonea, calava il cotone
idrofilo nella ciotola contenente le uova ed aceto. Dopodiché applicava il
cotone impregnato con quel miscuglio stomachevole attorno all’arto infortunato.
Avvolgeva stendendo minuziosamente il cotone idrofilo ed ogni tanto infrapponeva
le striscette di legno. Alla fine qualche giro con le garze di tela ed a chiudere provvedeva coprendo con un rotolo di benda grossa e
spessa.
“Guagliò, ci vediamo tra trenta giorni”, ci congedava con
queste parole.
Al termine dei giorni previsti, si ritornava da lei, per
togliere quella finta ingessatura.
Sempre, da sotto le bende ed il cotone, come per magia, si
presentava la pelle piena di peli. Si diventava simili ad orsi.
Ma il problema grosso era che l’arto rimaneva
inesorabilmente nella stessa posizione in cui era rimasto per il periodo
imposto. Allora iniziava la fisioterapia di Zì Giuannina. Le urla si
sprecavano. Alla fine ci congedava dicendoci: “Questi sono gli esercizi che
devi fare tutti i giorni, mi raccomando, non farti vedere più”.
Difficile attenersi ad entrambe le raccomandazioni.