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venerdì 17 giugno 2016

NELLA RETE

Il controllo di tutti i materiali da utilizzare durante le esercitazioni doveva essere molto minuzioso ed effettuato  scrupolosamente con pazienza certosina. La loro efficienza ed il corretto utilizzo determinavano spesso il risultato del lavoro finito.
Spesso, una volta vestiti di tutto punto, ci si controllava a vicenda il materiale e le attrezzature indossate.
Quel venerdì sera, in preparazione per l'esercitazione di routine, contrariamente al solito, il capo squadra dovette formare, oltre alle solite coppie di lavoro, una terna del tutto inusuale.
Fu così che il nostro vice capo squadra Antonio, decise di mettersi al capo della terna, insieme a me ed ad un altro operatore del mio stesso corso.
Il compito assegnato per quella esercitazione notturna consisteva in un avvicinamento a nuoto, da lunga distanza, per poi coprire gli ultimi cinquecento metri in immersione, fino ad arrivare ad un obiettivo fermo all'ancora nella baietta di Santa Maria nei pressi della diga foranea di La Spezia.
Salimmo sulla motobarca che ci avrebbe portato al largo per circa cinque chilometri.
Eravamo tutti di buon umore, nonostante ci aspettasse una serata abbastanza dura di allenamento, tutto sommato ci andava bene perché quella notte non avremmo finito, come avveniva sempre, il mattino successivo.
Durante il trasferimento sul punto di rilascio in mare, decidemmo chi tra me e l'altro operatore più giovane doveva stare in mezzo. La sorte mi fu avversa, mi trovai con entrambi i polsi legati dal capo di una cimetta di collegamento, le cui altre estremità mi collegavano agli altri due operatori.
Le norme prevedevano che in acqua si dovesse lavorare necessariamente in coppia e legati da una cimetta di collegamento lunga circa un metro.
Il mare quella notte era nostro alleato, la superficie era piatta, appena increspata da una leggera brezzolina. La luna era assente e questo rendeva l'orizzonte plumbeo.
Quando la motobarca si fermò, ci sistemammo il mascherino sul polso,  stringendo adeguatamente le pinne alle caviglie, aspirata l'aria superflua dalla tuta gamma e salimmo insieme sul parapetto di legno.
Al cenno di Antonio, saltammo ritti come fusi nel mare calmo.
Mille goccioline verdi fosforescenti si spriogionarono attorno a noi, sembrava che il mare facesse festa per accoglierci tra le sue braccia.
La sensazione di freddo che partì dal viso, l'unica parte della pelle scoperta,  oltre alle mani, ci riportò subito alla realistica serata fredda di febbraio.
Quando tutti gli operatori furono in acqua, la moto barca si mosse in direzione della baia,  dove doveva ancorarsi per offrirci il punto di riferimento del nostro arrivo.
Antonio prese, con dovizia di particolari e con la sua annuale esperienza, i giusti riferimenti per condurci al buio nei pressi del nostro obiettivo.
Si sistemò la bussola fosforescente sul polso e sdraiato sul pelo dell'acqua, ci fece cenno di seguirlo.
Cominciammo a pinneggiare affiancati, io nel mezzo, utilizzando solo gli addominali e le gambe tese, le teste appoggiate sull'acqua a mo' di cuscino. Cercavamo di ridurre al minimo il classico rumore che lo sciabordio delle pinne lasciavano nel loro movimento alternato e sussultorio.
Dopo circa due ore di monotono e stancante pinneggiare all'indietro, Antonio ci fece cenno di fermarci.
Ci avvicinammo il più possibile fino a parlarci nelle orecchie. Ci indicò le luci di via della motobarca, verde e rosse, a circa cinquecento metri, verso la costa. Era giunto il momento di immergersi,  per evitare di essere visti dall'alto.
Lentamente, con circospezione cercando di ridurre al minimo i rumori, che nella notte silente corrono alla velocità della luce, dimenticandosi della loro natura sonora, indossato i mascherini, scaricata la rimanenza di aria dalle tute, per avere un assetto in acqua leggermente negativo, imboccato i boccagli dell'erogatore ad ossigeno, ci calammo lentamente sotto il pelo dell'acqua, per posizionarci a circa un metro.
Sparimmo dalla superficie che rimase piatta del tutto, rimasero a pelo d'acqua gli occhi di Antonio, che allungando il braccio davanti, traguardava per l'ultima volta la bussola, fissando così la direzione ultima di quell'avvicinamento subacqueo.
Il modo di pinneggiare per avanzare cambiò totalmente. Si stava in acqua in posizione supina in fila indiana leggermente di traverso.
La mano destra, ogni tanto andava ad agire sulla levetta posta all'estremità della bombola di ossigeno, per mandare al boccaglio una giusta quantità di "carburante" da respirare.
Era spettacolare vedere in quell'immenso muro nero le scintille fosforescenti che scaturivano dall'avanzare del corpo di Antonio. Mentre pinneggiavo e fantasticavo in quell'ambiente non troppo innaturale per noi esseri umani, mi accorsi che Antonio perdeva quota. Non vedevo più davanti la scia luminosa. Mi accorsi poi, dalla pressione nelle orecchie, che non stavo più alla quota di sicurezza. Sentii la cimetta sul braccio sinistro che mi collegava a lui tirare violentemente.
Assecondai la discesa rispondendo al tiro verso la profondità. Mi accorsi però, nel frattempo di avere anche il braccio destro in tiro verso l'alto. Mi sembrava di essere Gesù  Cristo in croce. L'ossigeno iniziava a mancare e non riuscivo con la destra a premere la levetta per farne arrivare altro.
Antonio ormai mi tirava con forza e con maggior insistenza.
Raccolsi le forze, stando praticamente in apnea senza ossigeno e con i timpani che impazzivano. Ero sceso forse di una decina di metri. Trovai Antonio davanti a me che si dimenava. Ad un tratto mi sentii tirare le pinne e non riuscivo più a muovere le gambe. Mi sentivo legato. Allungai la mano sinistra nel buio totale in direzione di Antonio, agguantai una maglia di nylon.
Era una rete da pesca.
Antonio era rimasto praticamente impigliato totalmente.
Capii che non poteva respirare era tutto aggrovigliato.
Ma anche io, più mi muovevo e più mi sentivo legare.
Mi sentivo scoppiare le orecchie, ero rimasto ormai senza un grammo di ossigeno.
Con la forza della disperazione, Tirai forte il braccio destro rimasto teso verso l'alto. Non sapevo in che condizioni era il terzo operatore. Riuscii ad arrivare alla valvola e spruzzai un po' di ossigeno in bocca. Ne assaporai ed ingoiai una buona quantità. Poi feci scorrere lentamente la mano lungo la gamba destra cercando di non impigliarmi  nelle maglie della rete,  raggiunse il pugnale subacqueo che avevo nel fodero. Fortunatamente era ben affilato su entrambi i lati. Cominciai a tagliare al buio attorno alle mie pinne e mi liberai, mi fiondai verso Antonio. Sembrava inerme ed era senza boccaglio.
Con la forza della disperazione cominciai a tagliare. Mi fermai un attimo, mi tolsi il boccaglio e glielo misi in bocca. Antonio fortunatamente si riprese e cominciò a "ciucciare" abbondanti boccate del mio ossigeno. Nel frattempo riuscii a liberarlo del tutto.
Ci dirigemmo in superficie velocemente. Avevamo ormai entrambi gli autorespiratori allagati ed inefficienti. Risalendo trovammo il terzo operatore. Anche lui aveva avuto problemi con la rete ed era riuscito ad uscirne. Schizzati fuori dalla superficie dell'acqua, con gli occhi ormai fuori dalle orbite, le bocche spalancate che anelavano aria fresca. Sentii l'aria effervescente riempirmi la gola e dirompere nel petto.
La respirai insistentemente fino quasi ad ubriacarmi. Antonio era in preda a convulsioni. Riuscì poco dopo a calmarsi. Presi la torcia elettrica subacquea e la accesi in direzione della motonave. Sentii subito i motori accendersi e vidi le luci direzionarsi verso di noi. Mi allungai sulla schiena adagiandomi sull'acqua fredda e nera, respirando a pieni polmoni.
Antonio era esausto tra le mie braccia. Eravamo salvi tutti e tre, grazie ad un pugnale ben affilato.
La Spezia febbraio 1983

2 commenti:

Salvatore ha detto...

Wow..un'altro episodio tattico (a lieto fine...)che ti coinvolge mentalmente come facente parte del gruppo. Vai forte Nello.

Lorenzo 575 ha detto...

Che bella storia. Antonio il capo terna, mi pare di vederlo ancora una volta coinvolto in un brutto episodio, Quando qualche anno prima ,lunga la diga foranea mi sentii tirare verso il fondo ,continuai a pinneggiare pensando ad una lieve stanchezza del secondo ,visto che trascinava il simulacro. Eravamo giovani con tanta voglia di far presto e bene. Per fortuna più che perizia di subacqueo mi fermai guardando verso il fono e mi accorsi che stavo trascinando un peso morto. Scesi immediatamente trascinando a me la cimetta di collegamento e vidi un mascherino pieno fino agli occhi di schiuma bianca, bastarono tre o quattro forti pinneggiate per salire a galla. Gli tolsi il mascherino e lanciai un segnale di allarme con un "minolux ". Tanta paura .