Translate

venerdì 23 febbraio 2024

I SENGAUNI (Antico popolo Ligure-Apuano del Caprione)


Doverosa premessa: i fatti raccontati sono un lavoro della mia fantasia ed inseriti in avvenimenti storici veri, tratti in larga parte dagli scritti raccolti nel "Ab urbe condita" dello storico Tito Livio.

I SENGAUNI

I Liguri-Apuani, probabilmente uno dei popoli più antichi della Penisola italica, abitavano nel vasto territorio, compreso tra l’alta Gallia alle Alpi Apuani fino al fiume Serchio. Vivevano in una vasta zona libera e senza confini imposti. 

Non avevano un vero capo dichiarato e si riunivano in moltissime tribù locali, dandosi spesso manforte tra i vari clan. In particolare, il promontorio del Caprione, che si distende tra il mare dei Liguri e la sponda destra del fiume Magra, così come riprodotto sulla " Tavola Peutigenaria, Pars IV, Segmentum IV" era popolato dalla tribù dei Sengauni, appartenenti alla grande famiglia dei Liguri-Apuani.

I romani, che da anni battagliavano contro i Liguri-Apuani, tuttavia senza riuscire a sottometterli, dicevano che era un popolo di uomini e donne valenti guerrieri, le donne combattevano come gli uomini, spietate e feroci come fiere.

Correva l’anno 187 a.C., quando i romani inviarono, due consoli a capo delle loro legioni a sottomettere definitivamente i Liguri-Apuani. Queste popolazioni cominciarono ad essere un grosso problema per Roma, in quanto impedivano il naturale proseguimento di accrescimento e quindi i collegamenti con la Gallia e l’Iberia. 

Per verità furono cercati diversi accordi con le singole tribù, ma proprio per il fatto che non avevano un capo unico, non si riusciva a trovare la pace, che voleva anche dire la sottomissione ai romani. 

La base avanzata della colonia di Roma si attestava nei pressi del fiume Arno a Pisa e già i romani iniziavano a costruire nuova strada per collegare l’estuario del fiume Magra, ritenuto strategicamente importantissimo per i collegamenti marittimi con le coste galliche ed iberiche.

L'esercito, con a capo i Consoli Flaminio e Lapido, riuscì a sconfiggere diverse tribù di Apuani, cacciandoli dai loro castellari, disperdendoli nei boschi delle vette apuane e verso l’entroterra ligure. Tuttavia la popolazione rimasta, non ne voleva sapere di sottomettersi continuando le loro scorribande contro i coloni romani che cercavano di insediarsi nella piana del Magra.

Nella località della cima Rocchetta, la più alta del Caprione, con i suoi quattrocento metri di altezza, viveva in solitudine un vecchio sengauno, Piotr. 

Nessuno della sua tribù era a conoscenza del motivo di questo suo allontanamento, avvenuto in giovane età. Piotr non parlava o meglio non si faceva capire, in quanto sillabava poche parole ed in malo modo. Non faceva del male a nessuno e viveva immerso nella natura, insieme agli animali selvatici. Inizialmente si faceva vedere, di tanto in tanto, da qualche parente più fidato, poi con il tempo, anche loro persero le sue tracce.

Piotr non stava più bene fisicamente e spesso si lasciava andare in dormite che risultavano terapeutiche per i suoi malanni, questi ultimi dovuti soprattutto all’età avanzata ed al cibarsi di quel poco che trovava in natura. 

LA CALIGO

Fu proprio in una bella giornata tiepida di primavera, quando il clima cominciava a diventare gradevole, prendendo il posto alle pungenti giornate di freddo, che Piotr si svegliò di soprassalto, annusando qualcosa di strano ed insolito nell’aria. Quando aprì gli occhi, ebbe la sensazione di stare su di un’isola deserta, staccata da tutto il Caprione. Il suo monte galleggiava su di una enorme nube bianca ovattata e sopra di lui un bel sole che sprigionava un caldo tepore.

Piotr si trovava nel bel mezzo del “caligo”.

La caligo era un fenomeno atmosferico, tipico di quei luoghi, si poteva vederlo un paio di volte l’anno, nel cambio di stagione. I vecchi e gli sciamani conoscevano molto bene questo scherzo della natura. Si verificava, di solito, durante la primavera per la concomitanza di condizioni molto particolari. Quando il mare ancora freddo viene baciato dall’aria calda riscaldata a dovere dal sole, fa evaporare l’acqua formando microscopiche goccioline che vengono spinte sulla costa da una debole brezza proveniente dal sud. 
Il risultato è un banco di fitta nebbia che si ferma a pochi metri d’altezza, senza scavallare le cime più alte, lasciando queste ultime nel cielo azzurro assolato.

Gli sciamani della tribù collegavano il fenomeno agli spiriti dell’aldilà. Questi salivano dal mare per andare a prendere le anime dei defunti incastrate ancora alla vita terrena e quindi in una condizione di tormento. Pertanto gli spiriti utilizzavano la caligo per nascondersi ai vivi, così da portare le nuove anime in mare senza essere visti.

Anche Piotr conosceva bene la caligo e la sua antica storia, ma il suo intuito da uomo solitario lo portò a preoccuparsi di più per gli strani e forti rumori, come boati, che provenivano dal fiume, attraversando quella nebbia fitta ed intensa.

Aveva intuito un immenso pericolo, tale da imporgli di lasciare il suo eremo per correre ad avvisare la sua tribù dell’imminente pericolo, non prima però di spingersi a percorrere un canalone che declinava verso il sottostante Fiume Magra, per avvicinarsi il più possibile verso quel gran frastuono per vedere da vicino la realtà degli eventi. 

Non volle credere ai suoi occhi. Migliaia di soldati e cavalieri romani erano accampati sulla sponda opposta del fiume. Erano tutti intenti a riempire l’alveo, dove questo risultava più basso, con detriti e terra, trasportati appositamente con grossi carri. L’intento era quello di attraversare facilmente e prima possibile il fiume per dirigersi sul Caprione ed invaderlo, allo scopo di occupare questo meraviglioso osservatorio sulla vallata del Magra e sul mare.

Ritornò indietro di corsa, nonostante gli acciacchi, ma era una questione di vita o di morte, si diresse alle pendici del monte Murlo, fino a scavallarlo e poi si diresse giù dal lato opposto, verso il mare.

Incontrò tutto il suo popolo, accampato sulle piccole pianure verso il mare, nascosto dalla caligo.

Notò che c’era tanta gente a lui sconosciuta e che parlavano dialetti strani. Gli spiegarono che i capi dei Sengauni, tra cui il giovanissimo ed astuto Gruza, aveva riunito negli ultimi giorni alcune tribù Apuane, spingendosi fino a Pontremoli. Avevano intuito che presto sarebbero stati attaccati, in quanto avevano notato, nei giorni precedenti, durante le loro scorribande nell’avamposto romano della nascente Lunae, continui arrivi di legionari romani, scorgendo anche la presenza del Console Quinto Marcio Filippo.

Gruza ringraziò di cuore Piotr, che sparì subito, riprendendo la strada della sua solitudine.  Furono inviati dei velocissimi giovani ad accendere numerose torce e fuochi sulle cime più alte del Caprione, perché si vedessero lontano e sulle vicine Apuane e rimanendo quasi invisibili a chi rimaneva ai piedi della caligo.

Con questi segnali avvisarono del possibile attacco, le altre tribù  Liguri-Apuani, sia nelle montagne che verso il promontorio opposto al mare.

Oltre alle numerose tribù Apuane, già presenti sul Caprione, fin dai giorni precedenti, altre si misero in marcia per andare in soccorso ai fratelli Sengauni. Addirittura molti clan appartenenti ai Friniati, provenienti dal vicino Appennino Reggiano-Modenese, si mossero per accorrere nella vicina terra amica, per sconfiggere gli odiati romani, attaccandoli alle spalle.

La caligo si esaurì nella stessa giornata, cosicché le varie sentinelle Sengaune, per la maggior parte donne, disseminate lungo i pendii che guardavano verso il sottostante fiume, controllavano l’avanzamento dei lavori nel fiume ed il continuo arrivo di truppe legionarie nell’accampamento posto nella sottostante grossa piana di Luni, per carpirne il momento dell’attacco

L' ATTACCO AL CAPRIONE

Una di queste giovanissime sentinelle si chiamava Garana, era la compagna del giovane Gruza, lasciato a riposare nella sua semplice abitazione, costruita su una base di pietra, realizzata con legno, frasche e tenuta insieme dall’argilla. All’alba cominciò a piovere e l’aria si era trasformata dal caldo dei giorni prima a fredda e pungente.

Garana si accorse prima di tutte che il Console Quinto Marcio Filippo, con le proprie insegne e vessili, aveva iniziato la marcia di avvicinamento, per attraversare il fiume. Erano circa ottomila legionari, a piedi ed a cavallo. 

Immediatamente inviò le staffette, formate da ragazzi giovanissimi, ad avvisare tutti, guerrieri, uomini e donne, armati di tutto punto.

Capirono che i romani avevano pianificato di salire il Caprione attraverso uno dei suoi canaloni impervi.

Li sentirono bene quando i legionari impegnarono il canalone, mentre battevano con le spade ed i giavellotti sui loro grossi scudi, allo scopo di intimorire gli avversari. Non fu una buona scelta strategica per il console. Le tribù locali ed i loro alleati li aspettarono quasi in cima al canalone e li assaltarono attaccandoli dai fianchi.

Non si mise bene per i legionari, non abituati a combattere in quel modo, forse il console non si aspettava una difesa così preparata ed accanita. La battaglia ebbe un impeto violento numerose vittime si potevano contare da entrambe le parti. Quella di passare dentro quell’impervio canalone, fu per il console una scelta impietosa. I cavalieri maledissero i loro cavalli che non riuscivano a salire nel canalone, i soldati non potevano maneggiare al meglio le loro lunghe lance che si impigliavano nella folta boscaglia, le pesanti corazze indossate impediva loro l’agilità necessaria a muoversi in quegli anfratti, che diventavano invece ottimi nascondigli per i Liguri, che erano alleggeriti da qualsiasi corazze o scudi ed utilizzavano corte spade larghe ed appuntite, ma soprattutto l'arma tipica degli apuani, il pennato. Ma quando il console decise di ordinare la ritirata, trovo la strada dietro di sé sbarrata dalle tribù Liguri-Apuane provenienti dai monti e dai Friniati accorsi a loro volta per dar man forte. I legionari furono presto sterminati. Dal canalone il sangue scorreva a fiotti verso valle in direzione fiume Magra, macchiando e riempendo le sue acque tranquille di rosso carminio. 

Restarono uccisi sul campo non meno di quattromila uomini e vennero perse tre insegne delle legioni, undici insegne degli alleati e la maggior parte delle armi mollate dai Romani in fuga, mentre il resto dell’esercito si ritirò nel più completo disordine. Si disse che "si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire".

Da quel giorno, anno 186 a.C., il luogo del disastro fu chiamato "Saltus Marcius" cioè dove Marcio era precipitato, ovvero aveva perso il suo nome glorioso, ai nostri giorni diventato “Canale del Marzo”.

Nei giorni successivi, le tribù esauste, si adoperarono alla pulizia del campo di battaglia. I numerosi corpi dei nemici, vennero accatastati presso il fiume e bruciati sul posto.

I corpi degli Apui vennero portati via dalle proprie tribù. Con grande stupore venne trovato, tra i tanti anche il corpo del povero Piotr. Nessuno lo sapeva, ma era accorso anche lui, per quello che poteva fare, per dare una mano a difendere la sua terra, il suo Caprione.

Piotr, insieme agli eroi Sengauni caduti in battaglia, vennero cremati. Le loro ceneri vennero raccolte in urne di terracotta con coperchio e chiuse dentro una cassetta di pietra che venivano conficcate nel terreno coperte da una ulteriore piastra. Una di queste necropoli si trovava nella piana di Ameglia. 

Continua.......

febbraio 2024

Nello Ricciardi

SECONDA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/03/montemarcello.html

TERZA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/03/la-forza-del-destino.html