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giovedì 26 ottobre 2023

MONTEMARCELLESI INTERNATI IN AMERICA


Montemarcello, un piccolo borgo facente parte del comune di Ameglia, situato sul promontorio del Caprione, nella sua parte terminale affacciato sul mare. La maggior parte degli uomini che tra la fine ed inizio novecento nascevano in questi posti erano destinati, per scelta o per bisogno ad iscriversi nella “Gente di Mare” al fine di potersi imbarcare sulle navi mercantili, per intraprendere il duro mestiere di marittimo. Non sfuggirono a questo destino Giuseppe Domenichini e Armando Gugliemone, i protagonisti di questa storia, difficile da raccontare, sia per mancanza di dati effettivi che della presenza dei personaggi principali e dei loro amici e coetanei, che hanno vissuto con loro queste esperienze.

Giuseppe, classe 1903, primo di quattro figli, dovette molto presto prendere la via del mare. Il suo primo imbarco, a sedici anni, come quello di tutti i novizi dell’epoca, avvenne a Genova. La qualifica attribuitagli fu di mozzo tuttofare. Mestiere di apprendistato, che veniva assegnato allo scopo di avere bassa forza e manovalanza a bordo per riempire con necessità i buchi lavorativi che si andavano creando nei vari reparti, ed offrire ai neo marinai la possibilità di conoscere appieno il mestiere a bordo e di poter scegliere le qualifiche future, ritenuti dagli stessi più consone alle proprie aspettative e capacità.

Giuseppe, fin da subito, non ebbe dubbi, era attratto dalla propulsione della nave, dalle macchine e dalle sue caldaie.

A quei tempi i motori dei Piroscafi erano alimentati con caldaie ed avevano come carburante il carbone. Gli venne attribuita presto la qualifica di fuochista.

Era molto facile per quei tempi, durante i vari imbarchi, che potevano durare anche oltre un anno, di navigare insieme a dei paesani amici o addirittura parenti. Uno di questi amici fu il suo compaesano Armando Guglielmone, classe 1909. Anche lui effettuò il primo imbarco a sedici anni, anch'egli dapprima mozzo e successivamente passò tra il personale di macchine.

Entrambi erano addetti al duro lavoro di spalare il carbone per alimentare le caldaie e dare vita a tutta la nave. 

Erano molto affiatati e veramente buoni amici. Si compensavano caratterialmente, uno molto scherzoso, a cui piaceva cantare, soprattutto canzoni napoletane, Armando più serio, compassato attento ai particolari e grande lavoratore. Questo loro trovarsi sempre d’accordo, trasferito anche alle famiglie che restavano a casa ad aspettarli, li portò ben presto a scegliere insieme gli imbarchi.

Alla soglia dei trent’anni, durante una delle navigazioni oltreoceano, arrivò a Giuseppe la notizia dell’arrivo del primo figlio, a cui venne dato il nome Enio. Qualche anno dopo, nel 1935, toccò ad Armando. Per lui fu una notizia al femminile, arrivò in casa Guglielmone, la piccola Albertina.

La loro attività marittima proseguiva più o meno tranquilla, tra imbarchi e sbarchi quasi annuali e viaggi terrestri verso Genova, ormai erano circa vent’anni che battevano il mare, quasi sempre insieme. Arrivò durante una pausa di sbarco, a febbraio del 1939 il secondo figlio di Giuseppe, a cui venne dato il nome Aldo.

Nello stesso anno, venti di guerra, seppur lontani, cominciavano a soffiare. Il periodo di riposo a terra finì, come al solito troppo presto e dovettero di nuovo imbarcare. 

Il Piroscafo Monfiore partì da Genova a giugno del ’39, diretto verso gli Stati uniti d’America.

Arrivarono nel porto di New Orleans a fine agosto dello stesso anno. Purtroppo a settembre, quello che si temeva potesse succedere, ebbe inizio. La Germania iniziò a guerreggiare in Europa, con le nazioni confinanti.  A causa di una pregressa alleanza tra Italia e Germania, gli americani dichiararono lo stato di fermo per tutte le navi mercantili italiane presenti sul proprio territorio. Iniziò il calvario di non poter comunicare con le famiglie, nessuno a casa sapeva dove fossero e cosa facessero.

A fine anno, Rita ed Enrichetta, le mogli dei due amici montemarcellesi, si recarono a Genova dalla Compagnia di Navigazione, per avere notizie dei propri mariti. Fu solo la Croce Rossa che riuscì a tranquillizzarle, dicendo loro che le navi erano ferme in porto e comunque il personale doveva restare a bordo o all’interno del porto sotto sorveglianza e che al momento non rischiavano nulla.

Purtroppo però, gli eventi precipitarono e a fine estate del ’40 l’Italia entrò in guerra e l’anno dopo toccò agli Stati Uniti d’America.

Il 28 agosto del 1941 furono requisite ventisei navi mercantili ferme nei vari porti americani, tra cui il Monfiore.

Gli equipaggi sbarcati da tali navi vennero provvisoriamente rinchiusi nelle stazioni di immigrazione di New York, Portland e Philadelfia, dove non esistevano stazioni di immigrazione nelle carceri locali, successivamente la maggioranza di loro venne internata nel campo di Fort Missoula nel Montana.

Alcune delle ventisei navi italiane furono sabotate dagli stessi equipaggi, per ordini arrivati dall’Italia.

I marittimi ritenuti colpevoli di aver guastato l'apparato motore o gli organi di navigazione, vennero giudicati dalla corte federale, che condannò tutti, emettendo condanne variabili da uno a tre anni da scontare in prigioni di tipo riformatorio, i marinai rinchiusi in prigione furono circa trecento.

Giuseppe, Armando e tutto l’equipaggio del Monfiore vennero tradotti nel Montana, nel campo di prigionia Fort Missoula.

Fu un viaggio interminabile, circa tremilacinquecento chilometri fatti con camion e treni. Giuseppe quasi non ricordava più il suo secondo figlio, lasciato in fasce a quattro mesi.

Il campo era situato nelle vicinanze della citta di Missoula Montana a circa 1000 metri di altezza sul livello del mare, in una vallata i cui campi e le cui industrie erano adibite alla produzione dello zucchero.

Alla fine gli internati nel campo furono 1143 italiani e 29 giapponesi.

Il campo era formato da baracche di legno, era lungo circa un chilometro ed era recintato da filo spinato.  Avevano però abbastanza confort, basti pensare che erano dotate di riscaldamento, di acqua corrente calda e fredda, di buoni e spaziosi dormitori. Le guardie americane lo chiamavano lo 'spaghetti lager'. 

Un grande fabbricato di legno, conteneva la cucina ed il grande refettorio. Alla cucina provvedeva un cuoco italiano, assistito da una ventina di altri internati, tratti dal personale di cucina e di camera.

Si raccontava che il cuoco, inizialmente si rifiutò di cucinare in assenza di olio, non voleva utilizzare il grasso animale fornito dagli americani. Addirittura ci fu una piccola rivolta per questo motivo.

Una grande lavanderia, azionata con motori elettrici e con apparecchi a vapore, era a disposizione gratuita degli internati.

Addirittura esisteva una biblioteca contenente circa quattromila libri italiani e varie centinaia di volumi in inglese, e francese. 

Si organizzò ben presto una scuola vera e propria che comprendeva corsi di italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, motori marini, matematica, navigazione, legislazione marittima, disegno e geometria. Vi partecipano divisi in varie classi quasi tutti gli internati.

Con i mezzi e gli strumenti messi a disposizione del campo, gli internati costituirono addirittura due orchestre. Due volte alla settimana venivano anche proiettati film di normale produzione americana.

In un campo di internati italiano, ovviamente, non poteva mancare un campo di calcio.

Un sacerdote internato Padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica per i marittimi che erano tutti cattolici.

Non male, qualcuno direbbe a questo punto, se non fosse che ormai erano lontano dalle famiglie da circa due anni. Nel frattempo il governo americano concesse agli internati di poter diventare collaborazionisti, accettando lavori all’esterno del campo. Molti di loro scelsero questa strada, se non altro perché venivano regolarmente assunti con tutti i benefici del caso, rientrando però sempre la sera nelle proprie baracche. 

L’otto settembre del 1943, Badoglio firmò la resa dell’Italia. Da questo momento fu concesso agli internati di poter fare anche altri lavori sul territorio degli Stati Uniti.

Molti internati scelsero di lavorare nelle ferrovie, sia nella costruzione di nuove tratte ferroviarie che a bordo dei treni. Giuseppe ed Armando, in qualità del loro mestiere di fuochisti, furono avviati sulle locomotive a vapore.

Nell’ottobre del 1943, furono assunti con regolare contratto di lavoro, dalla “Northern Pacific Railway Company, Co. Idaho Divisione Mtce Track”, con la qualifica “Extra Gang Laborer” (lavoratore extracomunitario). Furono  mandati a lavorare a Spokane, nel vicino stato di Washington.

Ora avevano un buon lavoro ed anche ben pagato, ma la corrispondenza era sempre molto lenta, le lettere ci mettevano anche quattro mesi ad arrivare. A loro ed alle loro famiglie interessava che stavano bene reciprocamente.

La paga era ottima e riuscivano a mettere da parte molto del loro guadagno, inviando il necessario al mantenimento delle famiglie.

Lavorarono nelle ferrovie circa tre anni, considerarono anche la possibilità di essere raggiunti dalle proprie famiglie, che non se la sentirono di lasciare tutti i loro cari a Montemarcello. Eppure per Enrichetta, nata negli USA, non sarebbe stato difficile burocraticamente.

Decisero così di mettere fine a quell’esperienza prima da internati e poi di lavoratori in America.

Il 25 marzo del 1946 arrivarono a Genova, dove ad aspettarli c’erano le rispettive famiglie.

Giuseppe trovò un figlio quattordicenne ed un altro che nemmeno più conosceva, Aldo, che aveva compiuto sette anni un mese prima. 

Armando poté riabbracciare la piccola Albertina che era quasi una donnina di undici anni.

Il ministero della navigazione riconobbe loro il periodo da internati come imbarco effettivo, con tutti i benefici del caso. Il governo americano riconobbe loro una pensione da sommare a quella italiana.

Tornarono a casa felici, dovevano farsi riconoscere soprattutto dai figli che quasi li discostavano da loro.

Quella felicità e quella nuova vita a Montemarcello, non durò a lungo, il mare chiamava i suoi uomini e loro risposero. Il 29 luglio del 1947 salirono sul Piroscafo Acasta per una nuova navigazione.

Nello Ricciardi

venerdì 20 ottobre 2023

LA FASE ACQUA


La quaranta chilometri fu l’ultimo test della lunga e faticosa fase terra, del corso Incursori 1980. In questo periodo di grande selezione naturale ed allontanamento degli allievi non ritenuti idonei, avevamo acquisito i fondamentali utili a muoversi su vari tipi di terreno e ad ambientarci con circospezione a quello che ci stava attorno, imparando a menadito l’utilizzo delle mappe topografiche utilizzando al meglio i vari strumenti di calcolo, per riuscire a muoversi in contesti variegati, mai conosciuti prima. Cominciavamo a destreggiarci con le più conosciute armi portatili, maneggiandole con rispetto e senza pericolo altrui. Eravamo in possesso dei principali rudimenti di tecniche di difesa individuale, che utilizzavamo con scaltrezza.  Avevamo imparato a manipolare piccole cariche esplosive e quello che serviva ad innescarle. Conoscevamo alla perfezione l’acronimo “FLOC”, (Forma, Lucentezza, Ombra, Colore), a cui bisognava scrupolosamente attenersi per mimetizzarsi a dovere nei vari ambienti in cui si andava ad operare. Ma forse parlare di ambienti al plurale è sbagliato, perché mancava, alle nostre conoscenze, ancora un ambiente, ai più sconosciuto e poco adatto agli umani, ma allo stesso modo essenziale per un incursore della Marina Militare. Iniziò la seconda fase del corso, appunto la fase acqua, quella che a quasi tutti incuteva più timore. Avevamo sentito spesso i nostri istruttori pronunciare la frase: “Tanto durante la fase acqua il corso si dimezzerà, perdendo tanti aspiranti al basco verde”. Al termine di questa affermazione, immediatamente, gli sguardi dei miei fratelli di corso si incrociavano fra di loro, per intuire chi avrebbe abbandonato per primo. Dal mio canto, sentivo gli adocchiamenti di tutti rivolti verso la mia persona. Forse perché non avevo mai tenuto nascosto il mio timore per il mare, derivante dal mio non saper nuotare. Il pensiero che fossi io tra i primi a chiedere di essere esonerato dal corso era quasi una certezza, ma non volevo rassegnarmi e quindi continuare a vivere quella meravigliosa avventura giorno per giorno, prova dopo prova.
Ci ritrovammo così, in fila nei pressi della cala subacquea, dove un anziano capo palombaro con il viso cotto dal sole, ci distribuì, in modo abulico e con poca cura, il materiale personale necessario per poter iniziare l’attività in acqua. Forse era ben conscio che la maggior parte di quel materiale gli sarebbe ritornato presto indietro, riportato dai rassegnati allievi rinunciatari.
Tenuta di sottomuta in tessuto di lana (altamente infeltrita), completo di calzerotti (che stavamo in piedi da soli). Non chiese le taglie personali, il vestiario era dispensato ad occhio dallo stesso capo carico, a suo insindacabile giudizio, dopo aver dato uno sguardo fulminio all’interessato di turno, anche perché sull’abbigliamento, seppur lavato e pulito, non esistevano etichette e segni che potessero ricondurre alle taglie. Ci piaceva pensare che quei vestiti potessero essere appartenuti ai vecchi Eroi del Serchio, quindi si sorvolava candidamente sull’aspetto poco attraente e sulle notevoli sdruciture e molteplici rappezzi apportati negli anni, sicuri che avremmo dovuto presto impegnarci ancora con qualche cucitura. La mitica muta gamma, anche quella rigorosamente con i segni del tempo e con vistose ferite riportate, curate professionalmente con riparazioni tipo camera d’aria di bicicletta. Il canguro, importante cerchio in gomma con anima in ferro che si aggiuntava in vita e su cui si ripiegavano a doppia mandata, le due parti elastiche delle mezze mute, sigillando il tutto con un robusto elastico, allo scopo di renderle stagne in acqua. Questo era il corredo completo. Mancava l’attrezzatura per poter immergersi e nuotare al di sotto della superficie del mare, quindi completavano l’equipaggiamento il mascherino tipo pinocchio, il mefisto in neoprene e le pinne modello rondine e soprattutto, sua maestà l’ARO,  l’autorespiratore ad ossigeno a ciclo chiuso
Ci assegnarono un armadietto personale, che doveva contenere tutta questa mercanzia. Un istruttore ci spiegò con dovizia di particolari come indossare ed utilizzare il vestiario e le attrezzature subacquee. Subito dopo provammo ad indossare la sottomuta e la muta di lana. Fu un’impresa per quasi tutti noi. Le taglie non corrispondevano affatto, per nessuno di noi. Le risate, dovute alla goffaggine di quella prima vestizione facevano non poco adirare gli istruttori presenti. Cominciò fin da subito, per quello che si riusciva, lo scambio tra di noi del vestiario, per cercare di vestirci tutti in maniera adeguata e che sembrasse almeno comodo. Alcuni collarini di gomma elastica, della mezzamuta di sopra, si sgualcirono inesorabilmente, ahimè, tra cui il mio. A qualcuno saltò il polsino in gomma, altri addirittura riuscirono a strappare le giunture in vita, di entrambe le mezzemute. Gli epiteti rivolti a noi dagli istruttori presenti si sprecarono, ne sentimmo un campionario degno di quei film di guerra americani, dove i sergenti veterani fanno la parte dei cattivi.
Molti di noi, testa bassa, fummo costretti a riandare in cala subacquea a cercare di far riparare o addirittura sostituire ii vestiario reso inutilizzabile. Le prese per i fondelli, accompagnate da sonore bestemmie recitate ad arte ed a modo di rosario, dal capo del vestiario, si sprecavano.
Alla fine, riuscimmo quasi tutti ad essere pronti per affrontare le prime prove di ammissione alla fase acqua. Ci ritrovammo, per affrontare la prima e temuta prova di acquaticità, vestiti di tutto punto, militarmente e silenziosamente in fila presso la scaletta della torretta, situata nel terminale di un piccolo molo assegnato al gruppo scuole, da cui ci si doveva tuffare e quindi raggiungere nave Altair, ormeggiata per fini di addestramento, al centro del Seno del Varignano. 
Da li a poco, alcuni segni di nuova vita germogliò sulla pelle degli allievi che continuarono imperterriti la fase acqua. Sembravano piccole lamine lucenti. Qualcuno asseriva che assomigliassero biologicamente a squame.
Varignano, giugno 1980
Nello Ricciardi