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mercoledì 10 aprile 2024

I MIEI RACCONTI

(Cliccare sui titoli per aprire il racconto da leggere)

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LE ORIGINI



INFANZIA ED ADDOLESENZA
5.   LA VASCA
15.  ZINGARI


LA MARINA MILITARE

2.   SEGNALATORI  
17.  I PUGILI

7.   KIZOMBA
9.   GINEVRA

RACCONTI  NON TANTO VERI  (FANTASIA)

1.  BOREA



I FOLLETTI DI GRETA E MARLENE

Il grande e fiorito ciliegio nel giardino di casa Ricciardi allungava i suoi imponenti e lunghi rami maestri, parallelamente al verdissimo sottostante prato, formando una robusta impalcatura che dava supporto ai nodosi rami verticali, da dove dipartivano numerosi virgulti che avrebbero dato, come ormai abituati da tempo, a numerosi frutti rossi, dolci e succosi. La pianta era diventata, in pochissimi anni, imponente facendo spuntare di tanto in tanto, grosse radici, che non riuscendo a penetrare il sottosuolo fortemente argilloso, si propagavano  longitudinali lungo il prato, dove si stagliava la sua stessa ombra.

Quella stessa ombra dove amava passare le giornate calde ed oziose il nostro cane dal pelo corto e nero. 

Tach, così lo avevano chiamato le bambine, le sorelle Greta e Marlene, era stato regalato da una conoscente di Fiumaretta. Pura razza di madre bastarda, anche lui come sua madre non aveva conosciuto il padre e forse nemmeno sua mamma aveva la sicurezza di quale cane potesse essere stato ad ingravidarla. A tutti piaceva e speravano che si rivelasse presto un potente rottweiler, almeno così sembravano le sue caratteristiche da cucciolo,  poi prontamente smentite con la crescita. Zampe grosse ed imponenti, corpo agile, di statura media, un'agilità ed una corsa incredibile, che lo associavano di più ad un levriero, se non ad un canguro sbagliato.

Purtroppo le sue rilassanti dormite sotto la chioma ombrosa, venivano puntualmente interrotte da due dispettosissimi folletti, che proprio su quell'albero amavano passare le loro giornate a giocare ed a rincorrersi.

I due fratellini erano stati assegnati alle due bambine, Greta e Marlene, come da tradizione millenaria a Montemarcello, imposta dalla comunità dei folletti del bosco del Caprione, dove ogni volta che nasceva un nuovo folletto il loro papà avrebbe dovuto piantare un leccio.

Ogni bambino, fino all'età di sei anni aveva il diritto ad essere affiancato da un folletto, maschio o femmina, contrariamente al sesso del bambino. Pertanto come amici delle due bambine erano capitati i fratelli Bedaello e Viciatello.

Non si capiva chi di loro era il più grande, entrambi non più alti di una spanna, di colorito brunastro, occhi grandi e vispi rispetto al viso. Non avevano naso ed orecchie sporgenti, ma solo degli orifizi, bocca molto larga, quanto tutto il viso. Le braccia lunghe e forti, gambe corte e tozze, capelli lunghi, fin quasi alle ginocchia. Vestiti rigorosamente di verde con un cappuccio marrone. Avevano la prerogativa di saper parlare e di capire il linguaggio degli animali, ma con i bambini non riuscivano a dire più di tre lettere di fila, pur comprendendone tutti i discorsi. Amavano solo giocare.

Dormivano riparati in una botola che rimaneva sempre aperta, sotto le scale d'ingresso della casa di Nello e Rita, i genitori delle due bambine. Nello stesso sottoscala accolsero Tach, quando arrivò cucciolo e finirono per dividere l'alloggio facendosi reciproca compagnia.

Quando Greta e Marlene tornavano da scuola, andavano ad aspettarle alla fermata degli autobus, facendo festa e rincorrendole con gioia. Allo stesso tempo, ne approfittavano per incontrare gli altri folletti che erano assegnati a tutti i bambini di Montemarcello. Il risultato era che tutti i bambini per giocare con i folletti lasciavano le mani dei genitori per correre felici con loro, prendendosi tutti i rimbrotti possibili.

Tach ci rimaneva molto male, perché doveva restare da solo a casa ad aspettare. Non gli piaceva affatto questa situazione, pertanto riusciva quasi sempre a trovare un buco nella recinzione oppure a saltarla arrampicandosi a mo' di scimmia, raggiungendo le bambine ed i folletti ed ad unirsi a loro ed a partecipare alle corse spericolate.

Quando riuscivano, si infilavano in casa e mangiavano qualcosa insieme alle ragazze, spesso sporcando dappertutto o le aiutavano nei compiti, soprattutto a fare disegni incomprensibili, consumando e rompendo oltremodo le punte dei pastelli. Naturalmente Nello e Rita non potevano vederli, a loro era precluso, nemmeno potevano ricordare i loro folletti, in quanto dopo i sei anni, i bambini non avrebbero più potuto vederli né ricordarli per tutta la vita. Questo valeva per Rita che era di Montemarcello, Nello era un "foresto" e nel posto da dove proveniva non c'erano folletti, ma solo gnomi, che erano comunque un'altra entità.

Appena potevano, Greta e Marlene, approfittando dell'arrivo delle belle giornate, amavano stare a giocare in giardino, soprattutto sull'altalena doppia, costruita artigianalmente  da Nello, con dei ferrotubi da edilizia. A Tach, a Viciatello ed a Bedaello non piaceva quel gioco, per la loro struttura fisica erano impossibilitati a parteciparvi.

Tach ne approfittava per schiacciare il solito pisolino sotto il vicino limone, ma i folletti che avevano il sangue argentato, non riuscivano a stare fermi. Riuscirono con uno stratagemma a far scendere le ragazze dalle altalene, sfidandole a chi facesse per prima il giro della casa.

Greta aveva sei anni e frequentava la prima elementare, di carattere molto tranquilla, giocosa al punto giusto, senza esagerazioni, dovuto anche alla sua proverbiale flemma, riusciva spesso a stare da sola o con i parenti ed amici, senza sentire troppo il distacco dai genitori. Insomma presentava un carattere molto indipendente. Marlene di tredici mesi più piccola, frequentava il secondo anno della scuola materna. Smilza, scaltra ed iperattiva, amava correre e fare giochi pericolosi. Il suo unico difetto, se così si poteva chiamare era troppo attaccata alla mamma. Non la si poteva lasciare a nessuno dei parenti, diventava un dramma ed allagava la casa di lacrime.

Fecero il primo giro della casa, naturalmente Marlene stava avanti con il suo folletto Bedaello che la guidava incitandola ed urlando a squarciagola, Greta seguiva leggermente distaccata, con Viciatello che cercava di spingerla disperato.

Tach continuava a dormire incurante degli schiamazzi che producevano i quattro scalmanati.

Ogni tanto Rita si affacciava dalla finestra per controllare il buon andamento dei giochi, pregandole, inascoltata di andare più piano.

Al terzo giro Marlene e Bedaello lasciarono un buon distacco alla coppia più lenta, Bedaello ne approfittò per dare una pacca a Tach, che svegliatosi all'improvviso, sbattè la testa al tronco del limone ed iniziò a correre quando passarono Greta e Viciatello. Proprio quando Tach  raggiunse Greta, lei rallentò stremata e nello stesso tempo facendo perno sulla gamba si girò pensando di tornare indietro. Tach, che aveva preso subito una forte accelerazione, trovando l'ostacolo di Greta ferma, non riuscì a schivarla e le piantò la sua zampona all'altezza del femore. 

Le urla di Greta arrivarono subito a Nello e Rita, che corsero fuori.

Greta distesa a terra implorava aiuto, la sua gamba era piegata a novanta gradi in modo anomalo, subito sopra al ginocchio.

I folletti avevano capito il dramma e non ce la fecero a rimanere sul posto, scapparono nella loro casa, convincendo Tach a fare altrettanto.

Marlene piangeva accanto alla sorella. Rita urlava in preda al panico. Nello capì subito l'entità della tragedia.  Secondo lui la gamba era rotta all'altezza del femore e la sua sicurezza appariva tutta dal gonfiore violaceo abnorme che ne era scaturito.

Accorsero anche i nonni, Nello dovette faticare non poco a tenerli lontani senza far toccare la bimba per non compromettere ulteriormente la situazione.

Nello prese una vecchia porta che aveva lasciato dietro la casa, la sistemo più vicino possibile a Greta infilandola lentamente sotto il corpo, cercando di non muoverle di un millimetro. Riuscì a sistemarla sopra senza farla scomporre, assicuratosi che non c'era ulteriore fuoriuscita di sangue interno,  pregò Rita di tenere sopra l'apparente ferita una borsa di ghiaccio.

Con l'aiuto di nonno Aldo, la trasportammo all'auto e poi diritti  al pronto soccorso.

L'ortopedico, che subito la prese a carico, fece i complimenti a Nello per come aveva attrezzato l'intervento, senza toccare mai la gamba e sistemandola su una struttura rigida, evitando contraccolpi e facendo applicare correttamente  il ghiaccio.

L'esito delle radiografie immediate confermarono la frattura del femore. Portarono subito Greta in sala operatoria, dove gli applicarono un ferro da parte a parte del femore, mettendo la gamba in tiro.

Rimase una settimana sul lettino dell'ospedale con i pesi attaccati a tirare la parte da allineare.

Non fu sicuramente una bella settimana, sicuramente Greta la ricorderà per tutta la vita. La mamma rimase sempre con lei, notte e giorno.

Tach e Marlene erano tristi a casa, soprattutto il cane, a cui i folletti avevano spiegato l'accaduto. 

Viciatello riuscì un paio di volte ad infilarsi in macchina di Nello ed a raggiungere Greta in ospedale. Lo si capiva in quanto in quelle rare volte la bambina risultava assente ai genitori continuando però a ridere ed a bisbigliare qualcosa di nascosto.

Greta tornò a casa ingessata dal petto a tutta la gamba ed aveva mantenuto nel gesso il ferro nel femore, inferto in sala operatoria.

Furono giorni atroci per lei, impossibilitata a muoversi e costretta in una posizione anomala ed altamente scomoda. Tuttavia, Viciatello non la lasciò mai, nemmeno quando un mese dopo, aggravato dal gran caldo le venne diagnosticata  la varicella. Il suo corpo si riempì di bollicine e poi di piccole vesciche, il prurito, soprattutto all'interno dell'ingessatura era diventato insopportabile. Viciatello cercava di portarle sollievo anche soffiando, per quello che poteva, all'interno di quel vestito di ovatta e gesso, per portare un minimo di refrigerio.

Bedaello cercava di tenere su con il morale Marlene, non facendole perdere la voglia di giocare.

Il tempo del riposo forzato finì e Greta venne portata in ospedale per controllare l'esito di quella cura statica. Fortunatamente la frattura si calcificò al punto giusto, il ferro le venne tolto, non senza sofferenza.

Tornò a casa per riunirsi ai suoi grandi amici, anche loro in modi diversi scossi da quel brutto episodio. Marlene, Tach, Bedaello e Viciatello si riunirono a Greta e tornarono insieme a giocare spensierati nel loro giardino.

Il sette dicembre di quello stesso anno, Greta festeggiò il suo sesto compleanno. Lo celebrò insieme agli altri in casa, erano tutti felici, tranne Viciatello. Sapeva che il giorno dopo sarebbe dovuto tornare nei boschi del Caprione, nei pressi del suo Leccio piantato apposta per lui.

Non avrebbe potuto più vedere Greta nè lei si sarebbe più ricordata di lui. Questa ere la ferrea regola del popolo dei folletti del Caprione.


Montemarcello 1996

Nello Ricciardi



LAUSDOMINI - 1955/1962




Giuseppe e Maddalena, in fuga da San Giovanni a Teduccio, ma più che altro dalla mamma e suocera, arrivarono nella città di Marigliano, ospitati da Violanda e Felice, sorella maggiore e cognato di Maddalena. 
I cognati si offrirono di accogliere presso di loro, per un breve periodo, i due giovani sposi, nel loro piccolo e spoglio bilocale fronte strada, nei pressi della stazione della circumvesuviana. Il bilocale presentava un classico spazio adibito a cucina ed una camera da letto, delimitata da un pannello di legno e tela. Un piccolissimo ed angusto locale bagno, coperto con una lamiera era ubicato all'aperto nel cortile condominiale.
Felice non aveva un lavoro fisso e sbarcava il lunario, arrangiandosi con insufficienti lavori giornalieri a chiamata, non disdegnando spesso, di adattarsi a fare lo "sciuscia", aiutando il fratello minore nel nobile lavoro di lustrascarpe, al centro di Marigliano. Tuttavia dove riusciva a trovare qualche lira in più per  far quadrare il misero bilancio giornaliero per mantenere la famiglia, era presso un'osteria in via Giannone. In quel posto, sempre saturo di fumo, gli avventori si ritrovavano per bere il classico bicchiere di vino, ma soprattutto per sedersi attorno ad un tavolo verde, per giocare a carte. 
Felice era bravissimo nel gioco della zecchinetta, un antico passatempo introdotto in Italia dai lanzichenecchi. Un gioco ritenuto d'azzardo e proibito da praticare con i soldi. Logicamente e purtroppo per lui e famiglia, seppur fosse molto bravo nel gioco, non tutti i giorni risultavano fortunati e quindi spesso non si riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. 
La vita non riservò loro grandi fortune e benessere, altresì, li aveva dotati di una grande generosità commisurata al loro cuore enorme. Dal loro matrimonio non arrivarono figli, ma nonostante gli stenti, desideravano averli. Non si tirarono indietro e non ci pensarono due volte, quando capitò loro l'occasione, ad accogliere nella famiglia un "figlio della guerra", per salvarlo dall'abbandono, il suo nome era Carlo, ma per loro diventò Giovanni. Una loro conoscente, infatti, aveva partorito questo figlio, nel 1941, mentre il marito era in guerra, ma con il rientro del marito non avrebbe potuto nasconderlo, né avrebbe potuto mantenerlo, aveva già un elevato numero di figli, così Felice e Violanda, si offrirono per dare un tetto e qualcosa da mangiare a questo bambino accudendolo come genitori. Giovanni, quando arrivarono in casa i due giovani sposi, aveva ormai quattordici anni,  cresceva forte, sveglio e sano e fin dalla tenera età si diede da fare nel lavoro, toccò così a lui ben presto mantenere i due genitori adottivi. Nel frattempo, non si tirarono indietro, ed ancora una volta, nel 1954, accolsero con loro un'altra bambina, Nicolina, anch'essa nata da un rapporto infedele e che sarebbe stata abbandonata dalla mamma biologica. Nicolina aveva appena un anno, quando arrivarono in casa gli zii,  riempiendo momentaneamente gli ultimi spazi del già piccolo bilocale. Erano veramente troppi in quella residenza, quattro adulti, un adolescente ed una bambina in quella modestissima abitazione.
Felice si diede subito da fare per trovare una sistemazione idonea per i giovani cognati, che non conoscevano il nuovo paese.  Passarono giusto un paio di mesi e spinto anche dal bisogno di liberare spazi al più presto,  grazie a qualche amico, trovò un alloggio libero per Giuseppe e Maddalena.
Si fecero prestare un piccolo carretto di legno a due ruote, da spingere a braccia, lo caricarono con la pochissima mercanzia che avevano, quasi tutto contenuto in un baule di legno stile liberty  ed una grossa valigia di cartone pressato, inoltre un paio di sacchi contenenti qualche pentola d'alluminio ed altre pochissime stoviglie. L'unico oggetto di modesto valore, di cui Giuseppe non si sarebbe mai separato era una radio a valvole ad onde medie e corte marca Magnadyne modello S175 del 1951. La radio era contenuta ed assemblata in un elegante mobile di legno impiallacciato noce, di medie dimensioni. Giuseppe amava la sua radio, amava ascoltare la musica e le notizie, ma in particolar modo gli incontri di calcio, sopratutto quelli della sua squadra del cuore, il Napoli. L'aveva comprata usata, dopo che era diventato ipovedente, condizione sfortunata che lo portò a isolarsi in casa escludendosi per un lungo periodo dalla società. Con la rata della sua prima pensione di invalidità, volle comprare quello strumento che, a suo dire, lo teneva collegato alla realtà.
Arrivarono con non poca fatica in fondo a Corso Campano, sempre nel comune di Marigliano, nella frazione di Lausdomini.
In quel posto c'era quella che per loro fu la prima abitazione in assoluto, da quando erano sposati, dove poterono finalmente prendere la residenza di famiglia. 
L'ingresso era situato nella strada principale al piano terra, era formata da un monolocale ammobiliato con un vecchio letto interamente in metallo, un comò a tre cassettoni, con evidenti segni di tarlatura, un tavolo di legno per sei persone contornato da quattro sedie di paglia sdrucite e scompagnate. Di fronte all'ingresso principale c'era una porticina a vetri, che usciva nel cortile condominiale ubicato all'interno di un tipico palazzo di campagna di fine ottocento, dove al centro era ubicato il piccolo gabinetto con tetto in lamiera, addossato ad un grande forno a legna ed un pozzo artesiano per attingere l'acqua, tutto ad uso comune degli abitanti che si affacciavano nel cortile.
Questa misera abitazione era il massimo che potevano permettersi in quel momento. Si sistemarono facilmente e velocemente in casa, vista la scarsità delle vettovaglie ed altrettanto velocemente fecero amicizia con i vicini. Quasi tutti contadini e manovali, abituati al duro lavoro nei campi ed all'utilizzo delle pietre e mattoni. Proprio nel cortile dove abitavano, si affacciava uno dei proprietari, Raffaele, che gestiva insieme alla moglie, un piccolo negozio di alimentari e generi di granaglie per piccoli animali da fattoria. I due giovani iniziarono una bella amicizia con i nuovi vicini, Giuseppe scoprì presto che Raffaele aveva la sua stessa invalidità, anche se più aggravata, essendo cieco totale. Tuttavia Raffaele riusciva a muoversi nella sua bottega ed a servire i clienti meglio di quanto facesse la moglie, utilizzando i pesetti in ottone, per bilanciare la bascula in modo impeccabile, senza sbagliare di un grammo.
Grazie sempre ai vicini, mossi a compassione per la giovane e sfortunata coppia, Maddalena iniziò a lavorare come bracciante agricola trascorrendo delle giornate di duro lavoro in campagna, iniziando presto la mattina e tornando a casa stanca al calar del sole.
Giuseppe, invece, in qualità di non vedente partecipò a dei corsi per rilegatore di libri. Ma pur impegnandosi, non ricevette mai nessuna offerta di lavoro. Passava le sue giornate in casa ad aspettare la moglie, ascoltando musica oppure andava nel negozio di Raffaele a cercare di dare una mano, aiutandolo quando aveva bisogno, a trasportare qualche sacco di farina o di cereali.
Quando cominciarono a vivere abbastanza bene, senza più stenti ed a mangiare qualcosa di diverso dal solito ed a mettere da parte anche qualche liretta, Maddalena si accorse di essere incinta.  Purtroppo il suo lavoro era veramente molto faticoso, soprattutto per una donna incinta, ma non poteva permettersi di stare a casa, voleva dire perdere le provvigioni e quindi non guadagnare nulla. Fortunatamente Giuseppe aveva consolidato il suo, seppur piccolo, assegno fisso di pensione per la sua malattia cronica, che era una entrata sicura nel bilancio familiare.
Maddalena non volle perdere una giornata di lavoro, andava in campagna con un pancione enorme e tutti i vicini la riprendevano, consigliandole vivamente di stare a casa. Ma non volle mollare se non ad una decina di giorni dal parto.  A fine marzo del '57, nacque un bellissimo e sano marmocchio dagli occhi dolci, aveva già la riga a sinistra nei lunghi capelli neri. Gli venne dato il nome Giacomo, come il nonno materno. Allora si usava dare ai nascituri il nome dei nonni, dando la priorità ai nonni paterni (il famoso patriarcato), ma Giuseppe non potette dare quello di suo padre in quanto anche lui si chiamava Giuseppe ed all'anagrafe non lo accettarono. Questa indecisione sul nome portò ad un ritardo nella trascrizione alla casa comunale del neonato, rendendolo più giovane di tre giorni, pertanto  fu dichiarato solo il primo aprile. 
Maddalena fu così costretta a fermarsi dal lavoro, doveva badare ed allattare il piccolo tanto atteso e voluto. Passarono i mesi e purtroppo, quel poco risparmiato cominciò a finire. Cominciarono di nuovo i sacrifici e gli stenti. Maddalena iniziò di nuovo a lavorare quando il piccolo aveva circa dieci mesi, le ragazzine che abitavano nel vicinato facevano a gara a chi teneva il piccolo Giacomo, lasciandola così libera per dedicare ore al lavoro in campagna.
Maddalena era stremata, dal mancato recupero fisico, ma la sua scorza dura di montanara, l'aiutò ad affrontare di nuovo il lavoro con nuova lena.
Quando riuscì a rimettere in sesto il suo fisico e ad impegnarsi nuovamente, si accorse di aspettare un altro bambino.
Questa volta, suo malgrado, dovette assentarsi dal lavoro molto prima. Raffaele, la moglie ed altri vicini li aiutarono molto in questo periodo difficile.
Ad ottobre del '58, aiutata dall'immancabile ostetrica tuttofare di Marigliano, venne al mondo Anna. Chioma fluente e nera, lineamenti paffuti, morbidi ed olivastri, buona come solo il pane sa esserlo. La classica bambolina da tenere sul comò, vestita di tulle bianco e le scarpette nere. Questa volta Giuseppe, soddisfatto, potè dare il nome di sua mamma alla sua seconda figlia.
Appena si rimise dal secondo parto, aiutata sempre dalle gentilissime ragazzine del vicinato, che si offrivano nel lavoro di baby sitter, Maddalena ritornò a lavorare.
La vita iniziò un tantino a sorridere, i bambini crescevano bene ed erano la gioia di tutti i vicini del cortile, la posizione economica non era quella delle migliori, ma si riusciva a vivere tranquillamente.
Questa condizione non durò a lungo. Purtroppo la televisione non arrivò ancora a casa della giovane famiglia, gli inverni erano lunghi e freddi, fu così che arrivò la notizia di un'altra gravidanza.
I troppi giorni di mancato lavoro iniziarono a pesare in modo molto concreto. Ormai tiravano avanti con la sola misera pensione di Giuseppe. 
Arrivò con il solleone, in piena estate, con le idi di Luglio del 1960 il terzo bambino, spalle larghe, corpicino allungato e scheletrico, gli occhi tendenti al verde che rimanevano quasi sempre chiusi e strizzati, spiccavano su tutto le grosse orecchie  a sventola. Lo chiamarono Aniello, il nome del primo fratello di Giuseppe, ma fin da subito fu appellato Nello.

Marigliano 1960
Nello Ricciardi