Translate

lunedì 20 giugno 2016

ZINGARI

Una Ford mustang color oro, con i grossi pneumatici dalle spalle bianche, entrò rombando con prepotenza dentro il largo di San Vito, il grosso piazzale antistante la chiesa. L'inusuale ed appariscente automobile attirò inevitabilmente la nostra attenzione. Abitudinariamente, passavamo le nostre giornate estive ritrovandoci nel largo di San Vito. Era il luogo perfetto per i giochi,  per noi ragazzi di quel tranquillo quartiere di Marigliano. Anche in quella calda estate di inizio anni settanta ci trovavamo a chiacchierare ai piedi della madonnetta, la statua di marmo posta all'ingresso dello slargo semi asfaltato.
La grossa ford si fermò a metà piazzale, quando un'altra imponente automobile blue  fece ingresso nello slargo. Si trattava di una bellissima mercedes 300 decappotabile con paraurti e finiture cromate e lucide.
Si fermò dietro alla ford, proprio quando scese il conducente della mustang. Un uomo alto magro e con la lunga capigliatura bionda, una leggera barba a sostenere un paio di baffi lunghi e dorati. Vestiva quasi come uno yankee ed aveva stivali di pelle con tacco alto e punte a spillo.
Il giovane era accompagnato da una bella donna , anche lei con capelli lunghissimi biondi. Allo stesso modo del compagno, aveva un abbigliamento strano. Una gonna multicolore che rasentava il terreno ed una camicetta di seta bianca a coprire l'esile corpo. Dal mercedes scese un uomo sulla cinquantina, basso, robusto, con capelli riccioli neri ed un paio di enormi e folti baffoni che gli nascondevano le labbra. Vestito di scuro con una camicia a quadri. Anche la sua compagna, una bella donna, vestita come l'altra, ma dai capelli neri lunghissimi che formavano due trecce laterali.
I due uomini andarono in direzione della chiesa, dove li aspettava uno dei frati francescani del convento.
Confabularono tra di loro, tornarono alle loro auto ed andarono via, nella stessa direzione di provenienza.
Tutti rimanemmo stupiti da quello a cui stavamo assistendo.  Qualcuno pensò fossero zingari. Ma nell'immaginario di tutti noi gli zingari erano poveri, accattoni,  sporchi e pericolosi.
Quelli invece, dalle auto che avevano dovevano essere ricchi, non erano lerci,  non sembravano neppure tanto pericolosi, visto come li aveva accolti il frate.
Impiegammo il pomeriggio intero a rimuginare su questo fatto che ci portò un pochino fuori dalla routine quotidiana.
Un paio d'ore dopo, avvertimmo di nuovo lo stesso rombo del motore sentito prima. Ne seguì la Ford ed appresso la Mercedes.  Questa volta, con nostra meraviglia, le due auto facevano da guida ad una carovana di grosse auto trainanti enormi roulotte.
Rimanemmo a bocca aperta ad ammirare auto bellissime di grossa cilindrata, che forse nessuno di noi aveva mai visto, se non sui rotocalchi patinati. Ford ,  BMW, Mercedes, nei modelli top e con la particolarità di carrozzerie variopinte.
In breve tempo, sotto la guida dei due uomini arrivati prima, la carovana si sistemò ai lati opposti del piazzale riempendolo.
Tutti si davano da fare a sganciare le auto dalle  roulotte e preparare queste ultime allo stazionamento. In brevissimo tempo lo slargo si riempì di bambini vocianti, adulti alacri e donne intente a sciorinare dalle finestre di quelle casette, biancheria e vestiti multicolori.
Un gruppetto di questi ragazzi, più  o meno della nostra età si avvicinò a noi. Parlavano un italiano strano, con una chiara inflessione slava. Ci chiesero se volevamo essere loro amici.
Qualcuno di noi, titubante, si allontanò altri rimanemmo ed intraprendemmo con loro una conversazione.
Per la verità più che una conversazione, diventò un interrogatorio, a cui i ragazzi non si sottraevano rispondendo volentieri.
Facemmo rapidamente amicizia con loro. In breve ci dissero che erano zingari nomadi, di etnia slava, che erano cristiani ortodossi, facevano parte tutti di un clan, in pratica erano in qualche modo tutti imparentati tra di loro ed i capi erano i due che li avevano preceduti. Vivevano e si sostenevano lavorando i metalli, in particolare il rame e commerciavano cavalli. In effetti due delle loro casette contenevano dei cavalli.
Tutto sommato ci risultarono simpatici.
La sera a casa, i nostri genitori, a cui raccontammo delle nuove amicizie, ci rifilarono una sonora ramanzina. Ci esortarono a non andare più  da loro e di starne alla larga. Di stare attenti perché sono criminali e dediti al furto.
Naturalmente nessuno di noi diede retta ai genitori, anzi il giorno dopo, la curiosità della novità ci spinse al loro campo già di mattino presto.
Alcuni di noi la sera stessa, furono invitati ai loro banchetti. Carne alla brace e vino. Le cene finivano sempre intorno al fuoco con l'accompagnamento di musica popolare balcana. Chitarre, armoniche e fisarmoniche erano gli strumenti utilizzati per le ballate. Erano davvero simpatici e molto ospitali.
Io feci amicizia con Ferruccio, uno dei figli del capo. Anche lui moro e ricciolo. Un ragazzo molto sveglio per la sua età.
Di giorno facevamo lunghe camminate, sulla vasca e nelle campagne limitrofe. Mi raccontava delle sue abitudini, delle sue peripezie e dei numerosi amici che inevitabilmente doveva dimenticare. Ferruccio mi insegnò a mangiare la rapa catozza.  Un ortaggio che avevo sempre creduto edibile solo per ruminanti. Le vedeva da lontano, tirava fuori il suo immancabile coltellino, lo affondavo nella terra estraendo il bianco ortaggio che consumavamo ridendo insieme. Un giorno lo portai a casa mia. Mia mamma ci cacciò fuori. Aveva paura di quel ragazzo. "Non portarmi più quello zingaro", mi disse. Ma Ferruccio non era uno zingaro, era un mio amico.
Il tempo passò in fretta, conoscevamo ormai tutti per nome. Venne il giorno che la carovana ripartì,  in fretta e furia come quando arrivarono. Ci furono abbracci e strette di mano. Un velo di tristezza fece compagnia al gesticolare dei nostri saluti.
Tornarono l'anno dopo e fu di nuovo tutto come prima. Poi non li vedemmo mai più.
Ho sempre pensato che non possono esistere gli stereotipi.
Chissà se esistono ancora zingari  come quelli che abbiamo avuto la fortuna di conoscere.
Ma chissà se esistono ancora i ragazzi tolleranti ed accoglienti di San Vito.
Marigliano anni settanta.

venerdì 17 giugno 2016

NELLA RETE

Il controllo di tutti i materiali da utilizzare durante le esercitazioni doveva essere molto minuzioso ed effettuato  scrupolosamente con pazienza certosina. La loro efficienza ed il corretto utilizzo determinavano spesso il risultato del lavoro finito.
Spesso, una volta vestiti di tutto punto, ci si controllava a vicenda il materiale e le attrezzature indossate.
Quel venerdì sera, in preparazione per l'esercitazione di routine, contrariamente al solito, il capo squadra dovette formare, oltre alle solite coppie di lavoro, una terna del tutto inusuale.
Fu così che il nostro vice capo squadra Antonio, decise di mettersi al capo della terna, insieme a me ed ad un altro operatore del mio stesso corso.
Il compito assegnato per quella esercitazione notturna consisteva in un avvicinamento a nuoto, da lunga distanza, per poi coprire gli ultimi cinquecento metri in immersione, fino ad arrivare ad un obiettivo fermo all'ancora nella baietta di Santa Maria nei pressi della diga foranea di La Spezia.
Salimmo sulla motobarca che ci avrebbe portato al largo per circa cinque chilometri.
Eravamo tutti di buon umore, nonostante ci aspettasse una serata abbastanza dura di allenamento, tutto sommato ci andava bene perché quella notte non avremmo finito, come avveniva sempre, il mattino successivo.
Durante il trasferimento sul punto di rilascio in mare, decidemmo chi tra me e l'altro operatore più giovane doveva stare in mezzo. La sorte mi fu avversa, mi trovai con entrambi i polsi legati dal capo di una cimetta di collegamento, le cui altre estremità mi collegavano agli altri due operatori.
Le norme prevedevano che in acqua si dovesse lavorare necessariamente in coppia e legati da una cimetta di collegamento lunga circa un metro.
Il mare quella notte era nostro alleato, la superficie era piatta, appena increspata da una leggera brezzolina. La luna era assente e questo rendeva l'orizzonte plumbeo.
Quando la motobarca si fermò, ci sistemammo il mascherino sul polso,  stringendo adeguatamente le pinne alle caviglie, aspirata l'aria superflua dalla tuta gamma e salimmo insieme sul parapetto di legno.
Al cenno di Antonio, saltammo ritti come fusi nel mare calmo.
Mille goccioline verdi fosforescenti si spriogionarono attorno a noi, sembrava che il mare facesse festa per accoglierci tra le sue braccia.
La sensazione di freddo che partì dal viso, l'unica parte della pelle scoperta,  oltre alle mani, ci riportò subito alla realistica serata fredda di febbraio.
Quando tutti gli operatori furono in acqua, la moto barca si mosse in direzione della baia,  dove doveva ancorarsi per offrirci il punto di riferimento del nostro arrivo.
Antonio prese, con dovizia di particolari e con la sua annuale esperienza, i giusti riferimenti per condurci al buio nei pressi del nostro obiettivo.
Si sistemò la bussola fosforescente sul polso e sdraiato sul pelo dell'acqua, ci fece cenno di seguirlo.
Cominciammo a pinneggiare affiancati, io nel mezzo, utilizzando solo gli addominali e le gambe tese, le teste appoggiate sull'acqua a mo' di cuscino. Cercavamo di ridurre al minimo il classico rumore che lo sciabordio delle pinne lasciavano nel loro movimento alternato e sussultorio.
Dopo circa due ore di monotono e stancante pinneggiare all'indietro, Antonio ci fece cenno di fermarci.
Ci avvicinammo il più possibile fino a parlarci nelle orecchie. Ci indicò le luci di via della motobarca, verde e rosse, a circa cinquecento metri, verso la costa. Era giunto il momento di immergersi,  per evitare di essere visti dall'alto.
Lentamente, con circospezione cercando di ridurre al minimo i rumori, che nella notte silente corrono alla velocità della luce, dimenticandosi della loro natura sonora, indossato i mascherini, scaricata la rimanenza di aria dalle tute, per avere un assetto in acqua leggermente negativo, imboccato i boccagli dell'erogatore ad ossigeno, ci calammo lentamente sotto il pelo dell'acqua, per posizionarci a circa un metro.
Sparimmo dalla superficie che rimase piatta del tutto, rimasero a pelo d'acqua gli occhi di Antonio, che allungando il braccio davanti, traguardava per l'ultima volta la bussola, fissando così la direzione ultima di quell'avvicinamento subacqueo.
Il modo di pinneggiare per avanzare cambiò totalmente. Si stava in acqua in posizione supina in fila indiana leggermente di traverso.
La mano destra, ogni tanto andava ad agire sulla levetta posta all'estremità della bombola di ossigeno, per mandare al boccaglio una giusta quantità di "carburante" da respirare.
Era spettacolare vedere in quell'immenso muro nero le scintille fosforescenti che scaturivano dall'avanzare del corpo di Antonio. Mentre pinneggiavo e fantasticavo in quell'ambiente non troppo innaturale per noi esseri umani, mi accorsi che Antonio perdeva quota. Non vedevo più davanti la scia luminosa. Mi accorsi poi, dalla pressione nelle orecchie, che non stavo più alla quota di sicurezza. Sentii la cimetta sul braccio sinistro che mi collegava a lui tirare violentemente.
Assecondai la discesa rispondendo al tiro verso la profondità. Mi accorsi però, nel frattempo di avere anche il braccio destro in tiro verso l'alto. Mi sembrava di essere Gesù  Cristo in croce. L'ossigeno iniziava a mancare e non riuscivo con la destra a premere la levetta per farne arrivare altro.
Antonio ormai mi tirava con forza e con maggior insistenza.
Raccolsi le forze, stando praticamente in apnea senza ossigeno e con i timpani che impazzivano. Ero sceso forse di una decina di metri. Trovai Antonio davanti a me che si dimenava. Ad un tratto mi sentii tirare le pinne e non riuscivo più a muovere le gambe. Mi sentivo legato. Allungai la mano sinistra nel buio totale in direzione di Antonio, agguantai una maglia di nylon.
Era una rete da pesca.
Antonio era rimasto praticamente impigliato totalmente.
Capii che non poteva respirare era tutto aggrovigliato.
Ma anche io, più mi muovevo e più mi sentivo legare.
Mi sentivo scoppiare le orecchie, ero rimasto ormai senza un grammo di ossigeno.
Con la forza della disperazione, Tirai forte il braccio destro rimasto teso verso l'alto. Non sapevo in che condizioni era il terzo operatore. Riuscii ad arrivare alla valvola e spruzzai un po' di ossigeno in bocca. Ne assaporai ed ingoiai una buona quantità. Poi feci scorrere lentamente la mano lungo la gamba destra cercando di non impigliarmi  nelle maglie della rete,  raggiunse il pugnale subacqueo che avevo nel fodero. Fortunatamente era ben affilato su entrambi i lati. Cominciai a tagliare al buio attorno alle mie pinne e mi liberai, mi fiondai verso Antonio. Sembrava inerme ed era senza boccaglio.
Con la forza della disperazione cominciai a tagliare. Mi fermai un attimo, mi tolsi il boccaglio e glielo misi in bocca. Antonio fortunatamente si riprese e cominciò a "ciucciare" abbondanti boccate del mio ossigeno. Nel frattempo riuscii a liberarlo del tutto.
Ci dirigemmo in superficie velocemente. Avevamo ormai entrambi gli autorespiratori allagati ed inefficienti. Risalendo trovammo il terzo operatore. Anche lui aveva avuto problemi con la rete ed era riuscito ad uscirne. Schizzati fuori dalla superficie dell'acqua, con gli occhi ormai fuori dalle orbite, le bocche spalancate che anelavano aria fresca. Sentii l'aria effervescente riempirmi la gola e dirompere nel petto.
La respirai insistentemente fino quasi ad ubriacarmi. Antonio era in preda a convulsioni. Riuscì poco dopo a calmarsi. Presi la torcia elettrica subacquea e la accesi in direzione della motonave. Sentii subito i motori accendersi e vidi le luci direzionarsi verso di noi. Mi allungai sulla schiena adagiandomi sull'acqua fredda e nera, respirando a pieni polmoni.
Antonio era esausto tra le mie braccia. Eravamo salvi tutti e tre, grazie ad un pugnale ben affilato.
La Spezia febbraio 1983

martedì 14 giugno 2016

L'ADDIO ALLE SCUOLE C.E.M.M.

Il corso Segnalatori durò dieci lunghi  mesi. Gli esami finali furono abbastanza impegnativi e ci misero tutti a dura prova. Le scuole C.E.M.M. ci stavano ormai troppo strette, avevamo voglia di  evadere, uscire dall'istituto di formazione per affrontare a pieno viso quella vita che avevamo scelto. Volevamo sentirci "gente di mare", imbarcarci finalmente  sulle gloriosi navi della Marina Militare per solcare i mari e girare il mondo. Questa era la promessa che i grandi manifesti pubblicitari divulgavano in tutti i luoghi più affollati.
Tutti noi avevamo creduto in quel messaggio e morivamo dalla voglia di concretizzare i nostri sogni.
Rimanemmo in quindici allievi, nel mese di giugno del 1979, e superammo tutti gli esami finali. Finalmente finimmo di essere allievi e diventammo tutti  "specialisti della comunicazione e scoperta, Segnalatori".
Mi classificai primo del mio corso, ciò  mi consentì di poter scegliere  la mia destinazione.
Diedi uno sguardo all'elenco delle navi disponibili ed ai luoghi dove esse facevano base.
Senza dubbio alcuno scelsi una delle navi più belle, grande ed abbastanza moderna, di base a La Spezia.
Il cacciatorpediniere lancia missili Audace.
Una nave imponente con una linea favolosa.
Insieme a me la scelsero altri due compagni di corso. Salvatore Frongia e Maurizio Evola.
L'ultima notte alle scuole, nessuno di noi dormì.  Eravamo tutti euforici e festeggiammo, con il permesso del nostro capo inquadratore, Capo Abbatangelo, quasi tutta la notte. Claudio Colella, per l'occasione tirò fuori la sua chitarra a dodici corde e ci deliziò con dovizia di un vero maestro di musica.
Ci ritrovano tutti la mattina, vestiti con le candide divise bianche estive, orgogliosi ed impettiti,  con tutti i nostri zaini di stoffa nera, pieni di tutte le nostre mercanzie. Durante la notte tutti avevamo costruito trecce di cotone giallo ad indicare la fine del corso ed il nostro diventare marinai veri. I canti goliardici, urlati a squarciagola si sprecavano, così come gli sfottò all'indirizzo del corso successivo, il 78/B, che doveva rimanere a Taranto ancora tre mesi.
Con dei pulmann militari, ci portarono alla stazione di Taranto. Ci consegnarono i biglietti del treno ed una busta gialla contenenti i documenti da presentare ai nostri nuovi comandi. Eravamo poco più  che ragazzini, pochi avevano da appena superato la maggiore età, ma la maggior parte non ci era ancora arrivato.
Fu capo Abbatangelo a richiamare la nostra attenzione e ci consigliò di leggere bene le destinazioni dei biglietti ferroviari.
Augusta. Quasi tutti, seppur diretti su navi diverse, pensavamo di andare a La Spezia. Ma come? I nostri sguardi si incrociavano con fare sbalordito.
Il capo sghignazzando ci disse che quasi tutte le navi erano in impegnate in una grossa esercitazione a sud della Sicilia e che avremmo dovuto aspettare la loro entrata nel porto di Augusta per il nostro imbarco. Nessuno però sapeva quando questo sarebbe avvenuto.
Fummo tutti immediatamente posseduti dalla tristezza collettiva. Faceva molto caldo quella mattina e la camicia bianca dava quasi fastidio addosso. Arrivò finalmente il treno per Messina.
I soliti vagoni di terza classe scomodissimi ci accolsero a bordo. Ci aiutammo tra di noi a passarci i pesantissimi zaini dai finestrini.
Nemmeno il tempo di partire che gia il candore del nostro abbigliamento cominciava a mostrare gli inevitabili segni di sporco che  il contatto con le carrozze lerce ci appiccicava addosso.
Il viaggio fu davvero lungo ed interminabile. La costa calabrese sembrava non finire più. Arrivammo in serata a Villa San Giovanni, dove imbarcammo sul ferry boat per Messina.
A mezzanotte eravamo in terra siciliana. Scoprimmo, nostro malgrado, che il primo treno per Augusta partiva alle sei del mattino.
Eravamo stanchi ed affamati. Le nostre divise erano ormai grigiaste e conservano solo lontanamente i segni del bianco candore.
Ci sistemammo su dei vagoni merci fermi in stazione, per riposarci quella notte, in attesa dell'alba. Gli zaini ci fecero da cuscino.
Finalmente a mezzogiorno circa arrivammo ad Augusta. L'ultima fatica immane fu quella di coprire, a piedi, il tragitto dalla stazione alla caserma del distaccamento marittimo, dove avremmo dovuto aspettare le tanto desiderate navi.
Per tutto il tragitto i nostri sguardi si allungavano sull'orizzonte piatto del mare, per individuare la sagoma di qualche nave militare che poteva sembrare la nostra.
Arrivammo finalmente in caserma. L'aiutante maggiore ci accolse brutalmente redarguendoci in malo modo per le condizioni pietose delle nostre divise.
Non ci diede modo di scusarci.
Non vi farò rapporto,  ci disse, però ve la farò pagare in altro modo.
Ci accompagnò in un camerone, dove ci fece consegnare i nostri effetti letterecci ed un armadietto metallico arrugginito e sbrindellato.
Toglietevi quegli stracci di dosso e vestitevi con la divisa da lavoro di jeans, vi aspetto tra dieci minuti fuori dalla porta d'ingresso", ci urlò minaccioso.
Avevamo tutti molto paura di quello che poteva farci.
Uscimmo fuori, ci mise in riga e ci disse di seguirlo. Ci portò sul retro di alcuni fabbricati, dove sembrava che ci fosse stato un terremoto. Calcinacci sparsi ed erba altissima ed incolta rendevano quel luogo orribile da guardare.
Ci fornì di un buon numero di attrezzi, quali pale, rastrelli, picconi,  falcioni, secchi e carriole.
"Per stasera voglio questo posto sistemato", si raccomandò, "benvenuti in Marina, concluse con un ghigno beffardo.
I nostri sguardi si girarono all'unisono, di nuovo verso il mare infinito cercando le navi.
Augusta, giugno 1979.