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mercoledì 13 dicembre 2023

IL LAVORO MINORILE - LE PATATE (Prima parte)

Nel mese già caldissimo di giugno del 1973, terminai la seconda media. Iniziava il lungo periodo di vacanze trimestrali, ma come al solito, non per me. 
Le cattive condizioni economiche legate alla mia famiglia e le varie necessità collegate, di cui mi rendevo perfettamente conto, nonostante l’età, mi portarono a decidere di fare qualcosa di più utile per dare una mano al misero bilancio familiare. 
È vero che ero stato abituato a fare sempre qualche mestiere, nei cosiddetti periodi di vacanze scolastiche e non solo, spesso anche nei pomeriggi dopo gli impegni scolastici, fin da quando frequentavo le elementari.  
Esortato sempre da mio padre, che al contrario di mia madre, voleva a tutti i costi che i figli andassero ad imparare l’arte piuttosto che perdere tempo a scuola, giudicata inutile e costosa per i propri miseri guadagni. 
La mamma, invece, si era sempre battuta per mandarci a scuola, a tutti i costi e spesso questo loro modo opposto di affrontare la questione, diventava oggetto di aspre discussioni in famiglia.  
A dodici anni vantavo già un ricco curriculum lavorativo e di apprendista alle spalle. Garzone da un ciabattino, apprendista riparatore di apparecchi radio elettrici, montatore di antenne televisive, venditore ed installatore di bombole del gas, benzinaio, gommista, fabbro (per una settimana), manovale muratore, meccanico di motorini, venditore di scarpe ai mercati rionali, barista.
Nessuno di questi lavori fece accendere in me la scintilla dell’interesse, non posso però negare che tutti hanno lasciato un qualche cosa nella mia crescita personale e mi hanno aiutato scoprire il mondo dei grandi a cui andavo incontro, per integrarmi con loro. Tutte queste attività, però, avevano un punto in comune, nessuno mi faceva guadagnare nulla, se non racimolare piccolissime mance. 
Ero impegnato, dal mattino alla sera solo per imparare, o meglio, rubare il mestiere. Tutte le mance guadagnate venivano puntualmente versate nel bilancio familiare.
Ormai a dodici anni compiuti, mi sentivo grande moralmente, sempre di più sentivo il desiderio di rendermi utile alla famiglia, non avevo più voglia di essere sfruttato dagli altri senza una ricompensa. Sentivo obiettivamente anche la scuola lontano dai miei desideri, forse perché la vivevo male emotivamente, mi teneva forzatamente legata al non potermi sentire subito realizzato. 
Eppure ero molto bravo e diligente nello studio, soprattutto nell’apprendere, ed ogni anno venivo ricompensato con una borsa di studio, l’unica cosa che mi motivava a continuare, visto i complimenti affettuosi che ricevevo dalla mamma quando andava ad incassare il relativo premio. 
Fu così che una mattina presi la bicicletta di famiglia, unico mezzo di locomozione per tutti, ed andai a cercare un lavoro che mi gratificasse finalmente con una buona paga, un vero guadagno.
Man mano che pedalavo, pensavo e fantasticavo quale lavoro avrei potuto intraprendere, sicuramente per guadagnare tanto, dovevo scegliere un lavoro faticoso, nessuno mi avrebbe pagato per stare a guardare quello che faceva. Non mi veniva in mente nulla, dopo una mezza giornata che pedalavo in lungo ed in largo, dopo aver incassato il netto diniego di alcuni datori di lavoro, a cui avevo chiesto aiuto, lo sguardo si fermò sul lato opposto della strada, dove degli uomini, con l’aiuto di un nastro trasportatore stavano caricando su di un camion dei sacchetti di patate.
Mi fermai ed entrai nel cortile interno. C’erano due donne, una anziana ed una molto giovane, con un grosso grembiule legato in vita, che chiudevano, con una ottima e veloce manualità, con dello spago i sacchetti di patate pronti da caricare sul camion. 
Chiesi loro chi fosse il responsabile, per parlarci. Mi domandarono il motivo e quando io dissi che ero in cerca di lavoro, scoppiarono a ridere, senza mai interrompere il loro lavoro. La più giovane al termine della sua sonora risata mi disse: - Tu vuoi lavorare qui, ma come fai a spostare i sacchi di patate e le cassette piene che pesano più di te? Io gli risposi: - La necessità e la voglia di lavorare mi aiuterà, mettetemi alla prova, vi prego.
Mi fecero parlare con il proprietario, che era uno di quelli che stava lavorando sul camion a sistemare i sacchetti, dopo che ebbe finito.
L’uomo, tutto sudato, il viso impolverato che si intravedevano solo gli occhi, fu di poche parole e mi disse: - Non ho mai preso a lavorare uno più piccolo di una mazza da scopa, d’altronde che cosa ti posso far fare. Vieni lunedì mattina alle sei e trenta e vedremo in cosa potrai essere utile. 
Forse il buon uomo capì la mia voglia o meglio i miei bisogni, chiaramente mi chiese chi ero, dove abitavo e perché volevo lavorare.
Quella notte tra domenica e lunedì non dormii affatto, anche al pensiero di non svegliarmi ed arrivare tardi al mio primo giorno di lavoro. Fui il primo in casa ad alzarmi dal letto, erano le cinque e mezza, misi nella scodella un po’ di latte, munto la sera prima dalla mucca che stava nella stalla proprio sotto casa nostra, lo mischiai con orzo bollito nell’acqua e poi passato al colino e ci inzuppai una fetta di pane raffermo di qualche giorno prima. Inforcai la bicicletta e mi avviai pedalando velocemente verso la nuova avventura lavorativa.
Arrivai naturalmente in anticipo, feci quei cinque chilometri di distanza da casa in un attimo, come se dovessi vincere una tappa del giro d’Italia.
Dormivano ancora tutti e mi sedetti sul gradino davanti alla casa dei proprietari a prendere un po’ di respiro, poi lo sguardo cadde su una scopa lasciate a terra e mi venne in mente la frase in merito ad un lavoratore più piccolo di una mazza da scopa. La presi e tenendola diritta davanti a me, cercai di capire se io fossi più alto oppure no di quel manico di scopa. Poi non so perché comincia a spazzare il piazzale davanti a me, che era pieno di rimasugli di foglie, terra e piccole patate marce e puzzolenti, le patate marce hanno un odore veramente orribile. Pulii accuratamente tutto il piazzale e raccolsi il mucchio di immondizia in un grosso bidoncino di latta, quando uscì dalla porta la moglie del proprietario, una delle due donne che cucivano i sacchi pieni di patate qualche giorno prima. Mi chiese come mi chiamassi e mi offrì del caffè bollente appena fatto. 
Mi disse che mi aveva osservato dalla tendina della finestra, mi fece i complimenti per quello che avevo fatto e mi fece una carezza sul capo. Vedrai che adesso arriveranno il resto della famiglia ed iniziamo la giornata di lavoro, mi disse la gentil donna.
Subito dopo, il capo uscì di casa insieme al figlio ed alla figlia, parlavano tra di loro abbastanza animatamente, su come impegnare la giornata e di come dividersi il lavoro. Avevo capito che era una azienda di famiglia, dove l’unico operaio ero io, mi sentii subito importante e responsabile, alzandomi inconsapevolmente sulle punte dei piedi, sicuramente più alto di una mazza da scopa. 
Il signore si rivolse a me, chiedendomi se avevo mai impilato le cassette di plastica utilizzate per contenere e trasportare le patate o i pomodori, risposi di no, mi portò in un piazzale esterno, dove c’erano ammucchiate diverse centinaia o forse qualche migliaio di cassette, in maniera molto confusa. Mi disse che avevo tempo fino all’ora di pranzo, per assemblarle a tre e sistemarle ordinatamente fino a formare un muro alto almeno due metri e mezzo e di utilizzare una scala per arrivare dove non arrivavano le mie braccia.
Sissignore, non si preoccupi farò del mio meglio, risposi. Ecco bravo, del tuo meglio o del tuo peggio, non mi interessa, basta che finisci entro l’una e non ti fai male! 
Mi redarguì il principale. 
Cominciò così la mia prima lunga e vera giornata di lavoro.

""Fine prima parte. Qui la seconda parte""

Nello Ricciardi