Translate

mercoledì 13 dicembre 2023

IL LAVORO MINORILE - LE PATATE (Prima parte)

Nel mese già caldissimo di giugno del 1973, terminai la seconda media. Iniziava il lungo periodo di vacanze trimestrali, ma come al solito, non per me. 
Le cattive condizioni economiche legate alla mia famiglia e le varie necessità collegate, di cui mi rendevo perfettamente conto, nonostante l’età, mi portarono a decidere di fare qualcosa di più utile per dare una mano al misero bilancio familiare. 
È vero che ero stato abituato a fare sempre qualche mestiere, nei cosiddetti periodi di vacanze scolastiche e non solo, spesso anche nei pomeriggi dopo gli impegni scolastici, fin da quando frequentavo le elementari.  
Esortato sempre da mio padre, che al contrario di mia madre, voleva a tutti i costi che i figli andassero ad imparare l’arte piuttosto che perdere tempo a scuola, giudicata inutile e costosa per i propri miseri guadagni. 
La mamma, invece, si era sempre battuta per mandarci a scuola, a tutti i costi e spesso questo loro modo opposto di affrontare la questione, diventava oggetto di aspre discussioni in famiglia.  
A dodici anni vantavo già un ricco curriculum lavorativo e di apprendista alle spalle. Garzone da un ciabattino, apprendista riparatore di apparecchi radio elettrici, montatore di antenne televisive, venditore ed installatore di bombole del gas, benzinaio, gommista, fabbro (per una settimana), manovale muratore, meccanico di motorini, venditore di scarpe ai mercati rionali, barista.
Nessuno di questi lavori fece accendere in me la scintilla dell’interesse, non posso però negare che tutti hanno lasciato un qualche cosa nella mia crescita personale e mi hanno aiutato scoprire il mondo dei grandi a cui andavo incontro, per integrarmi con loro. Tutte queste attività, però, avevano un punto in comune, nessuno mi faceva guadagnare nulla, se non racimolare piccolissime mance. 
Ero impegnato, dal mattino alla sera solo per imparare, o meglio, rubare il mestiere. Tutte le mance guadagnate venivano puntualmente versate nel bilancio familiare.
Ormai a dodici anni compiuti, mi sentivo grande moralmente, sempre di più sentivo il desiderio di rendermi utile alla famiglia, non avevo più voglia di essere sfruttato dagli altri senza una ricompensa. Sentivo obiettivamente anche la scuola lontano dai miei desideri, forse perché la vivevo male emotivamente, mi teneva forzatamente legata al non potermi sentire subito realizzato. 
Eppure ero molto bravo e diligente nello studio, soprattutto nell’apprendere, ed ogni anno venivo ricompensato con una borsa di studio, l’unica cosa che mi motivava a continuare, visto i complimenti affettuosi che ricevevo dalla mamma quando andava ad incassare il relativo premio. 
Fu così che una mattina presi la bicicletta di famiglia, unico mezzo di locomozione per tutti, ed andai a cercare un lavoro che mi gratificasse finalmente con una buona paga, un vero guadagno.
Man mano che pedalavo, pensavo e fantasticavo quale lavoro avrei potuto intraprendere, sicuramente per guadagnare tanto, dovevo scegliere un lavoro faticoso, nessuno mi avrebbe pagato per stare a guardare quello che faceva. Non mi veniva in mente nulla, dopo una mezza giornata che pedalavo in lungo ed in largo, dopo aver incassato il netto diniego di alcuni datori di lavoro, a cui avevo chiesto aiuto, lo sguardo si fermò sul lato opposto della strada, dove degli uomini, con l’aiuto di un nastro trasportatore stavano caricando su di un camion dei sacchetti di patate.
Mi fermai ed entrai nel cortile interno. C’erano due donne, una anziana ed una molto giovane, con un grosso grembiule legato in vita, che chiudevano, con una ottima e veloce manualità, con dello spago i sacchetti di patate pronti da caricare sul camion. 
Chiesi loro chi fosse il responsabile, per parlarci. Mi domandarono il motivo e quando io dissi che ero in cerca di lavoro, scoppiarono a ridere, senza mai interrompere il loro lavoro. La più giovane al termine della sua sonora risata mi disse: - Tu vuoi lavorare qui, ma come fai a spostare i sacchi di patate e le cassette piene che pesano più di te? Io gli risposi: - La necessità e la voglia di lavorare mi aiuterà, mettetemi alla prova, vi prego.
Mi fecero parlare con il proprietario, che era uno di quelli che stava lavorando sul camion a sistemare i sacchetti, dopo che ebbe finito.
L’uomo, tutto sudato, il viso impolverato che si intravedevano solo gli occhi, fu di poche parole e mi disse: - Non ho mai preso a lavorare uno più piccolo di una mazza da scopa, d’altronde che cosa ti posso far fare. Vieni lunedì mattina alle sei e trenta e vedremo in cosa potrai essere utile. 
Forse il buon uomo capì la mia voglia o meglio i miei bisogni, chiaramente mi chiese chi ero, dove abitavo e perché volevo lavorare.
Quella notte tra domenica e lunedì non dormii affatto, anche al pensiero di non svegliarmi ed arrivare tardi al mio primo giorno di lavoro. Fui il primo in casa ad alzarmi dal letto, erano le cinque e mezza, misi nella scodella un po’ di latte, munto la sera prima dalla mucca che stava nella stalla proprio sotto casa nostra, lo mischiai con orzo bollito nell’acqua e poi passato al colino e ci inzuppai una fetta di pane raffermo di qualche giorno prima. Inforcai la bicicletta e mi avviai pedalando velocemente verso la nuova avventura lavorativa.
Arrivai naturalmente in anticipo, feci quei cinque chilometri di distanza da casa in un attimo, come se dovessi vincere una tappa del giro d’Italia.
Dormivano ancora tutti e mi sedetti sul gradino davanti alla casa dei proprietari a prendere un po’ di respiro, poi lo sguardo cadde su una scopa lasciate a terra e mi venne in mente la frase in merito ad un lavoratore più piccolo di una mazza da scopa. La presi e tenendola diritta davanti a me, cercai di capire se io fossi più alto oppure no di quel manico di scopa. Poi non so perché comincia a spazzare il piazzale davanti a me, che era pieno di rimasugli di foglie, terra e piccole patate marce e puzzolenti, le patate marce hanno un odore veramente orribile. Pulii accuratamente tutto il piazzale e raccolsi il mucchio di immondizia in un grosso bidoncino di latta, quando uscì dalla porta la moglie del proprietario, una delle due donne che cucivano i sacchi pieni di patate qualche giorno prima. Mi chiese come mi chiamassi e mi offrì del caffè bollente appena fatto. 
Mi disse che mi aveva osservato dalla tendina della finestra, mi fece i complimenti per quello che avevo fatto e mi fece una carezza sul capo. Vedrai che adesso arriveranno il resto della famiglia ed iniziamo la giornata di lavoro, mi disse la gentil donna.
Subito dopo, il capo uscì di casa insieme al figlio ed alla figlia, parlavano tra di loro abbastanza animatamente, su come impegnare la giornata e di come dividersi il lavoro. Avevo capito che era una azienda di famiglia, dove l’unico operaio ero io, mi sentii subito importante e responsabile, alzandomi inconsapevolmente sulle punte dei piedi, sicuramente più alto di una mazza da scopa. 
Il signore si rivolse a me, chiedendomi se avevo mai impilato le cassette di plastica utilizzate per contenere e trasportare le patate o i pomodori, risposi di no, mi portò in un piazzale esterno, dove c’erano ammucchiate diverse centinaia o forse qualche migliaio di cassette, in maniera molto confusa. Mi disse che avevo tempo fino all’ora di pranzo, per assemblarle a tre e sistemarle ordinatamente fino a formare un muro alto almeno due metri e mezzo e di utilizzare una scala per arrivare dove non arrivavano le mie braccia.
Sissignore, non si preoccupi farò del mio meglio, risposi. Ecco bravo, del tuo meglio o del tuo peggio, non mi interessa, basta che finisci entro l’una e non ti fai male! 
Mi redarguì il principale. 
Cominciò così la mia prima lunga e vera giornata di lavoro.

""Fine prima parte. Qui la seconda parte""

Nello Ricciardi

domenica 5 novembre 2023

GINEVRA

 Il  calendario biologico dava come periodo di nascita della prima bimba di nostra figlia Greta e di suo marito Gianluca, durante la prima metà delle idi di ottobre. Invece, secondo le credenze popolari, la luna sarebbe in grado di influenzare il travaglio, in particolare si ritiene che i giorni di luna piena siano i più propizi per dare alla luce un bambino. Nel mese di ottobre 2020, mese ultimo individuato dal calendario fisiologico, la luna piena era prevista nella prima e nell’ultima settimana del primo mese autunnale.
Pertanto il calendario lunare, almeno per la prima parte, era nettamente in contrasto con i calcoli eseguiti dai due sposini in attesa. Con il finire di settembre e l’inizio di ottobre, tutti in famiglia aspettavamo con impazienza la prima nata in casa D’Urzo. Era diventata ormai discussione di tutte le sere, ognuno si cimentava sull’indovinare la data giusta. Chi faceva calcoli con il calendario annuale, chi con quello lunare, qualcuno si cimentava fino a vedere i movimenti del ventre gonfio a dismisura. Chi vedeva una leggera protuberanza della pancia in su, chi la vedeva in giù, a secondo di dove potevano trovarsi i piedi del futuro nascituro. Ma c’era anche chi riusciva a trovare segni premonitori nel gonfiore delle labbra della mamma, dell’allargamento delle narici e addirittura si fantasticava sul colorito o sullo spessore della pelle. Insomma, nessuno aveva capito che Ginevra, così sarebbe stato il nome imposto alla futura neonata, se la rideva, all’interno della sua ovattata e calda residenza balnearia, di tutti i discorsi circa la sua nascita, avendo già deciso di scegliere solo lei il giorno per vedere finalmente la luce del mondo, senza comunicarlo a nessuno.
A metà ottobre si esaurirono le previste 42 settimane fisiologiche e Ginevra non si decideva a venire al mondo. Sabato 17, in mattinata, per precauzione Greta fu ricoverata in ospedale a Massa. 
Domenica 18 ottobre io e Rita, candidati a diventare per la prima volta nonni, dovemmo partire di buon’ora per Zagabria, dove ci attendevano, la mattina del giorno dopo, in una clinica odontoiatrica per finire delle cure già iniziate in precedenza. Greta, intanto rimaneva in clinica, in quanto i dolori del preparto continuavano a mostrarsi, ma senza conseguenza alcuna.
Non eravamo per nulla contenti di lasciare la nostra primogenita Greta da sola ad affrontare il primo parto. Avevamo già rimandato l’appuntamento, ma non potevamo più prolungare il periodo degli interventi, per la loro naturale scadenza.
Ci confortava il fatto che, essendo in periodo conclamato di epidemia al covid, nessuno potesse andare in ospedale, per assistere da vicino la partoriente.
Quel viaggio fu per noi più lungo del solito, nel nostro cuore speravamo che la bimba si attenesse al calendario lunare, per nascere ormai a fine mese, visto che la nostra permanenza a Zagabria sarebbe durata solo quattro giorni. Ma sapevamo che era molto improbabile.
Ho dimenticato il numero di chiamate intercorse con Greta durante il viaggio e quanto fastidio le avessimo procurato per ciò, ma Rita aveva l’ansia che si poteva tagliare a fette e distribuire gratis ai viaggiatori in autogrill.
Il pomeriggio inoltrato arrivammo nella capitale croata e ci sistemammo in un appartamento quasi nuovo e molto carino, confinante con il palazzo dove era ubicata la clinica odontoiatrica.
La temperatura non era ancora fredda, l’autunno inoltrato ci regalava ancora giornate belle e fresche. Decidemmo di andare a fare una lunga passeggiata, per ingannare l’attesa di eventuali buone notizie tanto desiderate da casa. Ci avviammo lungo le sponde del lago Jarun. Un bellissimo lago artificiale, sede di un attrezzatissimo impianto di canoa e canottaggio. C’era la possibilità di camminare lungo tutto il suo perimetro esterno, passeggiando all’interno di un parco molto alberato e tenuto una meraviglia, con diverse zone di soste attrezzate e qualche punto di ristoro lungo il percorso. 
Completammo con molta calma i circa sette chilometri del perimetro del lago. Naturalmente, durante quelle due ore circa di passeggiata, l’argomento principe delle nostre conversazioni erano concentrate esclusivamente sul futuro lieto evento. 
La nostra voglia di diventare nonni era direttamente proporzionale alla voglia di tornare quanto prima a Montemarcello per abbracciare mamma e figlia. 
Già la figlia, anzi la nostra nipotina. 
Che aspetto avrà? Sicuramente per entrambi i nonni sarà molto bella! 
Ma alla fine anche se non proprio molto bella, basta che goda di ottima salute. 
Si, però potremmo anelare anche ad avere entrambe le situazioni, ossia molto bella ed in ottimo stato di salute. 
Di queste nostre fantasticherie e buoni propositi, ne facemmo cenno durante la telefonata fatta ai nostri consuoceri, Luigi e Rosa, che condividevano con noi le ansie dell’aspettativa di una prima nipotina. Anche loro, che abitavano a Torre del Greco, risultavano ben lontani dai futuri genitori e dalla prima nipotina, per l'occasione si erano temporaneamente trasferiti a Montemarcello, in casa di Gianluca e Greta.
Tutte queste fantasticherie sulla nascita, ci accompagnarono fino all’ora di cena. Decidemmo così di non rientrare nell’appartamento e ci fermammo lungo il tragitto prima di rincasare, per consumare un pasto frugale in una taverna tipica. Una buona birra rigorosamente croata, Karlovacko, ed una grigliata di ottima carne mista, tutt’altro che frugale, ci allontanarono un pochino dai pensieri circa la nostra futura bimba. 
Arrivò intanto una telefonata di Gianluca che ci avvisava del fatto che Greta era stata accompagnata in sala parto, in quanto iniziavano le prime spinte di Ginevra. Era ormai a quasi diciassette ore di travaglio, non ce la faceva più. L’ansia e le preoccupazioni di Rita salirono a mille e qualche lacrima si fece largo sulle sue gote. Io cercavo di trattenere sia l’emozione che le preoccupazioni, mascherandole con la mia indole di uomo meridionale duro e puro.
Ci avviammo verso il nostro appartamento, proprio sotto c’era un minimarket ancora aperto, ne approfittai ed entrai per comprare qualcosa atta ad un eventuale festeggiamento.
La mia scelta cadde su uno spumante brut rigorosamente croato, per la precisione dell’Istria, dall’attraente colore rosa salmone. Dalle indicazioni in etichetta e dal prezzo non proprio economico, doveva diventare un ottimo compagno di festa.
Qualche minuto dopo le tre di notte, del 19 ottobre, arrivò il tanto anelato messaggio da Gianluca. 
Ginevra è nata alle 02:57, pesa 3,610 kg ed è lunga 51 cm. 
Sia lei che Greta stanno benissimo.
Seguì immediatamente il messaggio con la prima foto. 
Io e Rita ci abbracciamo increduli davanti a tale meraviglia. Scoppiammo a piangere entrambi e ci abbracciamo, siamo nonni, siamo nonni!
Pregammo Gianluca di chiamarci al telefono e lo fece subito, ci raccontò del lungo travaglio e della quasi impossibilità si starle vicino, dovuta alle ferree regole imposte dal covid. Riuscì però ad assistere al parto. Ci rassicurò sull’ottima salute di entrambe e di quanto fosse emozionato e felice di essere diventato papà.
Chiamammo subito al telefono i nostri colleghi neo nonni, Luigi e Rosa, per condividere la gioia appena provata, anche loro come noi erano in insonne attesa, naturalmente emozionati e felici per il lieto evento.
Andai a prendere la bottiglia di spumante in frigo e i due flûte di plastica previdentemente comprati la sera. Brindammo ai nostri cari ragazzi ed alla nuova bella avventura a cui andavano incontro, ma soprattutto alla nostra cara e bellissima nipotina Ginevra.
A Rita non piaceva lo spumante brut, lo assaggiò appena, così mi costrinse a passare tutto il resto della notte in compagnia delle bollicine. Andai alla finestra ed uscii sul terrazzino che, per puro caso, era orientato ad ovest, direzione Liguria, lanciai il mio sguardo verso ed oltre i monti in lontananza, cercando segnali di vita, appena arrivati, a centinaia di chilometri. La notte era senza luna, solo una piccola virgola debolmente illuminata ed appena percettibile, mostrava la luna nuova che nasceva. Ma la mia fantasia volò nel buio della volta celeste, immaginai di vedere brillare la sola costellazione della bilancia, una delle stelle che la componeva, Zubeneschamali, sembrava molto più definita e splendente. 
Mi piacque pensare che fosse la mia nipotina che cominciava a dialogare con il nonno, lanciandogli segnali di luce celeste. 
Mi accorsi, durante queste fantasticherie che le bollicine in movimento nella bottiglia si erano trasferite, insieme al nettare che le conteneva, nel mio stomaco, rendendomi oltremodo felice, euforico nonché sognatore.
Ginevra, il cui nome ha origine dal nome gallese Gwenhwyfar, che è composto dai termini gwen, che vuol dire "bianco", "puro" e hwyfar, che vuol dire "spirito", ci aspettava a casa, per riempirci la vita ed il cuore di gioia.

giovedì 26 ottobre 2023

MONTEMARCELLESI INTERNATI IN AMERICA


Montemarcello, un piccolo borgo facente parte del comune di Ameglia, situato sul promontorio del Caprione, nella sua parte terminale affacciato sul mare. La maggior parte degli uomini che tra la fine ed inizio novecento nascevano in questi posti erano destinati, per scelta o per bisogno ad iscriversi nella “Gente di Mare” al fine di potersi imbarcare sulle navi mercantili, per intraprendere il duro mestiere di marittimo. Non sfuggirono a questo destino Giuseppe Domenichini e Armando Gugliemone, i protagonisti di questa storia, difficile da raccontare, sia per mancanza di dati effettivi che della presenza dei personaggi principali e dei loro amici e coetanei, che hanno vissuto con loro queste esperienze.

Giuseppe, classe 1903, primo di quattro figli, dovette molto presto prendere la via del mare. Il suo primo imbarco, a sedici anni, come quello di tutti i novizi dell’epoca, avvenne a Genova. La qualifica attribuitagli fu di mozzo tuttofare. Mestiere di apprendistato, che veniva assegnato allo scopo di avere bassa forza e manovalanza a bordo per riempire con necessità i buchi lavorativi che si andavano creando nei vari reparti, ed offrire ai neo marinai la possibilità di conoscere appieno il mestiere a bordo e di poter scegliere le qualifiche future, ritenuti dagli stessi più consone alle proprie aspettative e capacità.

Giuseppe, fin da subito, non ebbe dubbi, era attratto dalla propulsione della nave, dalle macchine e dalle sue caldaie.

A quei tempi i motori dei Piroscafi erano alimentati con caldaie ed avevano come carburante il carbone. Gli venne attribuita presto la qualifica di fuochista.

Era molto facile per quei tempi, durante i vari imbarchi, che potevano durare anche oltre un anno, di navigare insieme a dei paesani amici o addirittura parenti. Uno di questi amici fu il suo compaesano Armando Guglielmone, classe 1909. Anche lui effettuò il primo imbarco a sedici anni, anch'egli dapprima mozzo e successivamente passò tra il personale di macchine.

Entrambi erano addetti al duro lavoro di spalare il carbone per alimentare le caldaie e dare vita a tutta la nave. 

Erano molto affiatati e veramente buoni amici. Si compensavano caratterialmente, uno molto scherzoso, a cui piaceva cantare, soprattutto canzoni napoletane, Armando più serio, compassato attento ai particolari e grande lavoratore. Questo loro trovarsi sempre d’accordo, trasferito anche alle famiglie che restavano a casa ad aspettarli, li portò ben presto a scegliere insieme gli imbarchi.

Alla soglia dei trent’anni, durante una delle navigazioni oltreoceano, arrivò a Giuseppe la notizia dell’arrivo del primo figlio, a cui venne dato il nome Enio. Qualche anno dopo, nel 1935, toccò ad Armando. Per lui fu una notizia al femminile, arrivò in casa Guglielmone, la piccola Albertina.

La loro attività marittima proseguiva più o meno tranquilla, tra imbarchi e sbarchi quasi annuali e viaggi terrestri verso Genova, ormai erano circa vent’anni che battevano il mare, quasi sempre insieme. Arrivò durante una pausa di sbarco, a febbraio del 1939 il secondo figlio di Giuseppe, a cui venne dato il nome Aldo.

Nello stesso anno, venti di guerra, seppur lontani, cominciavano a soffiare. Il periodo di riposo a terra finì, come al solito troppo presto e dovettero di nuovo imbarcare. 

Il Piroscafo Monfiore partì da Genova a giugno del ’39, diretto verso gli Stati uniti d’America.

Arrivarono nel porto di New Orleans a fine agosto dello stesso anno. Purtroppo a settembre, quello che si temeva potesse succedere, ebbe inizio. La Germania iniziò a guerreggiare in Europa, con le nazioni confinanti.  A causa di una pregressa alleanza tra Italia e Germania, gli americani dichiararono lo stato di fermo per tutte le navi mercantili italiane presenti sul proprio territorio. Iniziò il calvario di non poter comunicare con le famiglie, nessuno a casa sapeva dove fossero e cosa facessero.

A fine anno, Rita ed Enrichetta, le mogli dei due amici montemarcellesi, si recarono a Genova dalla Compagnia di Navigazione, per avere notizie dei propri mariti. Fu solo la Croce Rossa che riuscì a tranquillizzarle, dicendo loro che le navi erano ferme in porto e comunque il personale doveva restare a bordo o all’interno del porto sotto sorveglianza e che al momento non rischiavano nulla.

Purtroppo però, gli eventi precipitarono e a fine estate del ’40 l’Italia entrò in guerra e l’anno dopo toccò agli Stati Uniti d’America.

Il 28 agosto del 1941 furono requisite ventisei navi mercantili ferme nei vari porti americani, tra cui il Monfiore.

Gli equipaggi sbarcati da tali navi vennero provvisoriamente rinchiusi nelle stazioni di immigrazione di New York, Portland e Philadelfia, dove non esistevano stazioni di immigrazione nelle carceri locali, successivamente la maggioranza di loro venne internata nel campo di Fort Missoula nel Montana.

Alcune delle ventisei navi italiane furono sabotate dagli stessi equipaggi, per ordini arrivati dall’Italia.

I marittimi ritenuti colpevoli di aver guastato l'apparato motore o gli organi di navigazione, vennero giudicati dalla corte federale, che condannò tutti, emettendo condanne variabili da uno a tre anni da scontare in prigioni di tipo riformatorio, i marinai rinchiusi in prigione furono circa trecento.

Giuseppe, Armando e tutto l’equipaggio del Monfiore vennero tradotti nel Montana, nel campo di prigionia Fort Missoula.

Fu un viaggio interminabile, circa tremilacinquecento chilometri fatti con camion e treni. Giuseppe quasi non ricordava più il suo secondo figlio, lasciato in fasce a quattro mesi.

Il campo era situato nelle vicinanze della citta di Missoula Montana a circa 1000 metri di altezza sul livello del mare, in una vallata i cui campi e le cui industrie erano adibite alla produzione dello zucchero.

Alla fine gli internati nel campo furono 1143 italiani e 29 giapponesi.

Il campo era formato da baracche di legno, era lungo circa un chilometro ed era recintato da filo spinato.  Avevano però abbastanza confort, basti pensare che erano dotate di riscaldamento, di acqua corrente calda e fredda, di buoni e spaziosi dormitori. Le guardie americane lo chiamavano lo 'spaghetti lager'. 

Un grande fabbricato di legno, conteneva la cucina ed il grande refettorio. Alla cucina provvedeva un cuoco italiano, assistito da una ventina di altri internati, tratti dal personale di cucina e di camera.

Si raccontava che il cuoco, inizialmente si rifiutò di cucinare in assenza di olio, non voleva utilizzare il grasso animale fornito dagli americani. Addirittura ci fu una piccola rivolta per questo motivo.

Una grande lavanderia, azionata con motori elettrici e con apparecchi a vapore, era a disposizione gratuita degli internati.

Addirittura esisteva una biblioteca contenente circa quattromila libri italiani e varie centinaia di volumi in inglese, e francese. 

Si organizzò ben presto una scuola vera e propria che comprendeva corsi di italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, motori marini, matematica, navigazione, legislazione marittima, disegno e geometria. Vi partecipano divisi in varie classi quasi tutti gli internati.

Con i mezzi e gli strumenti messi a disposizione del campo, gli internati costituirono addirittura due orchestre. Due volte alla settimana venivano anche proiettati film di normale produzione americana.

In un campo di internati italiano, ovviamente, non poteva mancare un campo di calcio.

Un sacerdote internato Padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica per i marittimi che erano tutti cattolici.

Non male, qualcuno direbbe a questo punto, se non fosse che ormai erano lontano dalle famiglie da circa due anni. Nel frattempo il governo americano concesse agli internati di poter diventare collaborazionisti, accettando lavori all’esterno del campo. Molti di loro scelsero questa strada, se non altro perché venivano regolarmente assunti con tutti i benefici del caso, rientrando però sempre la sera nelle proprie baracche. 

L’otto settembre del 1943, Badoglio firmò la resa dell’Italia. Da questo momento fu concesso agli internati di poter fare anche altri lavori sul territorio degli Stati Uniti.

Molti internati scelsero di lavorare nelle ferrovie, sia nella costruzione di nuove tratte ferroviarie che a bordo dei treni. Giuseppe ed Armando, in qualità del loro mestiere di fuochisti, furono avviati sulle locomotive a vapore.

Nell’ottobre del 1943, furono assunti con regolare contratto di lavoro, dalla “Northern Pacific Railway Company, Co. Idaho Divisione Mtce Track”, con la qualifica “Extra Gang Laborer” (lavoratore extracomunitario). Furono  mandati a lavorare a Spokane, nel vicino stato di Washington.

Ora avevano un buon lavoro ed anche ben pagato, ma la corrispondenza era sempre molto lenta, le lettere ci mettevano anche quattro mesi ad arrivare. A loro ed alle loro famiglie interessava che stavano bene reciprocamente.

La paga era ottima e riuscivano a mettere da parte molto del loro guadagno, inviando il necessario al mantenimento delle famiglie.

Lavorarono nelle ferrovie circa tre anni, considerarono anche la possibilità di essere raggiunti dalle proprie famiglie, che non se la sentirono di lasciare tutti i loro cari a Montemarcello. Eppure per Enrichetta, nata negli USA, non sarebbe stato difficile burocraticamente.

Decisero così di mettere fine a quell’esperienza prima da internati e poi di lavoratori in America.

Il 25 marzo del 1946 arrivarono a Genova, dove ad aspettarli c’erano le rispettive famiglie.

Giuseppe trovò un figlio quattordicenne ed un altro che nemmeno più conosceva, Aldo, che aveva compiuto sette anni un mese prima. 

Armando poté riabbracciare la piccola Albertina che era quasi una donnina di undici anni.

Il ministero della navigazione riconobbe loro il periodo da internati come imbarco effettivo, con tutti i benefici del caso. Il governo americano riconobbe loro una pensione da sommare a quella italiana.

Tornarono a casa felici, dovevano farsi riconoscere soprattutto dai figli che quasi li discostavano da loro.

Quella felicità e quella nuova vita a Montemarcello, non durò a lungo, il mare chiamava i suoi uomini e loro risposero. Il 29 luglio del 1947 salirono sul Piroscafo Acasta per una nuova navigazione.

Nello Ricciardi

venerdì 20 ottobre 2023

LA FASE ACQUA


La quaranta chilometri fu l’ultimo test della lunga e faticosa fase terra, del corso Incursori 1980. In questo periodo di grande selezione naturale ed allontanamento degli allievi non ritenuti idonei, avevamo acquisito i fondamentali utili a muoversi su vari tipi di terreno e ad ambientarci con circospezione a quello che ci stava attorno, imparando a menadito l’utilizzo delle mappe topografiche utilizzando al meglio i vari strumenti di calcolo, per riuscire a muoversi in contesti variegati, mai conosciuti prima. Cominciavamo a destreggiarci con le più conosciute armi portatili, maneggiandole con rispetto e senza pericolo altrui. Eravamo in possesso dei principali rudimenti di tecniche di difesa individuale, che utilizzavamo con scaltrezza.  Avevamo imparato a manipolare piccole cariche esplosive e quello che serviva ad innescarle. Conoscevamo alla perfezione l’acronimo “FLOC”, (Forma, Lucentezza, Ombra, Colore), a cui bisognava scrupolosamente attenersi per mimetizzarsi a dovere nei vari ambienti in cui si andava ad operare. Ma forse parlare di ambienti al plurale è sbagliato, perché mancava, alle nostre conoscenze, ancora un ambiente, ai più sconosciuto e poco adatto agli umani, ma allo stesso modo essenziale per un incursore della Marina Militare. Iniziò la seconda fase del corso, appunto la fase acqua, quella che a quasi tutti incuteva più timore. Avevamo sentito spesso i nostri istruttori pronunciare la frase: “Tanto durante la fase acqua il corso si dimezzerà, perdendo tanti aspiranti al basco verde”. Al termine di questa affermazione, immediatamente, gli sguardi dei miei fratelli di corso si incrociavano fra di loro, per intuire chi avrebbe abbandonato per primo. Dal mio canto, sentivo gli adocchiamenti di tutti rivolti verso la mia persona. Forse perché non avevo mai tenuto nascosto il mio timore per il mare, derivante dal mio non saper nuotare. Il pensiero che fossi io tra i primi a chiedere di essere esonerato dal corso era quasi una certezza, ma non volevo rassegnarmi e quindi continuare a vivere quella meravigliosa avventura giorno per giorno, prova dopo prova.
Ci ritrovammo così, in fila nei pressi della cala subacquea, dove un anziano capo palombaro con il viso cotto dal sole, ci distribuì, in modo abulico e con poca cura, il materiale personale necessario per poter iniziare l’attività in acqua. Forse era ben conscio che la maggior parte di quel materiale gli sarebbe ritornato presto indietro, riportato dai rassegnati allievi rinunciatari.
Tenuta di sottomuta in tessuto di lana (altamente infeltrita), completo di calzerotti (che stavamo in piedi da soli). Non chiese le taglie personali, il vestiario era dispensato ad occhio dallo stesso capo carico, a suo insindacabile giudizio, dopo aver dato uno sguardo fulminio all’interessato di turno, anche perché sull’abbigliamento, seppur lavato e pulito, non esistevano etichette e segni che potessero ricondurre alle taglie. Ci piaceva pensare che quei vestiti potessero essere appartenuti ai vecchi Eroi del Serchio, quindi si sorvolava candidamente sull’aspetto poco attraente e sulle notevoli sdruciture e molteplici rappezzi apportati negli anni, sicuri che avremmo dovuto presto impegnarci ancora con qualche cucitura. La mitica muta gamma, anche quella rigorosamente con i segni del tempo e con vistose ferite riportate, curate professionalmente con riparazioni tipo camera d’aria di bicicletta. Il canguro, importante cerchio in gomma con anima in ferro che si aggiuntava in vita e su cui si ripiegavano a doppia mandata, le due parti elastiche delle mezze mute, sigillando il tutto con un robusto elastico, allo scopo di renderle stagne in acqua. Questo era il corredo completo. Mancava l’attrezzatura per poter immergersi e nuotare al di sotto della superficie del mare, quindi completavano l’equipaggiamento il mascherino tipo pinocchio, il mefisto in neoprene e le pinne modello rondine e soprattutto, sua maestà l’ARO,  l’autorespiratore ad ossigeno a ciclo chiuso
Ci assegnarono un armadietto personale, che doveva contenere tutta questa mercanzia. Un istruttore ci spiegò con dovizia di particolari come indossare ed utilizzare il vestiario e le attrezzature subacquee. Subito dopo provammo ad indossare la sottomuta e la muta di lana. Fu un’impresa per quasi tutti noi. Le taglie non corrispondevano affatto, per nessuno di noi. Le risate, dovute alla goffaggine di quella prima vestizione facevano non poco adirare gli istruttori presenti. Cominciò fin da subito, per quello che si riusciva, lo scambio tra di noi del vestiario, per cercare di vestirci tutti in maniera adeguata e che sembrasse almeno comodo. Alcuni collarini di gomma elastica, della mezzamuta di sopra, si sgualcirono inesorabilmente, ahimè, tra cui il mio. A qualcuno saltò il polsino in gomma, altri addirittura riuscirono a strappare le giunture in vita, di entrambe le mezzemute. Gli epiteti rivolti a noi dagli istruttori presenti si sprecarono, ne sentimmo un campionario degno di quei film di guerra americani, dove i sergenti veterani fanno la parte dei cattivi.
Molti di noi, testa bassa, fummo costretti a riandare in cala subacquea a cercare di far riparare o addirittura sostituire ii vestiario reso inutilizzabile. Le prese per i fondelli, accompagnate da sonore bestemmie recitate ad arte ed a modo di rosario, dal capo del vestiario, si sprecavano.
Alla fine, riuscimmo quasi tutti ad essere pronti per affrontare le prime prove di ammissione alla fase acqua. Ci ritrovammo, per affrontare la prima e temuta prova di acquaticità, vestiti di tutto punto, militarmente e silenziosamente in fila presso la scaletta della torretta, situata nel terminale di un piccolo molo assegnato al gruppo scuole, da cui ci si doveva tuffare e quindi raggiungere nave Altair, ormeggiata per fini di addestramento, al centro del Seno del Varignano. 
Da li a poco, alcuni segni di nuova vita germogliò sulla pelle degli allievi che continuarono imperterriti la fase acqua. Sembravano piccole lamine lucenti. Qualcuno asseriva che assomigliassero biologicamente a squame.
Varignano, giugno 1980
Nello Ricciardi

    


 

mercoledì 17 maggio 2023

IL FALEGNAME E LA GUERRA (Il nonno materno)



A Palma Campania, provincia di Terra del Lavoro, una cittadina di circa ottomila abitanti, per lo più dedichi ai lavori della terra e dei suoi raccolti, oltre che la pastorizia, nasce da Giacomo Manzi e Nicoletta Cassese, il primo aprile del 1894 il nostro protagonista, a cui viene imposto lo stesso nome del padre, appunto Giacomo Manzi. Fin da piccolo Giacomino mostra un carattere irrequieto ed irascibile. Costretto dalle magre vicissitudini di natalità, seguirà i dettami della povera famiglia e già in tenera età avviato al duro lavoro nelle campagne e soprattutto nei boschi a procacciare ed a segare legna. Logicamente il diritto a dover mangiare lo privò anche della frequenza scolastica. Rimase così analfabeta a vita. Giacomino frequentava poco il paese, avendo pochissimo tempo libero a disposizione, tutto rubato dal lavoro. Successe che una domenica, durante la messa, cominciò a guardare con attenzione una ragazza che trovava posto nella parte delle donne. Si accorse che i suoi sguardi furono in qualche modo ricambiati e prendendo tutto il coraggio che serviva in quelle occasioni, la aspettò fuori nella piazzetta. Le si avvicinò abbastanza intimorita, perché aveva già sentito parlare di Giacomino e soprattutto del suo caratterino che lo aveva portato spesso a cacciarsi nei guai. Giacomino non aveva un gran fisico aitante, bensì era abbastanza esile, nonostante il duro lavoro e non arrivava al metro e sessanta di statura. Ma Rosa Bonagura, anch’essa di Palma, lo trovava affascinante e volle raggiungerlo.

Cominciarono così a frequentarsi, anche se solo la domenica. Intorno a loro, però, il lento scandire delle giornate tutte uguali e fatte di sacrifici, cominciarono ad arrivare notizie di guerre ai confini della Nazione e di grandi movimentazioni di massa per reclutare i giovani da inviare ad una eventuale possibilità di entrata in guerra, già da un anno circa avviata dai Paesi d’oltralpe.

Fu così che anche a Giacomino arrivò la tanto insperata cartolina precetto. Si presentò al vicino Distretto di Nola, dove si sottopose alle previste visite mediche di rito. Di colorito bruno, con una vistosa cicatrice sulla fronte, di professione falegname, non sa scrivere e non sa leggere, abile a vestire l’uniforme. Così fu scritto sul suo ancora immacolato foglio matricolare. Il sei di aprile del 1914 venne messo in congedo illimitato in attesa di nuovi ordini.

Tornò a casa con la tristezza addosso, non ne voleva sapere di partire per fare il soldato, non voleva lasciare la sua amata Rosa. Doveva fare qualcosa per non rispondere ad una eventuale chiamata che lo avrebbe portato lontano dal sicuro lavoro e soprattutto dai suoi affetti. Nel frattempo a livello nazionale, gli interventisti e gli irredentisti prendevano la meglio e chiedevano al governo, con grandi manifestazioni di massa, di entrare in guerra.

Fu proprio la paura della guerra che lo portò alla decisione di convolare a nozze con la sua amata, sperando in una seguente esenzione dal partire per l’eventuale fronte di guerra. Si sposarono in fretta e furia, senza fronzoli e dichiarazioni, il 24 luglio del 1914. Non avevano la possibilità di avere un loro alloggio, così si sistemarono nella casa dei Bonagura, in attesa di tempi migliori.

Il loro idillio, purtroppo, durò solo una cinquantina di giorni. Arrivò inesorabile, la chiamata a vestire la divisa dell’esercito. Presentarsi il 19 settembre del corrente anno presso la caserma del 27° Reggimento Cavalleggeri dell’Aquila. Non la prese affatto bene, andò dal medico di famiglie per avere una qualche esenzione, minacciando di tagliarsi le dita, andò finanche dal sindaco e dal comandante della locale stazione dei carabinieri. Tutti ovviamente lo esortarono a non cacciarsi nei guai, a lui ed alla giovane moglie. Il suo pensiero chiaramente era Rosa, come avrebbe fatto a mantenersi, data la forte disparità nel salario medio giornaliero, da bracciante contadino a soldato in armi, 7 lire contro appena 90 centesimi.

Non servì a nulla fare il pazzo in casa, nelle strade del paese e fino al distretto militare di Nola. Se non partiva veniva dichiarato disertore! Fu così che, anche se non convinto, suo malgrado, partì lo stesso. Con una tradotta militare, in partenza dallo scalo di Nola prese la direzione dell’Abruzzo. Arrivò in caserma dopo circa dieci ore di viaggio, con i suoi pochi averi e tutte le intenzioni di tornare a casa quanto prima. Venne assegnato alla pulizia delle stalle, dove se non altro recuperava qualche carruba da sgranocchiare oltre il misero rancio giornaliero.

In caserma fece amicizia con un corregionale di Nola, che fortunatamente era riuscito ad arrivare a frequentare la seconda elementare. Si affidò a lui per scrivere e leggere la corrispondenza con la famiglia, ma soprattutto con la consorte. Ormai era rassegnato, pensando di svolgere il servizio di leva e rientrare a casa definitivamente. Aveva però capito che la vita militare non era stata pensata per il suo carattere, libertino e senza regole. Ma se ne fece una ragione.

Purtroppo l’Italia entrò in guerra, dichiarando le ostilità all’Austria-Ungheria, il 24 maggio del 1915. La guerra impose uno sforzo popolare enorme; enormi masse di uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul fronte di battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della morte.

Il 17 agosto del 1916 Giacomino verrà aggregato al deposito di allevamento cavalli di Grosseto, nel distaccamento di Cecina. La tranquilla vita della caserma cambiò in poco tempo. Qualche giorno dopo, l’Italia dichiarò guerra anche all’Impero Germanico. Il congedo si allontanò inesorabilmente “sine die”, stante in territorio dichiarato in stato di guerra.

Con l’entrata in guerra si interruppero anche le missive. Quelle poche lettere che si riusciva ad inviare passavano dalla censura e troppo veniva tagliato, da una parte e dall’altra. Per sua fortuna non venne mai inviato al fronte, forse per le scarse competenze operative o forse per il carattere oltremodo difficile di stare con gli altri. Arrivo l’estate del 1917, durante una delle pochissime licenze concesse, decise di non rientrare in caserma.

Suo malgrado, convinto dai soliti rimproveri dei suoi conoscenti, decise di ascoltare tutti e soprattutto Rosa e rientrò al Distaccamento con dodici giorni di ritardo. Fu prontamente dichiarato disertore e denunciato al Comando territoriale di Firenze. Fu accolto con i ferri ai polsi e trattenuto in prigione di rigore, in attesa di disposizioni.

Dopo un breve processo interno, il 14 novembre del 1917 venne messo in prigione, demandando il giudizio finale al Comando Supremo del Corpo d’Armata di Verona. La prigione era dura, fatta di tavolaccio e catene.  Nessuna libertà e morale sotto i piedi!

La sentenza definitiva arrivò il 24 dicembre, alla vigilia di Natale. Pena sospesa, in quanto c’era particolare bisogno di manovalanza nelle stalle, per preparare i cavalli da inviare al fronte, avido di armi, uomini, mezzi e materiali. Intanto, tra le pochissime notizie che gli arrivavano dalla famiglia, ne arrivò una che gli avrebbe cambiato la vita. Rosa era incinta. Sicuramente era accaduto nell’ultimo mese di agosto, che era stato a casa in licenza. Gli convenne così stare buono e tenere a freno gli impulsi più imprevisti.

Riuscì a stare abbastanza tranquillo, con i suoi standard, almeno fino alla data prevista per il parto. A maggio finalmente, dopo un periodo di buona condotta forzata, chiese ed ottenne una licenza, sperando di incontrarsi con il suo primogenito.  Arrivò a casa giusto in tempo per assistere alla nascita di Iolanda, la sua prima figlia, il 24 maggio del 1918. Chiese un prolungamento della licenza, che gli fu concessa, fino al 20 giugno.

Era felice per la bimba e per la moglie, ma lo rattristava ora, ancor di più, dover ripartire, anche perché la guerra continuava senza conoscere una fine vicina. Nei giorni liberi di licenza cercava lavoro a giornata per arrotondare qualche spicciolo occorrente per la famiglia in chiara difficoltà. Arrivò il giorno fatidico del rientro, ma non ce la faceva proprio a staccarsi dalle due donne della sua vita. Anche stavolta dovettero faticare non poco per indurlo a rientrare al Distaccamento di Cecina.

Arrivò quattro giorni dopo il previsto rientro e venne dichiarato per la seconda volta disertore e denunciato al Tribunale di Guerra. Lo accompagnarono di nuovo in prigione in attesa di giudizio. Il 2 agosto del 1918, viene condannato a tre anni di reclusione ordinaria, per diserzione, al pagamento delle spese di giudizio. La pena viene però sospesa per cinque anni.

Il 4 novembre alle ore 15 tutte le operazioni di guerra cessarono e fu proclamata la fine della Grande Guerra. Armando Diaz emanò un bollettino che celebrava, non senza retorica, la vittoria sui "uno dei più potenti eserciti del mondo". Ma voi pensate che a Giacomino importasse qualcosa della vittoria? Lui stava escogitando come fare per andare a Palma Campania dalla sua piccola Iolanda. Ma certo, cominciò a fare il pazzo. Buttava per aria tutto quello che trovava per strada, cominciò ad attaccare lite con tutti per futili motivi. Il Comando decise così di ricoverarlo all’ospedale militare di Roma. Ci rimase dieci giorni e poi fu dimesso con una licenza di convalescenza di quaranta giorni.

Arrivò a casa, sperando di rimanervi sempre. Qualcuno lo ascoltò, perché durante la licenza gli ordinarono di rientrare, al termine della convalescenza, in servizio presso il deposito del Reggimento Cavalleggeri di Nola.  A Nola i giorni passavano veloci e la famiglia era vicina, non aveva più problemi se non quello di dare sostentamento alla famiglia. Qui, finalmente venne posto in congedo illimitato il 15 settembre 1919.

Gli verrà rifiutata la dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore. Inoltre non gli fu corrisposto il premio di congedamento, ma gli vennero cancellate le pene ricevute, durante il servizio in zona di guerra, ancora da scontare, grazie all’amnistia concessa dal Re Vittorio Emanuele III, per la vittoria.

La legna da tagliare lo aspettava, insieme ad una nuova vita che, intanto, stava per arrivare.

P.S.:  Le date e gli eventi riportati, in questo racconto, sono stati detratti dal Foglio Matricolare di Giacomo Manzi, mentre i fatti di collegamento tra le date sono da me liberamente interpretati.

Aniello Ricciardi

17 maggio 2023


martedì 7 marzo 2023

CASCIULELLA (Il bisnonno ed il nonno paterno)

Nel 1839, al Granatello di Portici, venne inaugurata da Ferdinando II di Borbone, re del Regno delle due Sicilie, la prima ferrovia in Europa, Napoli - Portici.  A quei tempi Napoli era la più grande città italiana e la terza in Europa, dopo Parigi e Londra. Dopo qualche decennio la ferrovia fu fatta arrivare fino a Castellammare di Stabia e poi a Nocera, collegando così tutti quei paesi che, stando abbarbicati alle falde del Vesuvio, si affacciavano sul Golfo di Napoli.  Inutile dire che attorno a questa modernità nei trasporti, in quegli anni, si svilupparono nuovi mestieri ed attività.Una delle professioni che si incrementò tantissimo attorno alla ferrovia in quel periodo, fu il trasporto di passeggeri con cavallo e carrozza, che raccoglievano i viandanti nei pressi delle stazioni. Praticamente i taxi dell’ottocento. Aniello Ricciardi, da San Giovanni a Teduccio, uomo coraggioso ed intraprendente, fiutò subito il nuovo affare. Investì i suoi risparmi ottenuti dal duro lavoro manuale e comprò un vecchio cavallo ed una piccola carrozzella malandata, da restaurare. Lo fece lui stesso, in modo del tutto artigianale, completò le ruote con i raggi di duro legno e foderò alla bella e meglio due comode panche per il trasporto dei passeggeri. Conclusa l’opera, si accorse che mancava il posto per il vetturino, ma purtroppo non aveva altro materiale, né soldi, per costruire la serpa, ovvero la seduta per il conducente. Non si perse d’animo, trovò in una discarica, una piccola cassetta di legno che gli sembrò confacente allo scopo. La riattò e la sistemò in qualche modo, recuperando spazio davanti alle sedute dei trasportati, completando l’opera e pronto per accogliere i primi passeggeri. Gli amici e conoscenti, quando lo videro, con il suo sguardo fiero e  con le briglie in tiro, seduto sulla piccola cassettina, gli appiopparono il nomignolo, in vernacolo napoletano, di “Casciulella”, ovvero piccola cassetta. Gli affari, per Casciulella andarono molto bene e presto dovette sostituire quella sua vecchia carretta con carrozze più comode e moderne. Il benessere gli diede l’opportunità di cambiare vita e costruirsi una bella famiglia. Arrivarono i figli, tanti, e con loro anche i problemi. Oltretutto alla fine dell’ottocento ed inizio novecento, ci fu un grande processo tecnologico, che portò anche in Italia le prime automobili a motore. Ben presto le carrozze furono sostituite da questi nuovi mezzi ed il benessere di Casciulella cominciò ad affievolirsi, fino a quasi sparire, diventando ben presto ed irrimediabilmente malessere. Il povero Casciulella, non sopportò il declino imposto e si abbandonò in preda alla depressione, trovando conforto solo affogando il suo sconforto nel vino. Per sua fortuna i figli cominciarono a diventare grandi e riuscirono con vari espedienti e mestieri, inventati con la nobile arte dell’arrangiarsi, sempre proficua a quelle latitudini, a portare avanti la famiglia. Purtroppo La depressione e l’alcool non lo abbandonarono mai più. Morì senza arrivare alla agognata vecchiaia, lasciando ai figli il solo soprannome. Giuseppe, uno dei figli nato a fine ottocento, era dotato di un fisico naturalmente straripante, gambe corte e tozze, braccia nodose e dure come cime di marinai, un torace ben guarnito ed il collo taurino. Una forza fisica arrivata da madre natura, a cui non poteva opporsi. Sfruttò fin da subito queste sue naturali dote fisiche per cercare un lavoro che gli si confacesse. Lo trovò nel porto di San Giovanni a Teduccio, in qualità di scaricatore di qualsiasi merce, purchè fosse  pesante ed incontrollabile per gli altri. Lavorava sodo come un somaro e forse anche di più, instancabile sotto il peso di enormi sacchi e mercanzie varie. Lavorava sia al porto che allo scalo ferroviario. Ben presto si sparse la notizia delle gesta di questo rozzo e possente scaricatore. Cominciarono a chiamarlo per organizzare scommesse a chi portasse più quintali sulle spalle e nel più lungo tratto possibile. Fu così che Casciulella jr, cominciò a vivere di sole scommesse legate alla sua enorme forza. Non andò più al porto, dove si lavorava tantissimo e si veniva pagati meno. Nemmeno allo scalo ferroviario ed in altri magazzini, guadagnava tanto di più e gli rimaneva tantissimo tempo libero. Purtroppo però, il tempo libero gli consigliò l’ozio. Cominciò a frequentare le cantine dove si giocava a carte, ma soprattutto si beveva vino. Tanto vino. L’ozio ed il vino insieme, lo portarono alla rovina. Ubriaco fin dal mattino, arrivava a sera che era uno straccio di uomo senza più forze. Si racconta che un giorno litigò tantissimo con la moglie Anna, che in questi anni gli diede sette figli, cinque maschi e due femmine, perché lei gli ricordò che il dottore dopo una delle tante chiamate, per rimetterlo in sesto, lo pregò di smettere di bere assolutamente il vino. Embè, rispose lui, ho smesso di bere vino, ho ascoltato il dottore. Ora bevo solo anice! Anche Casciulella jr morì come suo padre, alla soglia dei cinquant’anni, nell’oblio dell’alcool. Alla moglie Anna, rimasta zoppa per un incidente, cominciarono a pensare i sette figli, anche loro con l'arte di arrangiarsi e la sola eredità del soprannome.

Cav. Aniello Ricciardi