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martedì 15 marzo 2016

ALPI APUANE 1982


Quel lunedì del  quattordici giugno 1982, si sarebbe giocata una delle partite della fase a girone dei mondiali di calcio in Spagna.
La nazionale italiana doveva debuttare alle 17,15 contro la Polonia, una squadra considerata abbastanza forte.
Il nostro  capo squadra, convinse il comando del Gruppo Incursori, ad autorizzarci per un giornata di addestramento in montagna.
Fu  così che quella mattina, dopo l’assemblea di rito, ci preparammo a partire per andare sulle vicine Alpi Apuane per affrontare, a scopo addestrativo, qualche bella parete rocciosa, che non mancavano da quelle parti.
Salvatore Frongia, mio compagno di corso, che aveva una buona passione nonché una naturale predisposizione per l’arrampicata, andò con Ivo Conti, per rifornirsi di tutto il materiale necessario per quel tipo di attività. Ivo, oltre ad essere il nostro vice capo squadra era anche un ottimo istruttore di arrampicata. Uomo di montagna, proveniente dall’alta bergamasca, nonostante avesse scelto la Marina Militare in tenera età, conservava una  innata passione per la montagna. Era un eccellente organizzatore, professionalmente molto preparato. Ma tra tutte le sue qualità militari, io preferivo quella umana. Sempre disponibile con tutti, mai schivo di consigli, ma soprattutto, sempre allegro e compagnone. Insomma, con Ivo non potevi annoiarti, anche quando il lavoro imponeva massima serietà e dedizione.
Caricammo sul CP70, l’autocarro che ci avrebbe trasportato fino a Stazzema, tutta l’attrezzatura che ci sarebbe stata utile, corde, moschettoni, imbragature, ascensori, discensori,  chiodi e martelli.
L’attrezzatura tecnica era completata, anche l’abbigliamento era giusto. Giusto quello di sempre, tuta mimetica intera, buona per tutti gli usi; scarponi anfibi buoni per tutti i percorsi (non ho mai capito perché si chiamassero anfibi, bastavano poche gocce d’acqua per tenere in ammollo i piedi) e l’immancabile Basco Verde da indossare con fierezza.
Uscimmo finalmente dal Varignano per dirigere verso La Spezia. Eravamo tutti felici di affrontare quella giornata, piuttosto inusuale, che ci avrebbe consentito di rompere la monotonia delle solite interminabili nuotate giornaliere. Probabilmente era dai tempi del corso incursori, che non andavo sulle pareti rocciose delle apuane.
Ivo, che era anche il conducente dell’autocarro, si fermò in un piccolo spiazzo al bivio per il Muzzerone. Avevo già raccolto da tutti, i soldi per comprare quello che doveva essere il nostro pasto del mezzogiorno.
Andai insieme ad un altro collega nella piccola salumeria, facemmo preparare due panini a testa con l’immancabile e gustosissima mortadella profumata, qualche birra e poche bottigliette d’acqua per gli astemi.
Il viaggio fino a Stazzema durava circa un’ora. A parte il conducente ed il capo squadra, seduti in cabina di guida, il resto della squadra era usualmente accomodato sugli scomodissimi panconi di legno che attrezzavano il pianale telonato.
La rumorosità proveniente dal potentissimo motore mista ai cigolii della struttura del telonato, rendeva particolarmente difficile chiacchierare tra di noi, ma si trovava sempre il modo di rendere quei trasferimenti dei momenti di pura goliardia.
Attraversammo l’abitato montano di Stazzema e ci fermammo in un grande spiazzo. Ci caricammo addosso tutto il materiale e ci incamminammo per il sentiero, in direzione del rifugio “Alpi della Grotta”. La natura boschiva  incontaminata che si attraversava era bellissima, dopo una mezz’ora di salita per il sentiero, arrivati ad un bivio, Ivo non seguì il sentiero che di solito percorrevamo per andare al rifugio, deviò verso sinistra.
Le corde e le attrezzature che trasportavo, mi toccavano in quanto tra i più giovane in squadra, cominciavano a pesare il doppio di quando eravamo partiti. Attraversammo un bel bosco di faggi e quando gli spiragli di cielo si aprivano tra le chiome degli alberi, non si mostravano azzurri, ma di un grigio plumbeo in movimento. L’aria cominciò a diventare fresca, nonostante il mese di giugno inoltrato, il sole dopo un po’ sparì del tutto, inghiottito dalle numerose nuvole basse in movimento.
Arrivammo dopo circa un’ora ai piedi di una parete rocciosa, la visibilità era davvero esigua, ma Ivo decise di continuare, anche per dare un senso a quella giornata addestrativa.
Arrivammo ai piedi del “piccolo  procinto”.
Preparò il primo tiro di corda e cominciò ad arrampicare con molta facilità e professionalità.
Dopo una ventina di metri non lo vedevamo più, lo sentivamo però parlare ed ogni tanto martellare per sistemare qualche chiodo. Si fermò su di un piccolo terrazzino di roccia, si assicurò ed uno alla volta prendemmo ad arrampicare, fino a raggiungerlo. Con un secondo tiro di corda, arrivammo su quello che sembrava di un ampio spiazzo roccioso segmentato e fatto a gobbe, misto a poca vegetazione.
Peccato che la visibilità limitasse di molto lo scrutare il paesaggio sottostante.
La salita, resa lenta per la poca visibilità e per il numero di persone che dovevano arrampicare, si dilungò fino a ben oltre l’ora di pranzo. Ivo ci invitò a cercare un posto sicuro dove sedersi, per fare una sosta ed approfittare per mangiare.
Durante il pasto, stavamo quasi tutti in silenzio, dovuto sia al desinare che alla stanchezza. Il profumo della mortadella misto a quell’arietta fine e frizzante era ancora più marcato. Un fresco venticello cominciò a muovere più velocemente i massi di nuvole che ci attraversavano, ora più dense ora meno. Ma ad un tratto il sole fece capolino, prima timidamente, poi trapassò completamente il grigiore imperante e si appropriò della scena, regalandoci il cielo terso di azzurro. Le nuvole si mossero scappando verso il basso, si aveva la sensazione di accarezzarle mentre ci passavano addosso. Da quei movimenti meteorologici ne scaturì un paesaggio fantastico, la nostra vista si poté allungare fino all’orizzonte del mare. La Versilia si definiva nitida per tutta la sua lunghezza.
“Ivo ‘a nd’ò c….o ci hai portato?” Una voce proruppe in quel disincantato silenzio.
Eravamo a circa mille metri di altezza, sparsi su tre gobbe e speroni rocciosi e sotto di noi il vuoto sui quattro lati.
Cominciarono alcuni rimbrotti, soprattutto tra i più anziani della squadra, che tra il ridere e battutine nascondevano una neppur tanto velata preoccupazione.
Raccattammo tutto il materiale e attraversammo quelle tre gobbe rocciose, poi una breve discesa, in corda doppia, ci portò all’attacco del “Piccolo Procinto”.
Due tiri di corda ed arrivammo sulla cima piatta. Questa volta la salita fu più divertente, c’era tanta visibilità ed il sole era tornato a scaldare le dita in intirizzite.
Una piccola sosta per fumare una sigaretta e dare sfogo alle ultime battute, qualche risata e uno scenario incommensurabile ripagava appieno le fatiche di quella giornata.
Ivo attrezzò velocemente le basi per una lunga e velocissima discesa a corde doppia, per tornare ai piedi del Procinto.
La parte più bella ed entusiasmante della giornata. Camminare velocemente sulla parete rocciosa a strapiombo nel vuoto, mentre la corda doppia ti scivola sibilante sulla spalla è una sensazione sublime. Si carpisce la velocità dell’adrenalina che corre veloce sotto pelle e ti spruzza sensazioni magiche nella testa.
Radunata la squadra ai piedi del Procinto, raccattate le attrezzature, si ritornò a valle correndo all’impazzata giù per il sentiero, prima pietroso sulla falda della montagna poi di in terra battuta quando questo si inoltrò nel bosco.
Giunti al paese di Stazzema, ci fermammo al primo bar sulla strada. Fortunatamente aveva la televisione già sintonizzata per la telecronaca dalla Spagna.
Il tempo di sederci ai tavoli ed ordinare un caffè, che la partita stava per iniziare.
Le nazionali italiana e quella polacca erano in fila schierate, partì l’inno di Mameli.
Tra lo stupore degli altri pochi avventori del locale, che rimasero seduti, noi ci alzammo rispettosamente tutti in piedi in silenzio e portammo la mano destra sul petto all’altezza del cuore.
Ma tra la mano ed il cuore non poteva mancare il Basco Verde!

Stazzema (LU) 14.06.1982
Nello RICCIARDI


domenica 6 marzo 2016

SEGNALATORI



 Quella sera del tre settembre 1978, eravamo un gruppo di una ventina di persone, pronte a varcare la soglia delle scuole C.E.M.M. Lorenzo Bezzi di Taranto. Tutti ragazzi giovanissimi, con una media d’età attorno ai diciotto anni. Ognuno con i suoi pensieri, i propri sogni, chi animati da spirito di avventura, ma sicuramente, i più, alla ricerca di una occupazione, un futuro ancora troppo lontano per tutti e completamente da progettare, vivere e costruire.
Una grossa sbarra tinta a strisce rosso e bianche ostacolava l’ingresso alle auto, mentre un piccolo cancelletto laterale consentiva l’ingresso ad una persona per volta. Ci si trovava davanti ad un’ampia vetrata, il corpo di guardia, vigilato da alcuni marinai in divisa bianca. Un sottufficiale ci radunò in un piccolo spazio dopo il corpo di guardia, chiese i documenti e le cartoline d’invito a presentarsi alle scuole.
Ci restituì i documenti e tenne per se le cartoline.
I nostri occhi indagatori, si spingevano oltre i nostri pensieri e cercavano di arrivare ben oltre le siepi di pitosforo che delimitavano le ampie strade all’interno della struttura militare.
La curiosità ci spingeva oltre qualsiasi fantasticheria. Chissà se dopo quei palazzi che si scrutavano in lontananza c’erano le navi, dove saranno stati tutti gli altri marinai, i soldati, dove saranno nascoste tutte le armi. Preso da tutti quei pensieri, quasi mi sfuggì che tutto il gruppo prese a muoversi verso l’interno della caserma.
Non camminammo tanto, ci fermammo subito alla prima grande palazzina incontrata. Davanti c’era un grande spiazzo e lì ci dissero di schierarci in fila per tre, dopo aver lasciato i nostri bagagli vicino all’ingresso.
Riuscimmo a schierarci come richiesto con molta goffaggine e confusione. Un graduato con una voce forte e potente fece l’appello, dopodiché ci prescrisse alcune raccomandazioni ed indicazioni. L’argomento su cui dibatté molto fu il divieto assoluto di gironzolare da soli. Vietatissimo! Qualsiasi spostamento al di fuori degli alloggi o uffici andava fatto sempre inquadrati ed in fila per tre, sempre diretti da un graduato. A suo dire, la prima ed unica punizione per qualsiasi inadempienza, non essendo ancora militari,  erano i calci nel sedere.
Entrammo finalmente nella palazzina, ci portò in un camerone grandissimo, con tanti letti a castello, fino a tre piani, intervallati da tre piccolissimi armadietti di metallo grigio.
Su di ogni materasso c’erano lenzuola bianchi, un cuscino ed una coperta di lana azzurra, con un’ancora bianca disegnata. Il capo, così si chiamano i sergenti maggiori in Marina, ci disse di metterci a letto perché al mattino dopo la sveglia sarebbe suonata presto.
Mi capitò la brandina al secondo piano, preparai subito il letto, mentre lentamente cercavo di sistemare i miei pochi averi nel misero armadietto, improvvisamente calò il buio nel camerone. Le luci si spensero.
A tentoni riuscii a chiudere l’armadietto con un lucchetto e mi sdraiai sul letto.
Non fu facile dormire, i pensieri di un diciottenne sono come un cavallo da domare, si rincorrono e si scalciano senza una sequenza logica. La paura di essere domati senza la possibilità di poter cavalcare in una prateria libera era quella che più mi preoccupava. Avevo fortemente paura di essere rispedito a casa, ma non conoscevo nessuno stratagemma da mettere in atto, se non confidare nella mia volontà di arrivare.
La mattina arrivò presto, ci ritrovammo inquadrati nel piazzaletto per andare a fare colazione. Diversamente dalla sera prima, c’erano tantissimi gruppi, formati da ragazzi inquadrati che si apprestavano a dirigere verso la mensa ubicata praticamente sul lato opposto di dove stavamo noi. Il grosso refettorio, abbastanza moderno, era situato sotto tre grossi palazzoni. Cera una fila lunghissima, formata sia da militari che da personale civile.
Quella mattina fummo sottoposti a varie visite mediche. Già nel pomeriggio ci accorgemmo che qualcuno andava via, probabilmente riscontravano problemi di idoneità. Il pomeriggio fu dedicato alle varie pandettature. Rilascio dei dati personali, compilazioni di schede dove veniva richiesto di tutto e di più. Nella stessa giornata notai che alcuni gruppi partivano con tutti i bagagli ed andavano verso le tre palazzine altissime sopra la mensa. Erano quelli arrivati nei giorni precedenti che nel frattempo avevano completato l’iter di arruolamento. Arrivò la sera senza che me ne accorsi. Rimasi di  nuovo solo con i miei pensieri, l’unico dubbio che mi ero tolto era che fisicamente ero a posto. Ora rimanevano i test psicologici da superare. Erano quelli che tutti temevano di più.
Il giorno dopo, infatti, ci ritrovammo seduti in una grossa aula, con davanti un foglio ed una penna. Ci furono dei test e problemi da superare che ci occuparono tutta la mattina ed il pomeriggio. I test ed i quiz vertevano dalla cultura generale, ai problemi di matematica, frasi da tradurre dall’inglese e viceversa, fino a problemi di logica e di meccanica applicata.
Stranissimi alcuni quesiti sulla personalità, tipo hai mai pensato di morire o di suicidarti, oppure se mi attraevano gli uomini piuttosto che i bambini, se mi piacevano i fiori o gli animali. Alcuni mi sembravano alquanto stupidi, altri inquietanti.
Il terzo giorno, ci misero seduti di nuovo nella stessa aula. Un sottufficiale, mentre venivamo chiamati una alla volta per il colloquio, cercava di intrattenerci spiegandoci i vari gradi e le diversità delle categorie, che da li a poco ci avrebbero assegnato, qualora idonei all’incorporamento finale.
Venne il mio turno dallo psicologo. Per la verità ricordo poco o niente di quel colloquio che trovai noioso e talvolta fuori luogo, fino a rimuoverlo dalla mia testa.
Ricordo solo che alla fine mi consegnò un foglio dove avrei dovuto indicare tre categorie di mio gradimento. Chiaramente ero stato già indottrinato da un mio vicino, don Franco Rongo, che era stato un ex marinaio. Seguii alla lettera le sue indicazioni e scelsi nell’ordine: Furiere Zeta (Gestore di cucine e mense), NP (Nocchiere di porto) ed E (elettricista); quest’ultima scelta da don Franco, in quanto lui stesso fu un elettricista di bordo.
Arrivò il quarto giorno, sempre seduti nella solita grande aula, ci chiamarono uno alla volta e ci consegnarono un foglio, che ci chiesero di firmare e restiutuire, dopo aver letto tutto attentamente. Ricciardi Aniello 78VA0187/T categoria assegnata “S”.
Il testo continuava con varie menzioni a decreti e leggi varie ed in fondo, in grassetto, che venivo arruolato con la ferma di sei anni a premio e di accettare qualsiasi destinazione.
Chiaramente firmai, senza pensarci due volte. Ero felice, ero già un marinaio, avevo anche una mia matricola, avevo per la verità anche una categoria.
Una categoria? Ma che categoria era “S”?
Ritornai di nuovo nella grande aula, dove tutti i ragazzi che avevano già il foglio in mano cercavano di raggrupparsi per categorie assegnate.
Alla fine ci ritrovammo in venti con la categoria “S”. Nessuno di noi conosceva il significato di quella sigla. Un capo ci disse: “avete una bella categoria, sarete degli specialisti della scoperta e telecomunicazioni, siete dei “Segnalatori”.
Non potei dare la notizia a casa, non si poteva telefonare, o meglio no vi erano telefoni a disposizione. Riuscii a chiamare casa dopo una decina di giorni che ero arrivato a Taranto, come telecomunicazione eravamo messi un tantino male!
Taranto, settembre 1978
Nello Ricciardi





sabato 5 marzo 2016

I PUGILI


Durante il periodo trascorso alle scuole  sottufficiali a Taranto, frequentai una palestrina semi sconosciuta di pugilato.
In quell’ambiente, dove il puzzo di sudore era predominante, volevo apprendere la nobile arte del combattimento, che in qualche modo mi aveva sempre affascinato. La premessa fu che io volevo solo imparare e che non ero per nulla interessato al combattimento.
Ripresi questa attività, con motivazioni diverse, durante il corso Incursori e nel periodo che rimasi al Varignano. In questo caso frequentai una palestra a La Spezia, allo scopo di migliorare la tecnica già acquisita e trovare un momento di sfogo.
Per la verità non ero un grande frequentatore, ma quell’ora che riuscivo a trascorrere in palestra, mi disintossicava da tutto lo stress che accumulavo durante le giornate di lavoro.
Il sacco ed il pungig ball erano diventati gli strumenti dove scaricare lo stress.
Nascosi a quasi tutti i miei colleghi del Varignano, questa mia frequentazione sportiva. Non avrebbero capito. La maggior parte di loro erano attratti dalle arti marziali quali judo, ju-jitsu o karate, anche per dare una continuità all’attività di difesa personale a cui ci sottoponevamo per il nostro lavoro. M sentivo un po’ come il brutto anatroccolo.
Quando smisi di fare l’Incursore, dopo il corso di educazione fisica militare, fui impiegato presso il Centro Sportivo della Prima Divisione Navale a La Spezia.
Le strutture erano abbastanza misere ed obsolete, un campetto di calcio, due campi da tennis con fondo in asfalto ed un campo di pallacanestro e di pallavolo, anch’essi in asfalto, completavano gli impianti. Il personale che utilizzava queste strutture apparteneva alla Squadra Navale e quindi molto impegnato con le continue navigazioni, per cui gli sport di squadra non erano proprio i più indicati in quei luoghi. In quel periodo lavoravo con il maresciallo L.C., il mio diretto superiore, anche lui Incursore.
Avevamo frequentato insieme, seppure lui più anziano di me, la scuola dello sport a Roma.
Eravamo entrambi motivati per quel lavoro ed avevamo  intrapreso un ottimo percorso di collaborazione lavorativa. Ad entrambi piacevano le disciplina dell’atletica leggera, ed eravamo riusciti a coinvolgere nel nostro progetto formativo, un buon numero di militari imbarcati. Avevamo affiliato il nostro centro sportivo alla Fidal ed iniziammo a portare i nostri atleti a gareggiare, fino in campo nazionale.
Tra questi spiccava un sergente radarista della provincia di Cuneo.
Alberto era dotato di un fisico imponente, alto di corporatura e muscoli ben scolpiti. Aveva anche una buona agilità ed una forza notevole. Viveva praticamente in palestra.
Cosa potevo fargli fare se non il getto del peso? In pochissimo tempo apprese la tecnica e riuscì con la sua forza esplosiva a gettarlo sempre più lontano, fino a vincere il titolo italiano amatori. A lui si unì un altro frequentatore della nostra palestrina, un secondo capo silurista, originario di Taranto, Michele. La sua muscolatura era ben distante e diversa da quella di Alberto, ma Michele aveva dalla sua la voglia di lavorare duro e di mettersi in gioco. Era di una simpatia unica, talvolta brontolone e polemico, ma sul finale sempre sorridente. Cominciarono ad allenarsi insieme ed anche lui  iniziò ad avere buoni  risultati nel getto del peso, quando non si fermava a bere litri di bibite energetiche distribuite gratuitamente nei pressi delle piste di atletica.
Un giorno, arrivò in palestra, un sergente dal fisico molto grosso, seppur non molto alto. Gambe robuste a forma di tronco, braccia tozze e corte e camminata alla cowboy. Con l’accento tipicamente romano ci disse che era un ex pugile professionista e che voleva provare anche lui a fare il getto del peso.
Quando sentii pugile, non potei ripensare al mio periodo passato a tirar pugni ad un sacco e mi venne subito un’idea. Gli dissi che gli avrei fatto lanciare il peso solo se tornava con me ad allenarsi per fare un po’ di pugilato.
Gli diedi un appuntamento nella nostra palestrina in Arsenale, contestualmente feci in modo che quel pomeriggio ci fossero anche Alberto e Michele.
Mi procurai due paia di guantoni e mi misi a schermire con lui. Quando arrivarono gli altri due buttai l‘amo. Abboccarono subito entrambi. Mi ritrovai così con tre pugili da presentare al campionato della Marina Militare, che si sarebbe disputato di lì a poco.
Ci trovavamo sempre nella palestra nel tardo pomeriggio, cercai di passar loro le basi ed rudimenti della nobile arte. Antonio  che si riteneva un professionista, faceva l'esperto con gli altri due, si atteggiava nel portare i colpi, si sentiva invincibile.
Arrivò il giorno dei campionati, quell’anno si tennero a Montecatini Terme.
Nei primi giorni si svolsero le gare di atletica, Alberto vinse l’oro nel getto del peso, terzo Michele e quarto Antonio.
Finalmente  arrivò il giorno da me tanto atteso. Eravamo nello spogliatoio della palestra dove era stato montato il ring. Gli spalti del piccolo palazzetto erano gremiti e si sentivano chiaramente le urla e gli incitamenti degli spettatori ai vari pugili che salivano sul ring. Iniziarono dalle categorie più leggere. Noi avevamo Michele nei pesi medio-massimi, Alberto nei massimi ed Antonio nei super massimi. Le ultime tre categorie ad esibirsi sul ring
Qualche giorno prima, purtroppo, mi si era presentato il grosso problema di una infiammazione alla schiena e non riuscivo a stare in piedi, chiesi così all’amico palombaro, Armando, venuto a Montecatini per prendere parte alla gara di marcia, dove vinse l’argento, di darmi una mano all’angolo per assistere ai miei pugili.
Entrai nel parterre con Michele, era molto teso e mi accorsi che balbettava un tantino. Era comprensibile,  si trovava ad un passo dal suo debutto. Il suo sfidante era molto più alto di lui ed aveva lunghe leve. Gli consigliai di stargli attaccato per non far mulinare troppo quelle braccia. Ero preoccupato anch’io.
Al suono della campanella Michele chiuse la sua testa tra i guantoni ed attaccò a testa bassa l’avversario, costringendolo alle corde. In quella posizione riusciva a tenere a bada le braccia dell’avversario ed a piazzare qualche colpo ai fianchi. Chiaramente fu subito redarguito dall’arbitro. Ripresero il centro del ring. L’avversario,  che era dotato di una buona scherma, cominciò a saltellare attorno a Michele, che non si faceva intimidire e continuò imperterrito nella sua tattica; aspetta, carica trasporto alle corde e colpi ai fianchi. Fu per questo che il commentatore del match gli affibbiò il nome di “Carrarmato Bozza”. Finì l’incontro e Michele vinse ai punti.
Venne il momento di Alberto. Quando entrammo nel parterre, ci fu un silenzio assoluto, seguirono momenti di meraviglia. Gli spettatori erano attratti dall’imponenza fisica di Alberto, che sfoggiava muscoli da miglior culturista.
Antonio non desinò fino all’ultimo di dare consigli ad Alberto, lo incitava ad essere cattivo, a non aver paura e di attaccare sempre.
Alberto guadagnò subito il centro del ring, l’avversario gli girava attorno con buona abilità di gambe, nel frattempo Alberto riuscì a portare due montanti destri che fecero per un attimo sbandare l’avversario.
A circa un minuto e mezzo Alberto affondò i colpi in rapida successione, un diritto destro colpì violentemente il contendente che si inginocchiò a terra, proprio in quel momento, un asciugamano partito dall’angolo avversario atterrò sul ring ed il giudice interruppe l’incontro per “getto della spugna”.
Il pubblico era letteralmente in delirio!
Arrivò il momento tanto atteso, doveva entrare in gioco il nostro asso nella manica, quello che ci avrebbe assicurato l’en plein, il momento  del professionista Antonio,  che continuava a guardare in cagnesco il suo avversario, sicuramente molto meno muscoloso, con tanta ciccia e molto più alto di lui. Continuava a ripetere che lo avrebbe atterrato ben prima di quanto avesse fatto Alberto in precedenza.
Al suono iniziale del gong, Antonio scattò in piedi e conquistò il centro del quadrato , assunse subito una buona guardia e cominciò a pungolare l’avversario con piccoli ma fastidiosi colpetti ai fianchi, sotto i gomiti. Il suo sfidante non sembrava tanto bravo e Antonio se ne accorse. Continuò a pungerlo in quel modo, talvolta lo sfidava, si fermava, apriva la guardia e lo invitava a colpire.
Fu proprio in uno di questi inviti che partì dal braccio destro dell’avversario un pesantissimo, quanto mai preciso e pesante dritto, che si stampigliò in pieno viso di Antonio.
Le braccia gli caddero giù contemporaneamente, il capo li si piegò all’indietro e mantenendo una perfetta posizione rigida, con i piedi piantati a terra, finì irrimediabilmente steso al tappeto. Rimase fermo in quella posizione, sembrava svenuto, forse lo era. Intervenne immediatamente il personale medico e fu subito trasportato in ospedale.
Lo dimisero dopo i controlli di rito.
“Ahó, non ho capito gnente de quello che è successo.” Ci disse Antonio in dialetto romano.
“Non ti preoccupare, sei arrivato quarto nel getto del peso”. Gli risposi.
Montecatini Terme 1998
Nello Ricciardi