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lunedì 23 maggio 2016

PARACADUTISTI










Il suono della tromba, che dettava la sveglia militare, ci fece oltremodo sobbalzare dalle nostre brande. Non eravamo abituati, in Marina, a svegliarci con tale procedura.
Alloggiavamo in un'unica stanza con cinque letti a castello.  presso la Caserma Gamerra dell’Esercito, a Pisa, dove avremmo dovuto frequentare il corso Paracadutisti.
Quella notte, afosa ed umida di inizio giugno, la passammo con le finestre aperte ed una buona fila di zampironi fumanti disposti sui due davanzali, per tentare di tenere alla larga sciami di zanzare, avide di sangue nuovo.
Tutti noi riportavamo sulla pelle i segni di quella nottata, chi con bubboni cremisi dovuti alle  punture delle incursioni zanzaresche, chi con violastre lividure, causate dagli schiaffi, rifilati nel vuoto buio della notte, per tentare di abbattere le agguerrite ronzatrici.
Ma quella mattina, le sorprese non finirono ed il comandante della caserma riuscì ancora a sbalordirci.
Dopo la strepitante sveglia militare, dagli altoparlanti dell’intera caserma, una musica inconsueta per quel posto e per quel momento, iniziò a deliziare le nostre orecchie e lo spirito. Eravamo tutti intenti ad ascoltare quella musica lenta ed inizialmente tintinnante e ci interrogavamo con gli sguardi attoniti ed incuriositi.
Ma le prime parole tolsero ogni dubbio; On a dark desert highway, cool wind in my hair, warm smell of colitas, rising up through the air……..
Si, era proprio il brano degli Eagles, Hotel California. Solo un comandante “smart” avrebbe potuto acconsentire una cosa del genere.
Inutile dire che quella deliziosa melodia, unita alla curiosità degli avvenimenti che ci aspettavano da quel giorno, ci mise di buon umore.
Nel grandissimo piazzale al centro della caserma, si svolgeva l’alza bandiera. C’erano ameno quattro compagnie di giovani soldati schierati in fila per nove, tutti vestiti con pantaloncini corti e magliette rigorosamente grigioverdi.
Un giovane ed atletico caporal maggiore si presentò da noi, dicendoci  che da quel giorno, per tutti i trenta giorni della durata del corso, lui sarebbe stato la nostra guida ed istruttore responsabile.
Il ragazzo, dal chiaro accento toscano, aveva un aspetto formale militare molto attento ed accentuato nei nostri confronti, che eravamo tutti superiori a lui di grado.
I nostri due ufficiali, Alessandro Polonio e Fabio Teppati gli dissero di abbandonare tali attenzione e di dedicarsi al suo lavoro trattandoci da allievi e non come graduati.
Il caporale rimase veramente compiaciuto di ciò e ci portò a sistemarci nella prima fila di una di quelle compagnie. “Da oggi questa sarà la vostra compagnia e con tutti loro frequenterete il corso per tentare di diventare paracadutisti”. Ci disse il caporale, sistemandosi a sua volta davanti alla compagnia.
Venivamo da un anno di corso passato al Varignano, dove conseguimmo il brevetto da Incursori della Marina Militare, poi sei mesi di corso integrativo per passare direttamente al far parte del Gruppo Operativo Incursori. Ma per essere classificati operativi al cento per cento, mancava il brevetto di paracadutista militare. Iniziammo il corso.
Tutte le mattine la giornata iniziava con la corsa. Dopo l’alza bandiera, ogni compagnia, con il proprio caporale in testa si apprestava ad iniziare la corsa rimanendo in formazione. Si dovevano completare cinque giri di un chilometro attorno agli edifici che circondavano il campaccio.
Tutti al passo e pugni al petto. Vietato fermarsi. Per la verità c’erano alcuni ragazzi, nelle varie compagnie, che non riuscivano a reggere quelle andature, ma l’unico modo per fermarsi, uscendo dallo schieramento, era consentito quando si passava davanti ai locali igienici. Chi si fermava, si doveva nascondere dentro ed aspettare il termine dei cinque giri, per poi uscire e riaggregarsi alla compagnia, non prima di aver lasciato il proprio nominativo.
Purtroppo, con il passare dei giorni le compagnie si riducevano fin quasi a diventare dei plotoni. Non tutti i ragazzi riuscivano a tenere il passo, abbastanza forzato, sul pentachilometro.
L’addestramento, quasi tutto fisico, vedeva anche delle lezioni puramente pratiche, tendenti alla formazione tecnica vera e propria del paracadutista militare.
Queste esercitazioni erano quelle che più attiravano la nostra attenzione, in quanto la nostra squadra di incursori era già molto ben preparata fisicamente.
Uno dei primi ostacoli grossi da superare era sicuramente l’impatto con la torre in palestra.
Qui bisognava partire da tre metri, poi sei ed infine dieci metri per fare il salto nel telo concentrico tenuto a braccia tese da una decina di commilitoni.
Le prime due altezze richiedevano un salto libero. Ma per saltare dall’ultimo piano, era obbligatoria una figura plastica.
Da dieci metri il telo diventava davvero piccolo e sembrava impossibile centrarlo. Ma una volta saliti, non si poteva tonare indietro. Ognuno dichiarava la figura che avrebbe tentato di rappresentare in aria prima di atterrare al centro del telo sottostante: croce, angelo, gabbiano, erano le più dichiarate. Alla fine risultavano però tristemente figure di m….!
Il salto dalla falsa carlinga, un’altezza di sedici metri, simulava l’uscita dalla porta dell’aereo. Si veniva equipaggiati ed imbragati, come se fosse un lancio vero, quando il caporale dava il colpo sulla spalla, bisognava assumere la posizione compatta di lancio e saltare nel vuoto. La fune di vincolo, invece di aprire il paracadute, rimaneva attaccata ad un cavo d’acciaio lunghissimo,
che declinava verso terra. Ciononostante, dopo il salto nel vuoto, l’impatto della fune sul cavo era tremendo ed altrettanto era l’arrivo con il terreno, dove bisognava cominciare a mulinare i piedi  già in aria per cercare di attutire ed assecondare la velocità di atterraggio.
L’ultimo giorno, prima del fatidico primo lancio, era prevista la corsa libera di cinque chilometri.
Ci portarono con i camion alla distanza prevista lontano dalla caserma. Al via si partiva e bisognava coprire il percorso in un massimo di venti minuti. Tutti quelli che arrivavano dopo non venivano ammessi al lancio.
Finalmente arrivò il fatidico giorno. Il grosso quadrimotore C130 ci attendeva sulla pista dell’aeroporto militare di Pisa.
Espletati i controlli ai paracadute correttamente indossati, il caporale distribuiva saggiamente gli ultimi buoni consigli. “Avete domande?” chiedeva prima di salire in fila sull’aereo, che ci aspettava con la pancia aperta. La risposta unica, classica e collettiva era sempre la stessa: “E se non si apre?”.
“Vuol dire che non diventerete mai più paracadutisti”. L’inesorabile risposta tristemente funebre del caporale.
L’aereo partì con un rumore assordante. Ognuno di noi, rigorosamente in silenzio, stringeva il moschettone posto in cima alla fune di vincolo. Ci scrutavamo tutti per capire dagli occhi chi avesse paura. Cinque minuti al lancio, si sentì dagli altoparlanti, immediatamente si aprirono i due portelloni laterali e l’aria entrò prepotente a riempire la fusoliera affollata di giovani aspiranti paracadutisti. Il caporale ci ordinò di alzarci e di metterci in fila in direzione dell’uscita, stando bene attaccati e con il moschettone agganciato alla corda d’acciaio. Forse per un attimo le gambe tremarono, ma non volli darle retta, mi alzai in piedi, guardando il portellone aperto per cercare dsi scrutare il di fuori. Agganciai il moschettone, quando subito si sentì “un minuto al lancio”!
Non ho mai capito come facessero a passare quattro minuti in poco più di trenta secondi. Mi ritrovai a spingere quello davanti ed a mia volta mi sentivo spingere da quello dietro.
Arrivai alla porta e mi attaccai con la mano libera sull’estremità dell’apertura nella carlinga. Potevo vedere il panorama verde sotto i miei piedi e la lunga striscia grigia dell’autostrada sottostante, al limite del campo di atterraggio. Sentii il colpo deciso della mano del caporale sulla spalla, “Via”!
Assunsi la posizione prevista e saltai nel vuoto. “Milleuno, milledue, melletre, millequattro, contai veloce”. Lo strappo verso l’alto della calotta bianca di seta frenò la velocissima caduta iniziale.
Mi trovai libero nell’aria, appeso al paracadute. Il primo pensiero fu di  guardare se era tutto a posto, poi lo sguardo cominciò a roteare a trecentosessanta gradi, ad ammirare stupito la bellezza di quell’evento unico. Una sensazione sublime di silenzio e di aria diversa che sibilava fresca nel viso. Provai a emettere dei suoni con la bocca e mi meravigliavo da come li sentivo strani. Poi cominciai a sentire varie parole degli altri paracadutisti che si chiamavano mentre scendevano lentamente verso il prato. Già, quel prato che nascondeva però un’insidia. Parallelamente all’autostrada, correva un canale melmoso d’irrigazione, dal quale, parimenti all’autostrada, bisognava stare lontani. L’errore che si commetteva tutti era quello di cercare le due maniglie dei freni e cominciare a fare un po’ a sinistra ed un po’ a destra. Ma il punto di caduta rimaneva sempre pericolosamente nel canale. Ogni tanto qualcuno ci finiva dentro e ritornava in caserma infangato fradicio, puzzolente ed isolato da tutti. Nessuno cadeva mai sull’autostrada, forse perché si sceglieva il male minore.
Nei giorni successivi succedettero altri cinque lanci, per arrivare a conseguire l’agognato brevetto. Nessun lancio però fu più uguale al primo.
Lasciammo la caserma dell’esercito per far rientro al Varignano, consapevoli e fieri di aver completato il percorso operativo. Le note di Hotel California, mi hanno accompagnato per tutta la vita come, dolce ricordo di una gioventù superba che non tornerà mai più.
Nello Ricciardi
Pisa giugno 1981


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