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sabato 20 gennaio 2024

IL CUORE OLTRE L'OSTACOLO. UN CANOISTA INCURSORE

Nel 1992, prestavo servizio, in qualità di istruttore di educazione fisica militare presso il Centro Sportivo della Prima Divisione Navale e del Comando Dragaggio, situato all’interno dell’Arsenale Marina Militare Della Spezia. 
Mi occupavo, in particolare, della manutenzione degli impianti sportivi, ubicati all’interno del comprensorio e dell’organizzazione dell’attività sportiva, per il  mantenimento fisico lo svago a favore del personale militare imbarcato sulle navi della locale Squadra Navale.  
Un giorno mi capitò di conoscere un giovane marinaio, tra i tanti, che fin dai primi approcci valutai ben diverso da tutti i militari che frequentavano abitualmente le strutture sportive del centro. 
Marco, così si chiamava, era stato chiamato a svolgere il servizio di leva militare obbligatoria, sulla Fregata Scirocco, nave della Marina, con la qualifica di elettromeccanico. Era uno dei pochi, se non l’unico, a frequentare gli impianti sportivi, non solo per passare qualche ora con i piedi a terra, ma per il vero piacere di dedicarsi al mantenimento della forma fisica. 
Lo seguivamo tutti con attenzione e meraviglia, quando veniva in palestra. Marco sfoggiava un fisico scolpito ed adamantino come pochissimi in circolazione, non di quelli a cui eravamo abituati a vedere, costruiti artificiosamente in palestra. Ostentava passione e insolita voglia di allenarsi al di fuori di qualsiasi schema. 
Un giorno, ci chiese di utilizzare un vecchio kayak olimpico in legno, tutto impolverato e conservato in pessime condizioni, in un capannone annesso alla palestra. Facemmo presente che l’imbarcazione era vecchissima ed in attesa di essere distrutta, in quanto non più confacente allo scopo per cui era stata creata. Insistette affinché acconsentissimo a quella semplice voglia di rimettere il kayak funzionante in acqua.  
Ricevuto il nostro consenso, con tutti i dubbi del caso, tutti i pomeriggi, cominciò a venire presso il centro dopo un’oretta di corsa e qualche esercizio in palestra, si dedicò a ripulire ed a sistemare con vera devozione, come fosse una reliquia religiosa, la vecchia imbarcazione. Tappò tutti i buchi con la vetroresina, riparò la pedaliera e le slitte di alloggio del seggiolino. 
Lavorava con destrezza e tecniche proprie di un esperto artigiano. Noi lo seguivamo meravigliati, con poca invadenza e tutta la disponibilità necessaria a procurare il materiale indispensabile al restauro. 
Riuscimmo a trovare una vecchia pagaia, chiedendola in prestito ad un altro Centro Sportivo della Marina. Non fu molto soddisfatto del tipo di attrezzo procurato, secondo lui molto datata e non adatta al tipo di kayak, ma si accontentò suo malgrado. 
Arrivò il giorno fatidico e tanto anelato, per il varo dell’imbarcazione ristrutturata di tutto punto e provata con riempimenti di acqua all’interno dello scafo, per assicurarsi di eventuali infiltrazioni. Andammo verso la banchina scali, costruita per fare ormeggiare le navi, pertanto l’altezza sul livello del mare non era proprio ottimale. Cercò e trovò un pezzo di banchina che aveva un parabordo di legno molto grosso, lo utilizzò per scenderci sopra. Era ancora abbastanza alto e pericoloso, ma non se ne preoccupò. 
Marco appoggiò il kayak in acqua, quasi lanciandolo, subito traballò e sembrava volersi capovolgere, lo tenne fermo abilmente con la pagaia e con un balzo felino saltò nel pozzetto del kayak, si allungò con le gambe nella prua affusolata e si sedette al centro del pozzetto, tenendosi al parabordo per diminuire l’ondulazione del natante, con una poderosa spinta si allontanò dalla banchina e prese il largo, con un equilibrio assai precario, secondo noi, ma senza alcun problema per lui. Cominciò fin da subito a mulinare in acqua le pale della sua pagaia e si diresse fuori dalle ostruzioni, con una velocità per noi davvero impressionante. 
Quando rientrò era visibilmente soddisfatto e felice, non perse tempo per chiedere di poter utilizzare tutti i giorni quella imbarcazione per integrare i suoi allenamenti giornalieri. 
Lo invitai in ufficio per una chiacchierata, volevo sapere molto di più da lui. 
Marco proveniva da Policastro, un paesino del meraviglioso Cilento, in provincia di Salerno, incastonato sulle rive dell’omonimo e delizioso Golfo. Si era appena diplomato ed era partito per il servizio di leva in Marina. 
Ci disse che era in attesa di essere chiamato a svolgere il concorso per entrare nella Forza Armata in qualità di sottufficiale perché fin da piccolo aveva sentito forte l’amore per il mare. 
Andava in canoa fin dalla tenera età, in questo piccolo e tranquillo luogo turistico del Cilento, dove la maggior parte dei ragazzini era dedito a questa attività sportiva, grazie alla presenza del fiume Bussento e del suo estuario. 
Ci raccontò che da ragazzini, presso la foce di quel fiume, si era formato un piccolo gruppo di coetanei, che sotto la guida di alcuni appassionati e precursori di questo sport, svolgevano attività a favore dei turisti, accompagnandoli nelle escursioni guidate in mare e nel fiume, ricavandone il giusto sostentamento per approcciare all'attività agonistica fatta in trasferta
Diventò ben presto un bravissimo e forte canoista fin dalle categorie giovanili, come tanti dei suoi compagni di squadra, la sua passione per questo duro e difficile sport lo portò ben presto a vestire la maglia azzurra della nazionale italiana, vincendo una medaglia d’argento ai Campionati Mondiali Junior disputati a Grisons-Svizzera, nel 1990, nel K1 a squadre con Fabio Nosella ed Eros Zanini.
Tutto questo, lo raccontava senza mai far trasparire una sorta di vanagloria, bensì rimanendo sempre umile, semplice nelle sue risposte e nel suo raccontarsi, spronato dalle nostre innumerevoli domande poste con nostra grande meraviglia e curiosità.
Alla fine di quel lungo colloquio, mi chiese se ci fosse un posto per allenarsi all’aperto, in quanto la palestra, non avendo grandi aerazione, nonché con scarse e datate attrezzatura, rimaneva scomodissima soprattutto nelle ore calde del pomeriggio.
Gli feci presente che era stato costruita da poco una palestra nel verde, solo che si trovava in cima al Monte Parodi, a circa settecento metri di altitudine e per arrivarci doveva chiedere quale autobus avrebbe potuto prendere, qualora ce ne fosse uno. Non era ancora pratico del territorio spezzino, mi ringraziò e mi disse che si sarebbe informato su come arrivarci comodamente.
Era di venerdì e non lo vidi il sabato e la domenica. 
Il lunedì pomeriggio, arrivò presso il centro sportivo, felice e pronto per scendere in canoa, gli chiesi se avesse trovato la palestra nel verde. Certo, mi rispose, è un bellissimo posto e ci tornerò tutte le volte che avrò tempo per arrivarci. 
Gli chiesi con curiosità che autobus avesse preso, mi rispose tranquillamente, nessun autobus, ho chiesto all’edicolante fuori dall’Arsenale, mi ha fornito una carta dei sentieri, sono partito di corsa, sono arrivato sul Parodi, ho fatto tutto il percorso, indicato ottimamente sulle attrezzature e dopo, sempre di corsa, sono rientrato a bordo. Rimasi sorpresamene stupito!
Gli chiesi: - Perché non provi ad andare a fare l’Incursore al Varignano? 
Io penso che tu abbia qualche buona qualità per riuscirci.
Mi rispose con pacatezza, ci starei pensando, ma prima devo vincere il concorso per essere ammesso al corso sottufficiali, una cosa per volta. 
Non passò molto tempo, che Marco ci mise al corrente che lo avevano chiamato a Taranto per frequentare il corso sottufficiali, tanto anelato. Ci congratulammo con lui e gli facemmo le solite raccomandazioni da esperti fratelli maggiori.
Passarono due anni circa, quando rivedemmo Marco di nuovo al Centro Sportivo. 
Ci mise al corrente di come era andato tutto il corso e che lo avevano ridestinato su una nave Alla Spezia, la Portaerei Garibaldi, in qualità di specialista delle comunicazioni e scoperta, ma la notizia, per noi più importante, fu che aveva formulato anche la sua richiesta per essere ammesso alle prove, per frequentare il 46° corso Incursori.
Per noi, che ormai conoscevamo le ottime qualità del ragazzo, fu una notizia del tutto positiva e non avevamo nessun timore o dubbi sulla sua possibile riuscita.
Per tutto l’anno della frequenza del corso incursori, lui non lo sapeva, ma ci tenevamo informati sull’andamento tramite i nostri colleghi al Varignano. Le notizie erano sempre le solite, ragazzo serio, molto preparato, determinato, motivatissimo ed impeccabile.
In quasi tutta la sua onorata carriera, l’ho sempre seguito, seppur da lontano. 
Alla fine del corso, Marco ottenne il tanto ambito Basco Verde e si brevettò Incursore della Marina Militare. 
Qualche volta, quando quei rari momenti di poco impegno lavorativo, gli consentivano di avere un fine settimana libero,  sono riuscito a portarlo a fare qualche gara di canoa. Ha sempre fatto bellissime figure nelle sue performance, dimostrando sempre di non perdere le abilità acquisite e prestandosi volentieri anche a dare preziosi consigli ai nostri giovani.
Ha avuto una carriera encomiabile all’interno del Gruppo Incursori del Varignano, guadagnando vivissimi apprezzamenti anche all’estero, quando ha spesso collaborato con altri reparti speciali.
Ultimamente, avendo accumulato gli anni necessari di servizio, ha chiesto di essere messo a riposo dalla Marina Militare e gli è stata concessa la relativa pensione. 
Nel corso della sua meravigliosa carriera da Incursore, è stato insignito di una Medaglia d’Oro al merito di Marina con la seguente motivazione:
“Al Primo Maresciallo Incursore Paracadutista, Marco Arenare, Soccorritore militare, nel corso dell'operazione a «Maashin IV ª» a supporto delle forze di sicurezza afghane, durante violenti combattimenti con elementi ostili, accortosi che uno dei suoi commilitoni veniva ferito gravemente, con straordinario coraggio, spiccato sprezzo del pericolo ed eccezionale perizia, lo raggiungeva mettendo prima in sicurezza la zona e poi prestandogli le cure del caso. Con la sua azione forniva un contributo determinante per evitare vittime civili e ulteriori feriti tra i commilitoni. Splendida figura di Sottufficiale che, con il suo comportamento esemplare e generoso, ha contribuito a dare lustro alle Forze Armate italiane in un contesto multinazionale. Herat (Afghanistan)”.  (Gazzetta ufficiale n. 125 del 30 maggio 2013)

Ed una Medaglia di Bronzo al valore di Marina con la seguente motivazione:
“Al Primo Maresciallo incursore paracadutista Marco Arenare, Sottufficiale Vice Comandante di Distaccamento, partecipava a un'operazione di antiterrorismo volta alla liberazione di ostaggi nella città di Herat.  In tale azione dimostrava grande coraggio, sangue freddo ed indiscusse capacità e abilità professionali, oltre ad iniziativa e prontezza nel porre in atto ogni accortezza per il positivo esito dell'operazione. Grazie al suo mirabile comportamento e al prezioso contributo fornito, veniva portata a termine la liberazione di trentuno ostaggi tra cui sei italiani. Splendida figura di Sottufficiale che, con il suo comportamento esemplare e generoso, ha contribuito a dare lustro alle Forze Armate italiane in un contesto multinazionale.  Herat (Afghanistan)”.  (Gazzetta Ufficiale n. 85 del 11 gennaio 2014)

Dalle storie vissute con semplicità e determinazione, ma intrise di passione, nascono le motivazioni più belle per ricevere le migliori soddisfazioni nel corso della vita.

Gennaio 2024
Nello Ricciardi

mercoledì 17 gennaio 2024

IL LAVORO MINORILE - LE PATATE (seconda parte)


Incominciai con buona lena a mettere d’accordo tutte quelle cassette multicolori, per farle entrare una dentro l’altra. Inizialmente un pochettino impedito nella manualità, ma poi trovato presto il modo più semplice e veloce, con un tantino di scaltrezza, riuscii presto a far nascere quel muro uniforme formato da cassette impilate ed ordinate. 
Ad un certo punto mi venne il dubbio che qualcuno, di nascosto, si prendesse beffa di me facendone aumentare il numero. Non finivano mai. Di tanto in tanto, notavo il viso della signora, che presa a compassione, mi spiava di sottecchi per vedere come me la cavavo.  
A metà mattinata il sole era già abbastanza alto e maturo nel cielo carico di azzurro. Il caldo canicolare penetrava attraverso l’aria impastata dalla polvere che scaturiva dai nastri trasportatori delle migliaia di patate intrise di terra, scaricate dal camion per finire la loro corsa nei sacchetti di rete plastificata.
Mi chiamò la figlia del proprietario e mi invitò a mangiare una fettina di dolce fatto in casa, accompagnato da un bicchiere di birra e gassosa versato da una caraffa colma di palline di ghiaccio. Tutti gli altri lavoratori si fermarono giusto il tempo per quel piccolo ma graditissimo intermezzo di piacere.
Ritornai rinvigorito, da quella provvidenziale pausa, a riprendere il mio lavoro. Le ultime tre cassette, volarono letteralmente al loro posto quando arrivò l’avviso di terminare i lavori per accingersi alla pausa pranzo. I rumorosi nastri trasportatori si spensero e si quietarono. Tutti i lavoratori, me compreso, sembravamo degli zombi, impolverati fino al midollo osseo. 
Mi indicarono una fontanella fuori dal fabbricato principale, attaccata ad un piccolo manufatto in lamiera, dove potei sciacquare tutta la terra appiccicata alla pelle madida di sudore. Nella piccola baracchetta, senza copertura, non più grande di un metro c’era un piccolo gabinetto in ceramica, utilizzato da tutti i lavoratori. 
Tutti i presenti si riunirono nell’ombra disegnata da un grande pioppo, che sembrava messo in quel posto di proposito. Ognuno di loro prese una cassetta di plastica per sedersi. Cominciarono a mangiare il loro cibo pronto preparato e portato da casa. Io non avevo nulla. Non sapevo come fosse organizzata la giornata e quindi non ero preparato. Non potevo prendere la bicicletta ed andare a casa, avrei impiegato troppo tempo. 
Qualcuno, mosso a compassione mi offrì qualche pezzo del loro pranzo. Rifiutai con goffa gentilezza e con patetica fierezza, allontanandomi da quel posto conviviale. Mi appartai da solo in un angolo abbastanza nascosto, sentivo i ragni nello stomaco e qualche lacrima di rabbia trovò strada tra le guance cotte dal sole. 
Arrivò all’improvviso, un angelo con le sembianze della figlia del proprietario, mi allungò un piatto con due belle fette di pane fresco con una fetta di mortadella ed un pezzetto di formaggio, insieme al solito bicchiere di birra e gassosa. Non ricordo se borbottando riuscii a dire qualcosa che somigliasse ad un ringraziamento, ma sentii chiaramente l’esortazione a ricordami, per il giorno dopo, di munirmi del necessario per il pranzo. La pausa pranzo durò giusto il tempo per ingurgitare l’ultimo boccone di pane. 
Mi chiamò il figlio del proprietario e mi invitò a salire accanto a lui sul camioncino.  Arrivammo in un campo, non tanto lontano, era molto vasto e si vedevano file smisurate di patate scavate dalla terra e lasciate ad asciugare al sole, pronte per essere raccolte. Alcune donne, curve verso terra, raccoglievano i preziosi tuberi e li sistemavano in cassette uguali a quelle a cui mi ero dedicato tutta la mattina. Arrivò un uomo che mi disse di scendere dal camioncino e di camminare nel terreno dietro al camion, mentre questo si spostava avanti lentamente, rasentando le cassette già piene e pronte per essere caricate. Il mio compito era quello di prendere le cassette e metterle sul pianale, dove c’era un altro signore che le sistemava impilandole sistematicamente. Iniziai subito ad alzare da terra la prima cassetta, facendo una smorfia per l’inaspettato sforzo. Pesavano circa venticinque chili l’una. Iniziai a caricare le cassette lungo il percorso e dietro il camioncino, una, due, tre, dieci, venti, trenta ed ancora, ancora tante, tantissime. Il peso di ogni cassetta sembrava aumentare con il passare del tempo. Il sole, nel pieno del sua potenza giornaliera, picchiava su quel campo arido, polveroso e senza riparo. Persi il conto delle cassette caricate, ma credo che superassero abbondantemente le cento unità. Le gambe, al loro primo giorno di lavoro, non reggevano più, le braccia non erano da meno, ogni tanto mi sentivo prendere dallo sconforto, ma non volevo mollare. Finalmente il pianale del camioncino non presentò più spazi liberi. L’ultimo sforzo, le mie gambe lo fecero per salire in cabina, dove mi accasciai sul sedile.
Arrivammo, ahimè, troppo presto al capannone. La signora (la persona più buona di tutta la compagnia), che già più volte era intervenuta in mio soccorso, mi chiamò e mi disse di sistemarmi alla fine del nastro trasportatore, dove sarebbero arrivate le patate appena raccolte e scaricate dal fratello sui nastri. Vedrai che qui lavorerai di meno o comunque con meno fatica. Effettivamente, il primo beneficio arrivava dal lavorare all’ombra, ma questo giovamento era quasi cancellato dal fatto che i sacchi fatti di rete, tipo raffia, erano grandi da contenere venti chili di patate. Io dovevo tenere accuratamente sotto il nastro il sacco, fermare il nastro, quando credevo di avere il sacco più o meno a peso giusto, sollevarlo metterlo su di una di bascula per controllarne il peso, aggiungere o togliere le patate a mano e spostarlo di lato, dove una donna cuciva il lato aperto, rendendolo pronto per essere venduto. Si fecero le otto della sera, quando finimmo di insaccare tutte le patate disponibili. Ero distrutto! 
Le mani mi bollivano, non c’era un centimetro di pelle libera, interamente coperte da grosse ed umide vesciche nei palmi delle mani.
Il proprietario mi salutò dicendomi che ero stato veramente bravo e che non avrebbe scommesso un centesimo che io fossi arrivato a sera, senza mollare prima.
Ci vediamo domattina alle sei e trenta, vieni direttamente al campo, che ci sarà da finire di caricare le cassette di patate, mi disse il capo.
Presi la bici, ma non riuscivo a tenere le mani sul manubrio, guidavo la bici armeggiando con i polsi.
Arrivai a casa, mia mamma mi fece degli impacchi con olio e fette di patate sulle mani, poi mi bucò con l’ago ed il filo di cotone, una ad una, tutte le bolle nelle mani, lasciando il pezzettino di filo dentro, allo scopo di far spurgare il siero sanguineo contenuto. Non sentivo il dolore, sicuramente più lieve del dolore offerto dalle vesciche già aperte. Il mattino dopo arrivò troppo presto, le mani avvolte in stracci dovettero subire un’altra giornata di supplizio.
Caricare il camion con le pesanti cassette di patate, riempire i sacchetti, di rete tagliente, carica i sacchetti sui camion dei commercianti che venivano a rifornirsi per i mercati. 
Queste erano le giornate, tutte uguali, tutte estremamente faticose. Finì la prima settimana di duro lavoro.
Venni ricompensato con l’equivalente di circa due pacchetti di sigarette al giorno, diecimila lire ed un sacchetto di patate da venti chili.
Ero letteralmente distrutto, ma ero felice. Non avevo mai guadagnato tanti soldi e poi c’era anche l’extra delle patate.
Quando arrivai a casa, i miei genitori non si capacitavano di quanto io fossi felice. Ma come fai a ridere che sei pieno di lividi e con le mani distrutte?
Avevo finalmente provato per la prima volta a guadagnare con il mio sudore, quello per me era una soddisfazione che non aveva prezzo.
Il lunedì successivo riandai a lavorare, ed ancora un altro lunedì successivo ed un altro ancora. 
L’estate stava finendo, mi ero accordato con il capo che avrei smesso di andare a lavorare una settimana prima di iniziare la scuola, per riprendermi un pochino e, ricordandomi che ero un ragazzino, rivedermi tutti i giorni, con gli amici di gioco. Le mani non avevano più problemi, vistosi e duri calli avevano rimpiazzato le viscide e sanguinolenti vesciche. Il fisico si era temprato al duro lavoro e non mostravo più sofferenze. 
Ero anche diventato bravissimo a riempire i sacchetti con il quantitativo esatto di patate, senza doverle pesare. Mi bastava alzare il sacchetto e sospenderlo con le due braccia, per essere sicuro di averne messo dentro esattamente venti chili. 
La stessa abilità la ritrovai una decina di anni dopo, dove con una sola manciata e senza guardare, riuscivo ad essere sicuro di aver preso dalla cassa delle munizioni, quindici cartucce calibro nove parabellum, da introdurre nel caricatore bifilare della mia pistola Beretta 92SB.
Ma questa è un’altra storia!