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lunedì 19 settembre 2016

RITA

La vita dei giovani marinai è sempre stata descritta piena di avventure amorose e divertimento facile. Non sempre, però, nel mio caso, lo stereotipo ha rispecchiato la realtà. Ho sempre fatto molta fatica ad identificarmi nel personaggio tipico descritto nelle storie o nei film. La mia vita sentimentale ha sempre risentito del poco tempo, che il Varignano e la specificità altamente operativa della mia specializzazione, mi lasciava disponibile.
Il poco tempo utile allo svago e per rilassarci lo trovavo soprattutto dal pomeriggio del sabato a tutta la domenica, se non risultavo in servizio di guardia.
Fu proprio una di queste domeniche, che insieme al mio collega ed amico di sempre, mi apprestavo a partire, di buon ora,  dal Varignano per recarmi nel paesino di Montemarcello, dove eravamo stati invitati da alcune ragazze del luogo, conosciute il sabato pomeriggio precedente, a trascorrere la domenica con loro.
Come al solito toccava a me guidare la A112 azzurra metallizzata di Alessandro, lui non aveva la patente. Il mio piede destro, diversamente dal piede sinistro calzava una ciabatta, in quanto ero reduce da una operazione all'alluce. Ero da poco rientrato dalla licenza di convalescenza, che in parte avevo trascorso nel mio paese natio, a Marigliano, in provincia di Napoli, dove avevo la fidanzata.
Curavo sempre molto il mio vestire, sono sempre stato, da giovane, amante del vestito classico e comunque della cravatta, che non doveva mai mancare.
Così, anche quella mattina, avevo indossato il mio abito di fresco lana moderno ed elegante, grigio con i puntini neri, la camicia bianca con lo spillone color oro, che collegando gli angoli del colletto decorava il nodo della cravatta blu di lana, con la punta monca. La solita goccia inebriante di patchouli sul collo risultava come la ciliegina sulla torta. Mi piaceva sentirmi più adulto dei miei ventuno anni e forse nella testa e nel modo di pensare lo ero veramente.
La giornata  bella e piena di sole  ci regalava una temperatura settembrina ancora tutta da godere. Iniziammo ad impegnare la panoramica per Montemarcello, passando dalla frazione lericina Della Serra. Era la prima volta che percorrevamo quella strada. In uno dei rettilinei che forava la meravigliosa macchia mediterranea, dove dominavano lecci ed ulivi, si aprì uno squarcio nel verde che ci regalò un panorama da cartolina illustrata.
Ci fermammo ad assistere estasiati a quello spettacolo gratuito della natura. La parte terminale del Golfo Della Spezia si stagliava sotto i nostri occhi, che catturavano lo spazio turchino che contrapponeva Lerici a Portovenere, con il capoluogo incuneato sullo sfondo, riparato dalla imponente diga foranea. Le isole Palmaria e Tino confinavano all'altra estremità il mare aperto di un blù intenso.
Ci fermammo a contemplare affascinati quel paradiso naturalistico il tempo di una marlboro.
Riprendemmo il nostro viaggio solo per paura di arrivare tardi all'appuntamento con le ragazze di Montemarcello.
Arrivammo finalmente al parcheggio e ci dirigemmo al bar Arnold's. Beppe, l'anziano e taciturno gestore ci preparò due caffè.
Ci sedemmo in un tavolino all'esterno, su una specie di terrazzino che guardava il paese arroccato sulla cima, all'estremità del Caprione. Sembrava che si potesse racchiuderlo tutto nel pugno di una mano.
Ripassammo, per non sbagliare, i nomi delle tre ragazze che avevamo conosciuto la sera precedente, attribuendo ad ognuna il proprio, e che ci avevano invitati a ritornare quella mattina.
Poco dopo le vedemmo arrivare da una stradina che arrivava dal centro del paese, per la verità prima di vederle ne sentimmo il vociferare chiassoso e le risate senza senso tipiche della gioventù spensierata. Non erano tre, bensì un bel gruppetto di ragazze, più o meno della stessa età. Quelle che conoscemmo la sera prima si atteggiavano con le altre a conquistatrici e ci presentarono tutte le amiche. Piacere Nello, piacere Alessandro, dall'altra parte Monica, Anna, Serena, Barbara, Valentina, Antonella e Rita.
Ci invitarono subito a fare una passeggiata a Punta Corvo. Appena ci incamminammo a piedi e si accorsero che al posto della scarpa avevo una ciabatta, cominciarono a ridere a crepapelle ed a prendermi in giro, anche perché erano convinte, complice il mio amico Alessandro, che quello era il mio modo naturale di calzare le scarpe.
Durante quella passeggiata verso uno degli scorci più suggestivi del Golfo, come di consuetudine, approfondimmo le conoscenze. Naturalmente ci fecero mille domande sulla nostra provenienza e sul nostro lavoro. Tutto sommato erano tutte ragazze allegre, simpatiche e carine. Ma come succede sempre in questi casi, una suscitò più delle altre le mie attenzioni.
Aveva un modo di comportarsi leggermente diverso dalle altre, mi risultò fin da subito più sobria e riservata. Aveva dei capelli corvini pettinati in modo naturale che formavano una cascata di riccioli morbidi e vaporosi  dalle forme più disparate che declinavano dolcemente sulle spalle. Piccola di statura ma dal portamento aggraziato. Vestiva molto elegante e mi colpì il suo tailleur gessato blu, indossato su di una camicetta bianca con i voulant di seta. Le calze velate e il decoltè nero con il tacco importante, le conferivano il portamento di una donna di classe, nonostante i suoi sedici anni. Completavano il favoloso quadro di donna, le labbra segnate da un rossetto carminio, incastonate in un viso da bambola, davvero carino con due occhi grandi e neri che mi incutevano allo stesso tempo soggezione e tenerezza.
Immerso nei miei pensieri tutti rivolti ovviamente a questa ragazza, arrivammo al belvedere di Punta Corvo. Mi accorsi che qualcosa di strano mi stava succedendo, mi sentivo attratto troppo da questa bella ragazza. Avevo paura di sbagliare l'approccio. Mi avvicinai con una scusa e le chiesi se gentilmente mi ripetesse il suo nome. Mi guardò con i suoi occhi dolci e penetranti, da donna matura e mi sussurrò, Rita. 
Rimasi ammaliato!
Montemarcello settembre 1981
Nello Ricciardi

sabato 17 settembre 2016

CUORE E SCINTILLE

Nel mese di giugno del 1971 arrivò, per me,  anche l'ultimo giorno delle scuole elementari. 
Avevo terminato il primo ciclo delle scuole primarie con entusiasmo e senza particolari problemi. La licenza elementare mi portò, oltre alla consapevolezza di aver concluso un ciclo tutto sommato divertente, al pensare ad occupare le giornate in modo più proficuo e meno ludico. Insomma cominciavo a sentirmi grande e volevo dimostrare, soprattutto a me stesso questa presa di coscienza nuova che mi bolliva dentro.
Una mattina, dopo che mia mamma lasciò casa per recarsi al lavoro, confidai a mio padre la mia voglia di cercare un lavoro che tenesse occupato le mie giornate e che magari mi aiutasse ad esaudire qualche mio desiderio, primo tra tutti comprare il mio primo  libro. Ma non un libro qualsiasi. Mi erano rimaste impresse nella memoria le bellissime strorie che la maestra Correale ci leggeva ogni tanto da quel libro con la copertina di cartone pressato rosso e con il titolo impresso con i caratteri del color dell'oro. Racconti bellissimi di impegno, dedizione e senso del dovere, rispetto dell’autorità e della famiglia, amore per la patria, di solidarietà e di cuore.
Mio padre approvò la mia decisione ed uscii di casa per andare alla ricerca di un lavoro.
Mi diressi a piedi verso il centro di Marigliano, la mia città, non tralasciai nessuna attività, mi fermai a chiedere in tutte le botteghe e negozi di commercianti ed artigiani, ma non fui fortunato. Tutti guardavano la mia esile corporatura ed abbozzando un sorriso mi dicevano più o meno la stessa cosa  " ma cosa vuoi lavorare alla tua età, vai a divertirti con i tuoi amici e magari torna tra qualche anno". 
Non capivano nulla, non conoscevano nulla di Enrico, Garrone e di Precossi.
Quando ormai il sole cominciò a picchiare duro a filo a piombo sulla testa, stanco sfiduciato e arrivato quasi ai margini del lato opposto della città, vidi un uomo accucciato sotto  un camioncino semi arrugginito che con una specie di pistola in mano, che al posto della canna montava un filo lungo e consistente, con l'altra mano manteneva davanti agli occhi una strana maschera nera senza fessure e con un vetrino nero al centro. Ogni volta che l'uomo toccava con la punta della sua strana pistola il ferro, questo sprigionava migliaia di scintille colorate che andavano dal giallo all'azzurro, dal rosso al verde. Il suo viso veniva totalmente investito dalle faville e dal fumo acre che ne scaturiva, ma grazie al mascherone protettivo nero, la sua faccia ne usciva indenne ogni volta.
Rimasi affascinato ad osservare quello spettacolo, quando ad un tratto un signore mi esortò in modi bruschi a non guardare ed a girarmi dall'altra parte. Ma dall'altra parte non c'era nulla ed io indispettito tornavo ad ammirare quello spettacolo sfavillante.
Mi avvicinai all'uomo con la pistola di fuoco, quando finì il suo lavoro e gli chiesi se mi prendesse a lavorare con lui. 
Mi guardò e mi disse: "Cosa sai fare"?  "Nulla, ma vorrei imparare a fare le scintille," gli risposi.
L'uomo mi diede la mano e mi portò dentro l'officina. Il posto era abbastanza squallido, sporco e pieno di attrezzi e ferraglia sparsa in ogni dove.
"Ti voglio dare fiducia", mi disse, "entro stasera voglio che metti in ordine tutto qua dentro, sei libero di iniziare da dove vuoi". E se ne uscì.
Rimasi da solo dentro quel locale tetro, lurido e trascurato.
Cominciai a raccogliere chiavi inglesi, cacciaviti, martelli, pinze e tenaglie in ogni dove ed a riporli su un vecchio banco da lavoro ormai spoglio. Dopo un paio d'ore cominciai ad avvertire i morsi della fame, ma di mangiare non se ne parlava. Intanto le mie mani avevano acquisito una spessa patina di nero appiccicoso. L'uomo entrò con un'altra persona nell'officina e mi disse di muovermi perchè secondo lui ero troppo lento. Nel frattempo sistemò una barra di ferro in una morsa e cominciò a produrre le solite scintille variopinte. Mi fermai di nuovo a guardare ammirato quello spettacolo. Entrambi continuavano a dirmi di non guardare le scintille e di girarmi dall'altra parte. Ma perchè non dovevo assistere a quello spettacolo?
Giunse la sera tardi, il sole non c'era già più. Ero stanco stremato. l'officina era stata riordinata, dietro il banco facevano bella mostra appesi ed organizzati tutti gli attrezzi.
Il fabbro mi disse di andar via e che mi avrebbe aspettato l'indomani alle otto in punto.
La maglietta ed il pantalone erano praticamente lerci e pieni di unto nero. Arrivai a casa stremato, sporco ed affamato. Anche il contorno degli occhi era diventato nero per i continui sfregamenti delle mani sugli occhi, che nel frattempo cominciavano a farmi male seriamente.
Quella notte non riuscii a dormire continuavo ad avere i bagliori negli occhi e mi sentivo le orbite colme di sabbia. Mi mamma mi fece mettere due fette di patate sopra gli occhi per lenire il dolore.
Ma il mattino arrivò inesorabile. Gli occhi erano gonfi e rossi e la sensazione di sabbia dentro persisteva. Mi recai al lavoro. Tutta la settimana fu sempre la stessa  solfa. Mettere in ordine, pulire, rassettare, non guardare le scintille (finalmente ne capii il motivo).
Arrivò infine il sabato sera. Le mani sempre unte ed il rumore assordante dei colpi di maglio sulla lamiera, non mi fecero innamorare di quel lavoro. Ormai non mi piaceva neppure più guardare il fabbro saldare con le sue miriadi stelline colorate. O meglio non si poteva guardare.
Decisi così quella sera di mettere fine a quella brutta esperienza e ne resi partecipe il capo officina. Mi disse di non preoccuparmi, mi ringraziò e mi diede trecento lire. Praticamente cinquanta lire al giorno.
Ero felice, durante la strada del ritorno, fatta di corsa, mi fermai nella libreria al centro della città. Cercai affannato tra i tanti libri colorati e dalle copertine patinate quello che io volevo.
Non c'era. Chiesi all'edicolante. In mezzo a tanti libri che sembravano abbandonati in un angolo, prese in mano quello che volevo.
"CUORE" di Edmondo De Amicis. Prezzo 230 Lire.
Lo comprai e di corsa tornai a casa, diedi il resto dei soldi a mio padre. Quella sera non cenai neppure , aprii il libro ed andai subito alla ricerca delle storie più belle.
Marigliano, giugno 1971
Nello Ricciardi