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giovedì 25 aprile 2019

IL TEMPO DELLE MELE - IL PRIMO BACIO


La conoscenza di Rita sconvolse non poco il mio bioritmo abituale. La sensazione nuova che mi persuadeva era quella di sentirmi disarmato davanti al suo sguardo tenero e penetrante. Rita era poco più che adolescente, anche se mostrava sembianze e modi di una ragazza matura. Di solito, nel mio tempo libero e lontano da Montemarcello, il suo paese, non pensavo più di tanto a lei, avevo la mia fidanzata, seppur a seicento chilometri di distanza. Quest'ultima aveva qualche anno più di me, bella e brava ragazza, fortemente innamorata, ma anch'io di lei del resto. L'avevo conosciuta al mare durante una licenza estiva  del millenovecentottanta. Ci fidanzammo subito, ma nei due anni a seguire ci vedemmo non più di una quarantina di giorni in tutto. Il poco tempo insieme, unito alla lontananza ed ad una subentrata situazione nuova, trasformò piano piano il mio amore maturo ed incontrastato, in un amore platonico, costituito da epistolari romantici e lunghissime telefonate strazianti, dove la passione e la sincerità diminuiva di pari passo ed inversamente proporzionale al numero ed al peso dei gettoni telefonici impiegati nelle lunghissime discussioni. Quell'amore cominciò per me a diventare triste e sofferto, nonché frustante. Tuttavia, non trovavo né il coraggio né una vera motivazione per mettere fine a quello che ormai non sentivo più appartenermi.
A superare quella crisi sentimentale, mi aiutò la nuova compagnia di Montemarcello. Le ragazze che avevamo conosciuto erano veramente un bel gruppetto unito di amiche. Sempre allegre e scanzonate. Ormai era diventata mia abitudine, al termine del lavoro, percorrere quei trenta chilometri, che separavano il Varignano, dove era ubicata la mia caserma,  da quel paesino, per unirmi a loro.
Quasi tutte frequentavano le scuole superiori nel capoluogo, nel pomeriggio aiutavo qualcuna di loro nei compiti di scuola, soprattutto negli esercizi e problemi di matematica, materia dove un tempo a scuola eccellevo, al contrario,  in italiano ero sempre stato una vera schiappa.
Anche Rita, come me, era impegnata con un ragazzo della sua età. Non li vedevo molto attaccati per la verità, ma quelle poche volte che stavano insieme, sentivo qualcosa nello stomaco che mi ulcerava. Non era sicuramente ancora gelosia, ma sicuramente mi dava un gran vero fastidio.
Cercavo in tutti i modi, nei pomeriggi passati in amicizia, di stare sempre il più possibile lontano da lei, sapevo che per me era una bomba  pronta a detonare, contestualmente facevo di tutto per non incrociare i sui occhi, li consideravo la spoletta che potesse far esplodere quell’ordigno.
Dopo alcuni mesi andai in licenza, dove ritrovai la mia fidanzata. Ma le cose tra di noi non andavano bene. Tutte le litigate accumulate via telefono chiesero il conto e cominciammo a discutere fortemente. Sapevo che la colpa di quell'amore che stava finendo era solo mia. Cominciai a trovare le scuse più assurde per non vederci più assiduamente come prima. Ma nello stesso tempo non riuscivo a mettere fine a quella storia senza un vero motivo concreto. Durante quei dieci giorni di licenza il tempo non passava mai, o meglio, passava malinconico e piatto. Non so perché, mi venne in mente di chiamare a Montemarcello, al bar Arnold's, il locale che frequentavamo insieme alle ragazze. Mi rispose proprio una delle ragazze e mi disse che la domenica sarebbero andate tutte a La Spezia, per vedere il film che andava alla grande in quel periodo, “Il tempo delle mele”.
Subito, al termine della telefonata, decisi di mettere fine anzitempo  alla mia licenza per rientrare a Montemarcello.
Partii da Napoli il sabato notte ed arrivai a La Spezia con le prime luci dell'alba. Feci quel viaggio con la determinazione di sapere convintamente quello che volevo fare. Aspettai il passaggio di quella lunga mattinata domenicale in caserma. Nel pomeriggio tardi andai ad attendere Rita fuori dal cinema Astra in città.
La vidi uscire dal cinema, presi il coraggio a due mani e la chiamai. Venne subito senza indugi e mi chiese, pur sospettandolo, come mai mi trovavo li quando la licenza non era ancora terminata.
Non potevo più fingere né continuare a non guardarla negli occhi e quando lo feci sentii le farfalle nello stomaco. Gli confessai in modo chiaro e senza mezzi termini i miei sentimenti, lei manifestò, in modo convinto, di sentire  pari pari le stesse sensazioni verso di me.
Gli chiesi se potevamo iniziare a frequentarci non più come amici, ma come innamorati, annuì subito senza esitazioni. Le chiesi di prendere ancora una notte di tempo per rivedere bene se quei sentimenti appena palesati non fossero frutto di un qualcosa di diverso da quello che entrambi anelavamo. Le rivelai della mia storia sentimentale e del suo recentissimo controverso epilogo e che, se anche lei avesse fatto lo stesso con il suo ragazzo, entro il lunedì pomeriggio avremmo messo fine insieme alle due storie che ormai non ci appartenevano più. Mi restituì un si convinto e mi guardò con i suoi occhi penetranti ed umidi. Le chiesi di tornare a Montemarcello con le sue amiche, ci lasciammo con l'intenzione di entrambi di rivederci il giorno successivo all'uscita dalla sua scuola. La salutai con una timida carezza sul suo viso da bambola, racchiuso dai mille riccioli soffici e corvini. Sfiorai le sue labbra con le dita e sentii il calore del suo respiro ansimante.  Quel respiro che ancora oggi mi toglie il fiato.
La guardai andar via e mi accorsi che mi tremavano le gambe.
La sera stessa, con una breve telefonata e tanta convinzione, misi fine al mia relazione lontana.
Il giorno dopo ero puntuale fuori dall'Istituto Einaudi, frequentato da Rita. Salì in macchina e ci salutammo con un semplice ciao. Percorremmo in silenzio pochissimi chilometri, verso Montemarcello. Mi fermai in un parcheggio lato strada. La guardai dritta negli occhi, quegli occhi che mi incutevano ormai amore fuso e profondo. Senza parlare, ci avvicinammo, chiudemmo entrambi gli occhi. Le nostre labbra si attrassero come calamite per fondersi insieme. Iniziammo da li, il nostro viaggio verso il paradiso.
Montemarcello 1982
Nello Ricciardi

mercoledì 17 aprile 2019

L'ORO ROSSO

La raccolta dei pomodori iniziava di buon mattino, con la frescura si rendeva di più e con meno fatica. Bisognava sbrigarsi perché il sole nei campi cominciava a cuocere oltremodo sulla pelle esposta ed aumentare l'evaporazione sotto le vesti trasformandosi in fastidioso sudore.
Iniziava così il periodo dedicato alla conserva del pomodoro. Quell’odore è nell’aria anche ora mentre scrivo, l’odore perfetto per suggestionare i racconti di un tempo, dove l’anima era predominante, il senso dell’amore per la terra onnipresente, e i rapporti di buon vicinato essenziali.
Partivamo per andare a raccogliere il pomodoro “san marzano” presso via del Bosco, nel terreno di “Giuann ‘o brutt”. Partivo insieme a tutta la sua famiglia ed altri vicini della  “cortina di Shanghai”, così era denominato quell'allegro abitato e numericamente  addensato condominio mariglianese. 
Tornavamo a casa a notte inoltrata, stanchi, cotti e soddisfatti, la terra aveva dato il suo oro.
Il mattino seguente, all’alba, una famiglia per volta, in quel cortile eravamo una quindicina di famiglie, si iniziava il procedimento per conservare il prezioso raccolto al fine di recuperarne l'immutato fragrante sapore in tutto l'anno avvenire .
Tutti mettevano a disposizione degli altri la propria attrezzatura. “Caurari" (grosse pentole) di alluminio, passa pomodori con la maniglia, mestoli, fornelli di varie dimensioni, bidoni enormi per la cottura finale, treppiedi in ferro per il fuoco, fornelloni per il gas, ed attrezzi vari.
Qualcuno accendeva il forno condominiale, a quei tempi quasi in tutti i cortili ne esisteva uno. Quello di Shanghai era enorme, probabilmente costruito prima di tutte le case che lo circondavano.
Il cortile si trasformava in una antica e laboriosa fabbrica di conserva. Perfettamente attrezzata e con operai che non avevano nulla da invidiare a quelli specializzati. La titolare della famiglia a cui toccava far la conserva, diventava la direttrice. Da lei partivano gli ordini la suddivisione dei compiti e l’organizzazione del lavoro.
Quintali di pomodori, rossi e maturi, venivano calati nei “caurari” (grosse pentole di alluminio) per essere bolliti. Parte di questi venivano solo lavati per conservarli a crudo, un’altra parte finiva in apposite teglie da passare nel forno, per dar vita ad un altro tipo di prodotto, così da averne disponibile per tutte le esigenze culinarie.
Le ragazze venivano spesso impiegate nel lavaggio delle bottiglie e di tutti i contenitori  in vetro idonei che si riuscisse a recuperare. Nelle bagnarole era tutto un tintinnio di vetro.
Si iniziava così a far girare le macchinette schiaccia pomodori. Partivano le gare tra i macinatori più veloci. Che spettacolo vedere il fiume denso, rosso e profumato della salsa che “squaccquareava” (rumore tipico della caduta della salsa) nel contenitore sottostante.
Le numerose vespe affamate, richiamate dall'odore dolciastro della passata, volavano agguerrite attorno alle mani imbrattate, iniziava una guerra personale contro gli agguerriti e veloci insetti gialloneri, pronti a lasciare il ricordo del doloroso pungiglione sulla pelle del  malcapitato di turno.
Le varietà di prodotti estratti dalla lavorazione della materia prima venivano distribuiti nelle bottiglie multiformi e dai colori variegati.
Il compito di aggiungere all’interno della bottiglia il basilico era la cosa che amavo di più,  il suo profumo mi rimaneva in modo persistente sulle mani, e se capitava che la fogliolina rimanesse incastrata nel becco della bottiglia si utilizzava un’affilata ” mazzarella o sprucculillo” ossia un bastoncino di legno con il quale facevo cadere la foglia verso il basso .
Spesso i ragazzi, al termine di queste operazioni di riempimento, ne approfittavano per riunirsi al centro della “curtina”,  per l'immancabile partitella di pallone, mentre le ragazze rimanevano seriamente affaccendate alle loro mansioni. A dire il vero le partite finivano per essere molteplici. Le imprecazioni delle mamme, volte a farci ritornare al posto di lavoro erano sistematicamente inascoltate.
Al termine di tutte le operazioni di imbottigliamento, si rassettava velocemente  tutta l'attrezzatura , pronta per essere utilizzate il giorno dopo da un'altra famiglia. Nel frattempo iniziavano i preparativi per la bollitura dei contenitori, bottiglie, arbanelle e contenitori vari adeguatamente riempiti e tappati.
Gli uomini raccattavano dai “zuppigni” (soffitti con entrata esterna), capannoni e cantine tutto quello che poteva assomigliare a legna da ardere e che avevano certosinamente conservato durante l’anno. Questo rappresentava il carburante da mettere sotto gli enormi bidoni di spesso metallo,  contenenti l’acqua, dove venivano adagiati ed accuratamente posizionati, da mani esperte, i contenitori con “l’oro rosso”.
Il sole basso dietro le case, si apprestava al tramonto, presentando la sera, il fuoco sotto i bidoni rischiarava nuova e calda luce nel cortile. La gente si sistemava con le proprie seggiole attorno al fuoco ed iniziavano i racconti più o meno drammatici o ilari di fatti e personaggi, talvolta riferiti anche ai presenti. Qualche spiga di mais  andava a coricarsi sulla carbonella lasciata dalle fiamme, per essere poi sgranocchiata per una frugale cena. Qualche fiasco di vino non mancava mai ad accompagnare e rafforzare le esilaranti risate .
Si diventava una sola famiglia.
Poco dopo la mezzanotte, dopo la giusta bollitura, il fuoco diminuiva l’intensità e la luce  delle fiamme sempre più fioca lasciava il posto a qualc he tresiduo di tizzone ardente ed al chiarore della luna.
Il silenzio regnava nella “curtina” fino all’alba di un giorno nuovo. Sotto a chi tocca.
Marigliano, anni 70.