Il corso incursori,
proseguiva con non poca difficoltà, ma con costante impegno e determinazione.
Eravamo oramai alla seconda metà della “fase acqua” (addestramento mirato ad
acquisire una buona acquaticità e padronanza del nuoto operativo). Questo
periodo risultava essere il più difficile da superare, in quanto si aveva a che
fare con l’elemento acqua a cui non si è normalmente abituati.
La fatica delle lunghe
nuotate giornaliere, che fiaccavano gambe ed addominali, per il tipo di nuoto
che si andava a svolgere ed il consumo notevole dell’ossigeno puro, utilizzato
nelle frequentissime immersioni di nuoto sotto il pelo dell’acqua, portavano
stanchezza cronica e sonnolenza.
Arrivavamo stremati e sonnolenti al termine delle normali
giornate di formazione.
Questa fase di addestramento,
proprio per i sacrifici richiesti, era quella che vedeva il maggior numero di
abbandono degli allievi durante il corso ordinario.
In questo periodo che
durava circa tre mesi, si andava praticamente in acqua tutti i giorni.
L’addestramento principale consisteva nell’imparare a percorrere lunghi tratti
in mare, nuotando vestiti con la muta impermeabile gamma, con indosso l’autorespiratore
ad ossigeno e con le pinne. Le nuotate
intervallavano tratti in superficie, dove ci si spostava stando sul dorso e
pinneggiando all’indietro, come i gamberi, Oppure in immersione, sotto il pelo
dell’acqua, stando in posizione supina ed avanzando in avanti.
Eravamo ormai diventati
dei buoni nuotatori, anzi pinneggiatori. Sapevamo utilizzare tutti gli
strumenti subacquei atti all’immersione ed al nuoto e ci muovevamo
nell’elemento acqua con dimestichezza estrema.
Arrivò cosi il giorno
che avremmo dovuto mettere a punto quegli insegnamenti acquisiti con fatica e
sacrificio. Era arrivato il momento di andare a conoscere una grossa nave vera,
mentre era alla fonda, di sotto alla linea di galleggiamento e di notte.
In quel periodo sostava
alla fonda, nel porto Della Spezia, in
attesa del definitivo disarmo, l’ultima gloriosa e bellissima nave da crociera della società Italia. Si
distingueva nettamente dalle altre navi passeggere per aver l’opera morta
dipinta di bianco a differenza della precedente colorazione nera, riservata
alle navi passeggere. Il transatlantico Leonardo Da Vinci attendeva la sua fine
nelle calme acque all’interno della diga foranea. Imponente la sua stazza di
oltre trentatremila tonnellate distribuite su duecentosei metri lineari.
Varata nel 1960, lo stesso anno in
cui sono stato varato io, diventò subito l’Ammiraglia della società Italia. Dopo
diciotto anni di servizio passeggeri tra l’Italia e gli U.S.A., a causa di
ingenti perdite, dovute all’incremento dell’utilizzo degli aerei, fu
trasformata in nave da crociere e venne impiegata nel mar dei Caraibi.
A causa degli eccessivi costi di esercizio venne fatta rientrare in Italia in attesa di essere venduta. Rimase in attesa di un acquirente, ancorata, a partire da 1978, nella rada di Portovenere. Il 1978, era anche lo stesso anno che io entravo in servizio nella Marina Militare. Qualche tempo dopo circolarono voci su un possibile acquisto da parte di una compagnia di navigazione di crociere di lusso con sede a New York, ed anche su una possibile utilizzazione come casinò galleggiante sul Tamigi a Londra. Nessuna di quelle voci risultò veritiera. Fu quindi trasportata, all'inizio del 1980, in attesa di demolizione, all'interno delle acque più tranquille del Golfo Della Spezia.
A causa degli eccessivi costi di esercizio venne fatta rientrare in Italia in attesa di essere venduta. Rimase in attesa di un acquirente, ancorata, a partire da 1978, nella rada di Portovenere. Il 1978, era anche lo stesso anno che io entravo in servizio nella Marina Militare. Qualche tempo dopo circolarono voci su un possibile acquisto da parte di una compagnia di navigazione di crociere di lusso con sede a New York, ed anche su una possibile utilizzazione come casinò galleggiante sul Tamigi a Londra. Nessuna di quelle voci risultò veritiera. Fu quindi trasportata, all'inizio del 1980, in attesa di demolizione, all'interno delle acque più tranquille del Golfo Della Spezia.
Era
il 1980 anche l’anno in cui io ero arrivato al Varignano per frequentare il
corso Incursori.
Partimmo direttamente dalla banchina scuole all’interno del
Varignano, quando il sole non offriva nemmeno un lumicino per schiarire la
notte, arrivata scura e, purtroppo per noi, senza luna.
Il nuoto in superficie si sviluppava su una linea, dove tutta
la squadra di allievi, ridotta a sedici elementi, dei cinquantotto che avevano
iniziato il corso, nuotava pinneggiando compatta ed in ordine. Il nucleo più
piccolo era formato da una coppia legata da una cimetta di collegamento, agganciata sui
polsi del capo coppia e del suo gregario. Il capo coppia portava sul polso
sinistro una bussola notturna idonea alla navigazione in immersione.
Lo scopo dell’esercitazione era quello di conoscere e saper
apprezzare i tempi, in relazione alla lontananza, di immersione sicura ed
inosservata. Acquisire una quota sicura di avvicinamento in immersione,
arrivare a toccare lo scafo della nave, percorrerla tutta per imparare a
conoscerne le caratteristiche salienti delle parti nascoste alla vista. Alette
di rollio, pressatrecce, asse dell’elica, scarichi e prese varie. Il tutto perfettamente al buio.
Arrivammo nei pressi del gigante che aspettava inerme, ma ne
sentivamo benissimo i rumori degli ormai pochi macchinari in uso, giusto per
mantenere il minimo vitale a bordo. Ma più di tutto, quello che incuteva
davvero timore era l’imponenza della immensa sagoma scura. I miei pensieri
andavano al possibile passaggio da parte a parte sotto la nave, sapendo che la
sua chiglia pescava circa dieci metri. Ma ci sarà rimasto un pochino di spazio
sotto che consenta il passaggio?
Il rumore dei fuoribordo dei due gommoni d’assistenza, con a
bordo i nostri istruttori mi rincuorava un pochino.
Arrivò l’ordine di immergersi. Ci dirigemmo verso l’enorme
sagoma plumbea e rumorosa. Più ci si avvicinava e più diventava tenebrosa. Ad
un certo punto sembrò mancare l’ossigeno, la paratia d’acciaio si stagliò
davanti a noi in tutta la sua fredda superbia.
Allungai oltremodo la mano per toccarla, sembrava non
riuscissi mai ad appoggiare il palmo sulla inarrivabile fiancata. Di notte si
stimano gli oggetti e le figure più vicine, il timore moltiplica i metri. Un
mondo nuovo mi si prospettava davanti, fatto di insidie ed apprensioni. Ci
portammo a circa quattro metri di profondità, o meglio ci precipitammo senza
accorgercene distratti dall’imminente
incontro. Ci dirigemmo verso poppa, stando attenti a non scendere ancora. Ci
muovevamo con molto rispetto ed apprensione per il gigante che ci sovrastava.
Chissà quanto ci avremmo impiegato in quella situazione ad arrivare a
percorrere tutta la fiancata.
All’improvviso un suono
intenso di campane ci distolse dal nostro fare preoccupato. Il segnale
era quello di termine esercitazione e di risalita in superficie. Ci ordinarono
di rientrare in base nuotando in
superficie, mentre due coppie furono prese a bordo dei gommoni. Due allievi si
erano sentiti male. Probabilmente non erano riusciti a digerire le ansie per
affrontare il gigante. Fu per loro l’ultima esercitazione. Il giorno dopo
lasciarono mestamente il corso.
Qualche giorno dopo, il 3 luglio 1980 sulla turbonave Leonardo Da Vinci divampò un incendio. Le difficili operazioni di soccorso furono portate a termine dalla Capitaneria di porto e da Vigili del fuoco. Per mancanza di adeguato
numero di personale, bruciò per tre giorni e alla fine fu trasportata al
sicuro e fu fatta coricare sul fianco di dritta. Per gli allievi rimasti
ci furono altre navi disponibili nel golfo, sotto cui scorrazzare ed
accarezzare il sogno dell’agognato basco verde.
Aniello Ricciardi
Aniello Ricciardi
1 commento:
Complimenti per il racconto testimonianza.
Un abbraccio grande come il mare ed il cuore dei marinai per sempre.
www.lavocedelmarinaio.com
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