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mercoledì 10 aprile 2024

I MIEI RACCONTI

(Cliccare sui titoli per aprire il racconto da leggere)

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LE ORIGINI



INFANZIA ED ADDOLESENZA
5.   LA VASCA
15.  ZINGARI


LA MARINA MILITARE

2.   SEGNALATORI  
17.  I PUGILI

7.   KIZOMBA
9.   GINEVRA

RACCONTI  NON TANTO VERI  (FANTASIA)

1.  BOREA



I FOLLETTI DI GRETA E MARLENE

Il grande e fiorito ciliegio nel giardino di casa Ricciardi allungava i suoi imponenti e lunghi rami maestri, parallelamente al verdissimo sottostante prato, formando una robusta impalcatura che dava supporto ai nodosi rami verticali, da dove dipartivano numerosi virgulti che avrebbero dato, come ormai abituati da tempo, a numerosi frutti rossi, dolci e succosi. La pianta era diventata, in pochissimi anni, imponente facendo spuntare di tanto in tanto, grosse radici, che non riuscendo a penetrare il sottosuolo fortemente argilloso, si propagavano  longitudinali lungo il prato, dove si stagliava la sua stessa ombra.

Quella stessa ombra dove amava passare le giornate calde ed oziose il nostro cane dal pelo corto e nero. 

Tach, così lo avevano chiamato le bambine, le sorelle Greta e Marlene, era stato regalato da una conoscente di Fiumaretta. Pura razza di madre bastarda, anche lui come sua madre non aveva conosciuto il padre e forse nemmeno sua mamma aveva la sicurezza di quale cane potesse essere stato ad ingravidarla. A tutti piaceva e speravano che si rivelasse presto un potente rottweiler, almeno così sembravano le sue caratteristiche da cucciolo,  poi prontamente smentite con la crescita. Zampe grosse ed imponenti, corpo agile, di statura media, un'agilità ed una corsa incredibile, che lo associavano di più ad un levriero, se non ad un canguro sbagliato.

Purtroppo le sue rilassanti dormite sotto la chioma ombrosa, venivano puntualmente interrotte da due dispettosissimi folletti, che proprio su quell'albero amavano passare le loro giornate a giocare ed a rincorrersi.

I due fratellini erano stati assegnati alle due bambine, Greta e Marlene, come da tradizione millenaria a Montemarcello, imposta dalla comunità dei folletti del bosco del Caprione, dove ogni volta che nasceva un nuovo folletto il loro papà avrebbe dovuto piantare un leccio.

Ogni bambino, fino all'età di sei anni aveva il diritto ad essere affiancato da un folletto, maschio o femmina, contrariamente al sesso del bambino. Pertanto come amici delle due bambine erano capitati i fratelli Bedaello e Viciatello.

Non si capiva chi di loro era il più grande, entrambi non più alti di una spanna, di colorito brunastro, occhi grandi e vispi rispetto al viso. Non avevano naso ed orecchie sporgenti, ma solo degli orifizi, bocca molto larga, quanto tutto il viso. Le braccia lunghe e forti, gambe corte e tozze, capelli lunghi, fin quasi alle ginocchia. Vestiti rigorosamente di verde con un cappuccio marrone. Avevano la prerogativa di saper parlare e di capire il linguaggio degli animali, ma con i bambini non riuscivano a dire più di tre lettere di fila, pur comprendendone tutti i discorsi. Amavano solo giocare.

Dormivano riparati in una botola che rimaneva sempre aperta, sotto le scale d'ingresso della casa di Nello e Rita, i genitori delle due bambine. Nello stesso sottoscala accolsero Tach, quando arrivò cucciolo e finirono per dividere l'alloggio facendosi reciproca compagnia.

Quando Greta e Marlene tornavano da scuola, andavano ad aspettarle alla fermata degli autobus, facendo festa e rincorrendole con gioia. Allo stesso tempo, ne approfittavano per incontrare gli altri folletti che erano assegnati a tutti i bambini di Montemarcello. Il risultato era che tutti i bambini per giocare con i folletti lasciavano le mani dei genitori per correre felici con loro, prendendosi tutti i rimbrotti possibili.

Tach ci rimaneva molto male, perché doveva restare da solo a casa ad aspettare. Non gli piaceva affatto questa situazione, pertanto riusciva quasi sempre a trovare un buco nella recinzione oppure a saltarla arrampicandosi a mo' di scimmia, raggiungendo le bambine ed i folletti ed ad unirsi a loro ed a partecipare alle corse spericolate.

Quando riuscivano, si infilavano in casa e mangiavano qualcosa insieme alle ragazze, spesso sporcando dappertutto o le aiutavano nei compiti, soprattutto a fare disegni incomprensibili, consumando e rompendo oltremodo le punte dei pastelli. Naturalmente Nello e Rita non potevano vederli, a loro era precluso, nemmeno potevano ricordare i loro folletti, in quanto dopo i sei anni, i bambini non avrebbero più potuto vederli né ricordarli per tutta la vita. Questo valeva per Rita che era di Montemarcello, Nello era un "foresto" e nel posto da dove proveniva non c'erano folletti, ma solo gnomi, che erano comunque un'altra entità.

Appena potevano, Greta e Marlene, approfittando dell'arrivo delle belle giornate, amavano stare a giocare in giardino, soprattutto sull'altalena doppia, costruita artigianalmente  da Nello, con dei ferrotubi da edilizia. A Tach, a Viciatello ed a Bedaello non piaceva quel gioco, per la loro struttura fisica erano impossibilitati a parteciparvi.

Tach ne approfittava per schiacciare il solito pisolino sotto il vicino limone, ma i folletti che avevano il sangue argentato, non riuscivano a stare fermi. Riuscirono con uno stratagemma a far scendere le ragazze dalle altalene, sfidandole a chi facesse per prima il giro della casa.

Greta aveva sei anni e frequentava la prima elementare, di carattere molto tranquilla, giocosa al punto giusto, senza esagerazioni, dovuto anche alla sua proverbiale flemma, riusciva spesso a stare da sola o con i parenti ed amici, senza sentire troppo il distacco dai genitori. Insomma presentava un carattere molto indipendente. Marlene di tredici mesi più piccola, frequentava il secondo anno della scuola materna. Smilza, scaltra ed iperattiva, amava correre e fare giochi pericolosi. Il suo unico difetto, se così si poteva chiamare era troppo attaccata alla mamma. Non la si poteva lasciare a nessuno dei parenti, diventava un dramma ed allagava la casa di lacrime.

Fecero il primo giro della casa, naturalmente Marlene stava avanti con il suo folletto Bedaello che la guidava incitandola ed urlando a squarciagola, Greta seguiva leggermente distaccata, con Viciatello che cercava di spingerla disperato.

Tach continuava a dormire incurante degli schiamazzi che producevano i quattro scalmanati.

Ogni tanto Rita si affacciava dalla finestra per controllare il buon andamento dei giochi, pregandole, inascoltata di andare più piano.

Al terzo giro Marlene e Bedaello lasciarono un buon distacco alla coppia più lenta, Bedaello ne approfittò per dare una pacca a Tach, che svegliatosi all'improvviso, sbattè la testa al tronco del limone ed iniziò a correre quando passarono Greta e Viciatello. Proprio quando Tach  raggiunse Greta, lei rallentò stremata e nello stesso tempo facendo perno sulla gamba si girò pensando di tornare indietro. Tach, che aveva preso subito una forte accelerazione, trovando l'ostacolo di Greta ferma, non riuscì a schivarla e le piantò la sua zampona all'altezza del femore. 

Le urla di Greta arrivarono subito a Nello e Rita, che corsero fuori.

Greta distesa a terra implorava aiuto, la sua gamba era piegata a novanta gradi in modo anomalo, subito sopra al ginocchio.

I folletti avevano capito il dramma e non ce la fecero a rimanere sul posto, scapparono nella loro casa, convincendo Tach a fare altrettanto.

Marlene piangeva accanto alla sorella. Rita urlava in preda al panico. Nello capì subito l'entità della tragedia.  Secondo lui la gamba era rotta all'altezza del femore e la sua sicurezza appariva tutta dal gonfiore violaceo abnorme che ne era scaturito.

Accorsero anche i nonni, Nello dovette faticare non poco a tenerli lontani senza far toccare la bimba per non compromettere ulteriormente la situazione.

Nello prese una vecchia porta che aveva lasciato dietro la casa, la sistemo più vicino possibile a Greta infilandola lentamente sotto il corpo, cercando di non muoverle di un millimetro. Riuscì a sistemarla sopra senza farla scomporre, assicuratosi che non c'era ulteriore fuoriuscita di sangue interno,  pregò Rita di tenere sopra l'apparente ferita una borsa di ghiaccio.

Con l'aiuto di nonno Aldo, la trasportammo all'auto e poi diritti  al pronto soccorso.

L'ortopedico, che subito la prese a carico, fece i complimenti a Nello per come aveva attrezzato l'intervento, senza toccare mai la gamba e sistemandola su una struttura rigida, evitando contraccolpi e facendo applicare correttamente  il ghiaccio.

L'esito delle radiografie immediate confermarono la frattura del femore. Portarono subito Greta in sala operatoria, dove gli applicarono un ferro da parte a parte del femore, mettendo la gamba in tiro.

Rimase una settimana sul lettino dell'ospedale con i pesi attaccati a tirare la parte da allineare.

Non fu sicuramente una bella settimana, sicuramente Greta la ricorderà per tutta la vita. La mamma rimase sempre con lei, notte e giorno.

Tach e Marlene erano tristi a casa, soprattutto il cane, a cui i folletti avevano spiegato l'accaduto. 

Viciatello riuscì un paio di volte ad infilarsi in macchina di Nello ed a raggiungere Greta in ospedale. Lo si capiva in quanto in quelle rare volte la bambina risultava assente ai genitori continuando però a ridere ed a bisbigliare qualcosa di nascosto.

Greta tornò a casa ingessata dal petto a tutta la gamba ed aveva mantenuto nel gesso il ferro nel femore, inferto in sala operatoria.

Furono giorni atroci per lei, impossibilitata a muoversi e costretta in una posizione anomala ed altamente scomoda. Tuttavia, Viciatello non la lasciò mai, nemmeno quando un mese dopo, aggravato dal gran caldo le venne diagnosticata  la varicella. Il suo corpo si riempì di bollicine e poi di piccole vesciche, il prurito, soprattutto all'interno dell'ingessatura era diventato insopportabile. Viciatello cercava di portarle sollievo anche soffiando, per quello che poteva, all'interno di quel vestito di ovatta e gesso, per portare un minimo di refrigerio.

Bedaello cercava di tenere su con il morale Marlene, non facendole perdere la voglia di giocare.

Il tempo del riposo forzato finì e Greta venne portata in ospedale per controllare l'esito di quella cura statica. Fortunatamente la frattura si calcificò al punto giusto, il ferro le venne tolto, non senza sofferenza.

Tornò a casa per riunirsi ai suoi grandi amici, anche loro in modi diversi scossi da quel brutto episodio. Marlene, Tach, Bedaello e Viciatello si riunirono a Greta e tornarono insieme a giocare spensierati nel loro giardino.

Il sette dicembre di quello stesso anno, Greta festeggiò il suo sesto compleanno. Lo celebrò insieme agli altri in casa, erano tutti felici, tranne Viciatello. Sapeva che il giorno dopo sarebbe dovuto tornare nei boschi del Caprione, nei pressi del suo Leccio piantato apposta per lui.

Non avrebbe potuto più vedere Greta nè lei si sarebbe più ricordata di lui. Questa ere la ferrea regola del popolo dei folletti del Caprione.


Montemarcello 1996

Nello Ricciardi



LAUSDOMINI - 1955/1962




Giuseppe e Maddalena, in fuga da San Giovanni a Teduccio, ma più che altro dalla mamma e suocera, arrivarono nella città di Marigliano, ospitati da Violanda e Felice, sorella maggiore e cognato di Maddalena. 
I cognati si offrirono di accogliere presso di loro, per un breve periodo, i due giovani sposi, nel loro piccolo e spoglio bilocale fronte strada, nei pressi della stazione della circumvesuviana. Il bilocale presentava un classico spazio adibito a cucina ed una camera da letto, delimitata da un pannello di legno e tela. Un piccolissimo ed angusto locale bagno, coperto con una lamiera era ubicato all'aperto nel cortile condominiale.
Felice non aveva un lavoro fisso e sbarcava il lunario, arrangiandosi con insufficienti lavori giornalieri a chiamata, non disdegnando spesso, di adattarsi a fare lo "sciuscia", aiutando il fratello minore nel nobile lavoro di lustrascarpe, al centro di Marigliano. Tuttavia dove riusciva a trovare qualche lira in più per  far quadrare il misero bilancio giornaliero per mantenere la famiglia, era presso un'osteria in via Giannone. In quel posto, sempre saturo di fumo, gli avventori si ritrovavano per bere il classico bicchiere di vino, ma soprattutto per sedersi attorno ad un tavolo verde, per giocare a carte. 
Felice era bravissimo nel gioco della zecchinetta, un antico passatempo introdotto in Italia dai lanzichenecchi. Un gioco ritenuto d'azzardo e proibito da praticare con i soldi. Logicamente e purtroppo per lui e famiglia, seppur fosse molto bravo nel gioco, non tutti i giorni risultavano fortunati e quindi spesso non si riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. 
La vita non riservò loro grandi fortune e benessere, altresì, li aveva dotati di una grande generosità commisurata al loro cuore enorme. Dal loro matrimonio non arrivarono figli, ma nonostante gli stenti, desideravano averli. Non si tirarono indietro e non ci pensarono due volte, quando capitò loro l'occasione, ad accogliere nella famiglia un "figlio della guerra", per salvarlo dall'abbandono, il suo nome era Carlo, ma per loro diventò Giovanni. Una loro conoscente, infatti, aveva partorito questo figlio, nel 1941, mentre il marito era in guerra, ma con il rientro del marito non avrebbe potuto nasconderlo, né avrebbe potuto mantenerlo, aveva già un elevato numero di figli, così Felice e Violanda, si offrirono per dare un tetto e qualcosa da mangiare a questo bambino accudendolo come genitori. Giovanni, quando arrivarono in casa i due giovani sposi, aveva ormai quattordici anni,  cresceva forte, sveglio e sano e fin dalla tenera età si diede da fare nel lavoro, toccò così a lui ben presto mantenere i due genitori adottivi. Nel frattempo, non si tirarono indietro, ed ancora una volta, nel 1954, accolsero con loro un'altra bambina, Nicolina, anch'essa nata da un rapporto infedele e che sarebbe stata abbandonata dalla mamma biologica. Nicolina aveva appena un anno, quando arrivarono in casa gli zii,  riempiendo momentaneamente gli ultimi spazi del già piccolo bilocale. Erano veramente troppi in quella residenza, quattro adulti, un adolescente ed una bambina in quella modestissima abitazione.
Felice si diede subito da fare per trovare una sistemazione idonea per i giovani cognati, che non conoscevano il nuovo paese.  Passarono giusto un paio di mesi e spinto anche dal bisogno di liberare spazi al più presto,  grazie a qualche amico, trovò un alloggio libero per Giuseppe e Maddalena.
Si fecero prestare un piccolo carretto di legno a due ruote, da spingere a braccia, lo caricarono con la pochissima mercanzia che avevano, quasi tutto contenuto in un baule di legno stile liberty  ed una grossa valigia di cartone pressato, inoltre un paio di sacchi contenenti qualche pentola d'alluminio ed altre pochissime stoviglie. L'unico oggetto di modesto valore, di cui Giuseppe non si sarebbe mai separato era una radio a valvole ad onde medie e corte marca Magnadyne modello S175 del 1951. La radio era contenuta ed assemblata in un elegante mobile di legno impiallacciato noce, di medie dimensioni. Giuseppe amava la sua radio, amava ascoltare la musica e le notizie, ma in particolar modo gli incontri di calcio, sopratutto quelli della sua squadra del cuore, il Napoli. L'aveva comprata usata, dopo che era diventato ipovedente, condizione sfortunata che lo portò a isolarsi in casa escludendosi per un lungo periodo dalla società. Con la rata della sua prima pensione di invalidità, volle comprare quello strumento che, a suo dire, lo teneva collegato alla realtà.
Arrivarono con non poca fatica in fondo a Corso Campano, sempre nel comune di Marigliano, nella frazione di Lausdomini.
In quel posto c'era quella che per loro fu la prima abitazione in assoluto, da quando erano sposati, dove poterono finalmente prendere la residenza di famiglia. 
L'ingresso era situato nella strada principale al piano terra, era formata da un monolocale ammobiliato con un vecchio letto interamente in metallo, un comò a tre cassettoni, con evidenti segni di tarlatura, un tavolo di legno per sei persone contornato da quattro sedie di paglia sdrucite e scompagnate. Di fronte all'ingresso principale c'era una porticina a vetri, che usciva nel cortile condominiale ubicato all'interno di un tipico palazzo di campagna di fine ottocento, dove al centro era ubicato il piccolo gabinetto con tetto in lamiera, addossato ad un grande forno a legna ed un pozzo artesiano per attingere l'acqua, tutto ad uso comune degli abitanti che si affacciavano nel cortile.
Questa misera abitazione era il massimo che potevano permettersi in quel momento. Si sistemarono facilmente e velocemente in casa, vista la scarsità delle vettovaglie ed altrettanto velocemente fecero amicizia con i vicini. Quasi tutti contadini e manovali, abituati al duro lavoro nei campi ed all'utilizzo delle pietre e mattoni. Proprio nel cortile dove abitavano, si affacciava uno dei proprietari, Raffaele, che gestiva insieme alla moglie, un piccolo negozio di alimentari e generi di granaglie per piccoli animali da fattoria. I due giovani iniziarono una bella amicizia con i nuovi vicini, Giuseppe scoprì presto che Raffaele aveva la sua stessa invalidità, anche se più aggravata, essendo cieco totale. Tuttavia Raffaele riusciva a muoversi nella sua bottega ed a servire i clienti meglio di quanto facesse la moglie, utilizzando i pesetti in ottone, per bilanciare la bascula in modo impeccabile, senza sbagliare di un grammo.
Grazie sempre ai vicini, mossi a compassione per la giovane e sfortunata coppia, Maddalena iniziò a lavorare come bracciante agricola trascorrendo delle giornate di duro lavoro in campagna, iniziando presto la mattina e tornando a casa stanca al calar del sole.
Giuseppe, invece, in qualità di non vedente partecipò a dei corsi per rilegatore di libri. Ma pur impegnandosi, non ricevette mai nessuna offerta di lavoro. Passava le sue giornate in casa ad aspettare la moglie, ascoltando musica oppure andava nel negozio di Raffaele a cercare di dare una mano, aiutandolo quando aveva bisogno, a trasportare qualche sacco di farina o di cereali.
Quando cominciarono a vivere abbastanza bene, senza più stenti ed a mangiare qualcosa di diverso dal solito ed a mettere da parte anche qualche liretta, Maddalena si accorse di essere incinta.  Purtroppo il suo lavoro era veramente molto faticoso, soprattutto per una donna incinta, ma non poteva permettersi di stare a casa, voleva dire perdere le provvigioni e quindi non guadagnare nulla. Fortunatamente Giuseppe aveva consolidato il suo, seppur piccolo, assegno fisso di pensione per la sua malattia cronica, che era una entrata sicura nel bilancio familiare.
Maddalena non volle perdere una giornata di lavoro, andava in campagna con un pancione enorme e tutti i vicini la riprendevano, consigliandole vivamente di stare a casa. Ma non volle mollare se non ad una decina di giorni dal parto.  A fine marzo del '57, nacque un bellissimo e sano marmocchio dagli occhi dolci, aveva già la riga a sinistra nei lunghi capelli neri. Gli venne dato il nome Giacomo, come il nonno materno. Allora si usava dare ai nascituri il nome dei nonni, dando la priorità ai nonni paterni (il famoso patriarcato), ma Giuseppe non potette dare quello di suo padre in quanto anche lui si chiamava Giuseppe ed all'anagrafe non lo accettarono. Questa indecisione sul nome portò ad un ritardo nella trascrizione alla casa comunale del neonato, rendendolo più giovane di tre giorni, pertanto  fu dichiarato solo il primo aprile. 
Maddalena fu così costretta a fermarsi dal lavoro, doveva badare ed allattare il piccolo tanto atteso e voluto. Passarono i mesi e purtroppo, quel poco risparmiato cominciò a finire. Cominciarono di nuovo i sacrifici e gli stenti. Maddalena iniziò di nuovo a lavorare quando il piccolo aveva circa dieci mesi, le ragazzine che abitavano nel vicinato facevano a gara a chi teneva il piccolo Giacomo, lasciandola così libera per dedicare ore al lavoro in campagna.
Maddalena era stremata, dal mancato recupero fisico, ma la sua scorza dura di montanara, l'aiutò ad affrontare di nuovo il lavoro con nuova lena.
Quando riuscì a rimettere in sesto il suo fisico e ad impegnarsi nuovamente, si accorse di aspettare un altro bambino.
Questa volta, suo malgrado, dovette assentarsi dal lavoro molto prima. Raffaele, la moglie ed altri vicini li aiutarono molto in questo periodo difficile.
Ad ottobre del '58, aiutata dall'immancabile ostetrica tuttofare di Marigliano, venne al mondo Anna. Chioma fluente e nera, lineamenti paffuti, morbidi ed olivastri, buona come solo il pane sa esserlo. La classica bambolina da tenere sul comò, vestita di tulle bianco e le scarpette nere. Questa volta Giuseppe, soddisfatto, potè dare il nome di sua mamma alla sua seconda figlia.
Appena si rimise dal secondo parto, aiutata sempre dalle gentilissime ragazzine del vicinato, che si offrivano nel lavoro di baby sitter, Maddalena ritornò a lavorare.
La vita iniziò un tantino a sorridere, i bambini crescevano bene ed erano la gioia di tutti i vicini del cortile, la posizione economica non era quella delle migliori, ma si riusciva a vivere tranquillamente.
Questa condizione non durò a lungo. Purtroppo la televisione non arrivò ancora a casa della giovane famiglia, gli inverni erano lunghi e freddi, fu così che arrivò la notizia di un'altra gravidanza.
I troppi giorni di mancato lavoro iniziarono a pesare in modo molto concreto. Ormai tiravano avanti con la sola misera pensione di Giuseppe. 
Arrivò con il solleone, in piena estate, con le idi di Luglio del 1960 il terzo bambino, spalle larghe, corpicino allungato e scheletrico, gli occhi tendenti al verde che rimanevano quasi sempre chiusi e strizzati, spiccavano su tutto le grosse orecchie  a sventola. Lo chiamarono Aniello, il nome del primo fratello di Giuseppe, ma fin da subito fu appellato Nello.

Marigliano 1960
Nello Ricciardi





giovedì 14 marzo 2024

LA FORZA DEL DESTINO

LA SISTEMAZIONE DEI LIGURI-APUANI NEL SANNIO

I quarantamila Liguri, chiamati Bebiani o Corneliani, rispettivamente con i nomi dei consoli che li sconfissero e li deportarono nei nuovi territori a loro assegnati dal Senato di Roma, vennero deportati nelle aree libere del circondario che i romani avevano tolto ai Sanniti, da precedenti guerre. Un territorio montuoso, aspro e lontano dal mare.

Il primo luogo dove furono sistemati si trovava nella alta valle del Fiume Tammaro. Il primo villaggio costruito, probabilmente prese il nome di Bebio, che sarebbe dovuta diventare la loro capitale.

Un numero consistente di deportati rimase in quelle zone, dividendosi naturalmente più o meno in base alle tribù di appartenenza e di provenienza.

Ma altri, non abituati a rimanere in confini imposti ed a vivere in numerose comunità, cercarono con le proprie famiglie, terre libere da occupare e sfruttare, spingendosi verso il sud, discendendo la naturale valle del fiume Tammaro, fino ad arrivare nei pressi di Beneventum (odierna Benevento, capoluogo del Sannio) e quindi fino ad occupare alcuni territori dell’Irpinia. 

L'ARRIVO DEL SECONDO GRUPPO DEI SETTEMILA

Il secondo gruppo, in numero di circa settemila Liguri-Apuani, arrivò via mare circa un anno dopo, si presume che venne portato in un’area situata a sud di Beneventum, distribuendosi poi verso nord.  In questo gruppo c’era anche il capo Sengauno Gruza, con la sua compagna Garana e l’ultimo figlio rimasto Igiul. 

Gruza, con il suo clan si fermò non lontano da Beneventum, nei pressi della Via Appia. Scelse di costruire la sua prima dimora in una piccola pianura dominata e semi circondata da un promontorio poco più alto di un centinaio di metri del suo pianoro.

Quasi tutti quelli che erano appartenuti alla sua tribù, si fermarono con lui, facendo nascere un piccolo nucleo abitato. Tuttavia, lui ed i suoi uomini mantenevano l’istinto guerriero e proprio non riuscivano a non maneggiare le armi, così, una volta sistemate le famiglie, non avendo nemici da combattere in loco, si arruolarono in gran numero nell’esercito romano, per andare a combattere la terza guerra punica, con la speranza di essere ripagati in assegnazione di benefici e terre da coltivare.

Durante gli anni di assenza dei loro compagni guerrieri, le donne con i bambini si dedicarono chi al lavoro della terra e chi alla pastorizia ed allevamento di bestiame. In particolare Igiul, insieme alla mamma, in poco tempo misero insieme un certo numero di capi di armento. Igiul fin dalla tenera età imparò anche a macellare i suoi capi di bestiame, instaurando un proficuo commercio con le famiglie sannite e romane che condividevano con loro quel territorio.

Quando ritornarono dalla guerra, gli uomini apuani, trovarono la maggior parte delle famiglie ormai adattate alla vita in quel nuovo territorio, anche loro finirono per accettare quello stile di vita e col tempo finirono con il perdere la loro indole guerriera, iniziando a costruire piccoli villaggi di vita comune. 

LA TABULA ALIMENTARIA DI TRAIANO

I “Ligures”, così erano chiamati dai romani, stanziati nelle terre sannitiche, erano così poveri che l’imperatore Traiano, nel 101 d.C., istituì una fondazione alimentare per sostentare le famiglie con bambini: ogni villaggio avrebbe ricevuto un fondo da distribuire ai bisognosi. Tutto il regolamento, con il nome dei beneficiari, fu scritto su una sola lastra di bronzo, di m 1.20 per 1.70. 

Questa lastra, “Tabula Alimentaria di Traiano” fu trovata per caso, alla fine dell’ottocento, nel giardino di un privato a Macchia di Circello (probabile antica Bebio), nell’alto Sannio. La preziosa tavola è conservata presso il Museo nazionale di Roma.

I territori al nord, dei Liguri-Apuani rimasti nel frattempo vuoti, furono occupati da nuovi coloni, provenienti dall’esercito romano, soprattutto mercenari e collaboranti, pronti a formare famiglie ed a dedicarsi al lavoro dei campi ed alla manutenzione del territorio, di conseguenza a pagare nuove tasse all’Impero Romano. La nascente Lunigiana. Questi nuovi abitanti, ormai non più votati alla guerra, si integrarono presto con i pochi liguri-apuani superstiti locali, ripopolando le pianure e le montagne. Pertanto, in Lunigiana e nel Sannio, nuove popolazioni si adattarono e prosperarono per circa due millenni. 

LE BATTERIE MILITARI DEL CAPRIONE

All’inizio del 1900, nella località di Punta Bianca, presso Ameglia, fu costruita la batteria anti nave Dante De Lutti, armata con due cannoni di grosso calibro 152/45 ed un pezzo illuminante da 120/40. Invece a Montemarcello fu completata la Batteria Chiodo, armata con quattro obici da 280mm..  Nel territorio circostante le due batterie c’erano delle piazzole con armi antiaereo a difesa dei grossi pezzi antinave. Nell’area dell’attuale parcheggio a Montemarcello, vennero costruiti, dal genio militare, dei manufatti adibiti a caserme, per alloggio del personale militare, refettori e cucine per la logistica.

Il personale impiegato nelle rispettive batterie, apparteneva alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nella specialità di Artiglieria Marittima, che utilizzava ed addestrava il proprio personale all’utilizzo delle batterie per la difesa costiera del territorio italiano. Questi militari volontari, chiamati camice nere per l’indumento che indossavano come divisa, erano alle dipendenze della Regia Marina. 

A Montemarcello fino a poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, la Batteria Chiodo fu utilizzata come scuola di artiglieria. Nel 1940 la MVSN diventò MILMART, (Milizia di artiglieria marittima). 

A SAN MARTINO SANNITA NASCE LUIGI LEGGIERO

Nel 1917 a San Giacomo, frazione di San Martino Sannita, in provincia di Benevento, venne alla luce Luigi Leggiero. Ultimo di sette figli, due femmine e cinque maschi. La famiglia Leggiero si occupava da intere generazioni di macellazione e commercio di carne per alimentazione. Il territorio di San Giacomo, pur appartenendo ad altro comune, era parte integrante del più grande comune San Giorgio del Sannio, attraversato a metà dalla importantissima strada di grande comunicazione, l’antica Via Appia ed a circa dieci chilometri da Benevento. Qualcuno del posto, afferma che a circa tre chilometri da San Martino Sannita, si trova una piccola zona chiamata Garfagnana, situata più precisamente vicino alla frazione di Cucciano, dove è stato trovato un "Vico" d’epoca romana.

La posizione era strategicamente ottima per svolgere tutte le attività commerciali e soprattutto per quelle alimentari. Quando Gino, così veniva chiamato amorevolmente, l’ultimo rampollo della famiglia di macellai, arrivò a finire la scuola dell’obbligo, non ne volle proprio sapere di continuare gli studi e protetto dal fatto che fosse il più piccolo, riuscì anche a stare lontano dai compiti essenziali nell’aiutare la famiglia con il lavoro. Insomma gli piaceva la bella vita e si trastullava nel dolce far niente. 

Per la verità aveva scoperto, per caso, un’attività che gli piacque subito a prima vista. Quel gruppo di ragazzi, tutti sporchi di fango che correvano dietro, fino a contenderla, una palla ovale, lo fece innamorare. Non perse tempo e si buttò nella mischia, di nome e di fatto.

Purtroppo, però quel tipo di sport, il rugby, non era ancora catalogato in nessun campionato o federazione, almeno nel Sannio. Ma a loro non importava. Continuavano a giocare ed a correre nei campi improvvisati e rubati alle colture, sempre pieni di fango e di insidie. Poche regole e tanto rispetto, nonostante le botte ed i colpi presi in campo. Ma questa attività non poté durare a lungo, Gino riceveva giornalmente continui richiami all’ordine, imposti dai genitori, che lo invitavano ad una più partecipata vita familiare.

GINO PARTE PER IL SERVIZIO DI LEVA

Fu così che, arrivato alla soglia dei vent’anni, pur potendo usufruire del congedo illimitato, in quanto quinto figlio maschio, decise di non avvalersi di questa opportunità e scelse di rispondere alla chiamata per il servizio militare di leva. Nel 1937 fu chiamato a svolgere il servizio nelle file del C.R.E.M. (Corpo Regi Equipaggi Marina) ed inviato a far servizio presso il “Battaglione Artiglieria Costiera del Golfo Della Spezia” e quindi assegnato alla Batteria Dante De Lutti a Punta Bianca sita nel comune di Ameglia (SP). 

Luigi non aveva mai sentito né conosceva la provincia spezzina, tuttavia, pur lontano dal suo Sannio, era felice di venire il Liguria, non conoscendone i motivi. Aveva il dovere di servire la Patria per ventotto mesi, con il servizio obbligatorio di leva. Il posto gli piaceva, direttamente sul mare, le giornate passavano tranquille e la franchigia (permesso di libertà dal servizio, concesso ai militari dal proprio comando) la trascorreva nel piccolo borgo, non molto lontano, di Montemarcello. In questa piccola località sul promontorio del Caprione, si conoscevano tutti e Luigi ed i suoi commilitoni finirono di farsi accettare subito e bonariamente da tutti gli abitanti del paese.  Molti di loro fecero abbastanza facilmente amicizia con la popolazione ed in particolare, qualcuno di loro si fidanzò e si sposò, portando poi via le mogli nei loro posti di provenienza.

Dopo due anni di permanenza presso la batteria De Lutti, quando ormai era vicino il momento del congedo, l’Italia entrò in guerra e quindi tutti i militari furono trattenuti in servizio, sine die (senza conoscere la data del congedo).

Con lo scoppio della guerra, entrambe le batterie vennero modernizzate e potenziate. I marinai ed il personale della MILMART cominciarono a fare sul serio ed i tempi di franchigia vennero ridotti drasticamente. 

GINO CONOSCE LEDA

Spesso Gino, ormai così lo conoscevano anche i suoi camerati e gli amici del paese, veniva inviato, a prestare servizio giornaliero, presso la Batteria Chiodo, dove dava una mano nelle cucine, visto la sua capacità nel manipolare la carne da macello. Questo lo portò ad essere più vicino alle frequentazioni con la gente del paese. Fu proprio questa l’occasione in cui fece la conoscenza di una ragazza di un anno più grande di lui. La vedeva spesso seduta sulla porta di casa a ricamare o a cucire e da buon marinaio, non aveva disdegnato alla classica battutina di approccio. Gino era un bel ragazzo e sfoggiava un fisico atletico e Leda non rimase a lungo impassibile alle sue rimostranze. Decise così di frequentarlo per qualche pomeriggio in cui lui risultasse libero. 

Leda viveva in casa con la mamma ed il fratello. Il padre, Abramo Domenichini, lo aveva perso durante la prima guerra mondiale, non fece mai più ritorno a casa, probabilmente morto in Francia. La mamma sposò in seconde nozze Elia, il fratello di Abramo, ed ebbe con lui un secondo figlio, appunto il fratello che viveva con lei e la mamma. Ma anche il secondo marito la lasciò presto, venne affondato mentre era imbarcato su una nave della Regia Marina, nonostante si fosse salvato, la disgrazia lo segnò profondamente, non ritornò più sano di mente. Venne ricoverato presso un centro di salute mentale per quasi tutta la vita.

Gino ebbe amore e pietà allo stesso tempo, per questa donna e se ne innamorò fin da subito. Luigi Leggiero e Leda Domenichini, si sposarono nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.

Un anno dopo arrivò nella neo famiglia costituita il primo figlio, Francesco Abramo (meglio conosciuto come Franco). 

Nello stesso anno l’otto settembre Badoglio firmò l’armistizio per l’Italia. La maggior parte dei soldati italiani rimasero sbandati alla notizia, non sapendo più da chi ricevere ordini. Le due Batterie vennero assunte ed utilizzate dai soldati tedeschi che le fortificarono, per proteggere la nascente linea Gotica nell’alta Toscana, che aveva l’intento di fermare o comunque rallentare l’avanzata dei nuovi alleati italiani. Tuttavia i tedeschi, ormai in gran numero a Montemarcello, non furono mai violenti nei confronti della popolazione montemarcellese. Anzi, non disdegnavano, nel tempo libero di frequentare l’osteria e spesso venivano accompagnati la sera, molto allegri e  barcollanti in caserma.

Le Batterie e tutte le contraeree attorno a guardia dei cannoni, davano molto fastidio alle truppe alleate che cercavano di sfondare la linea gotica. Gli americani e gli inglesi cercarono in tutti i modi di bombardare, per rendere inutilizzabili, le due grandi postazioni, ma con scarsi risultati.

IL TRISTE GIORNO DI MONTEMARCELLO 13/12/1944

Si arrivò cosi ad un triste giorno per il paese e la sua popolazione.  Il 13 dicembre 1944, alcuni bombardieri, nell’intento di colpire la Batteria Chiodo e la De Lutti, sganciarono una bomba che cadde proprio al centro del borgo di Montemarcello. Il centro del paese fu distrutto, la popolazione tutta si mise a scavare per trovare eventuali superstiti. Alla fine contarono 47 morti civili. Nei giorni che seguirono il tragico evento, i paesani si rifugiarono verso i monti di Zanego e Tellaro. Occuparono tutti i rifugi possibili, quasi tutte casette di campagna, per lo più ruderi. Era dicembre e soffrirono tanto freddo e fame. Luigi, Leda ed il piccolo Franco ripararono a Tellaro presso parenti.

Ma anche questa fase tristissima della vita passò, lasciando un ricordo incancellabile nella mente. Ad aprile del quarantacinque la linea Gotica fu sfondata da parte degli alleati. I tedeschi si misero in fuga verso nord, non prima di lasciare distruzione dietro di loro. Ad essere demolite furono tutte le strutture delle caserme a Montemarcello, non rimase più nulla, solo masse di detriti.

Il ritorno alla normalità portò sacrifici e povertà da parte di tutti. Per fortuna Luigi venne assunto nelle maestranze dell’Arsenale della Spezia e la vita riprese con più fiducia.  Nel 1957, quando Franco aveva quattordici anni arrivò in famiglia anche una sorellina, Donatella.

Gino ha sempre partecipato attivamente alle attività del paese mettendo a disposizione il suo buon umore, la simpatia e la sua gentilezza innata e profondendo il suo amore per questo territorio. Se non fosse stato per la sua inflessione dialettale tipicamente campana, non sembrava per niente, caratterialmente, diverso dai Montemarcellesi. 

LA FORZA DEL DESTINO

Leda Domenichini se ne andò da questo mondo nel 1985. Gino rimase da solo in casa, con i due figli ed i quattro nipoti a coccolarlo. Luigi (Gino) Leggiero se ne andò dal Caprione, dal suo Sannio e da questo mondo nel 1994.

Poco tempo dopo, si racconta che in una calda giornata di primavera, in una delle tipiche formazioni della Caligo che aveva come al solito abbracciato il Caprione dal mare, alcuni abitanti del paese, che si trovavano nei pressi del cimitero di Montemarcello, videro danzare ad altezza d’uomo, due fiammelle libere, a similitudine di “fuochi fauti” (Secondo il folclore popolare, i fuochi fatui rappresentano le anime dei morti, che vagano fino a quando arriva il momento di essere liberati per l’aldilà). Le due fiammelle sparirono dalla loro vista quasi danzando, procedendo in direzione Bavognano. Nello stesso momento, un contadino giurò di aver visto tre di queste fiammelle, proprio nella località di Bavognano.  Anche queste tre fiammelle si allontanarono fluttuando andando in direzione sud. Nella stessa giornata, alla stessa ora, altre persone che si trovavano sul belvedere di Punta Corvo ad assistere dall’alto la densa Caligo, osservarono quattro fiammelle uguali, danzare nei pressi della Punta del Crò. Le quattro fiammelle, prima che la Caligo sparisse, sprofondarono giù verso il mare, infilandosi dentro di essa. Le videro poi, immediatamente uscire dalla grande foschia densa e bianca, velocemente dirette verso il cielo sereno oltremodo, dove scomparvero per sempre.

Una ricerca recente, ha confrontato il DNA di alcuni abitanti della Lunigiana e dell’area Apuana, confrontandolo con le popolazioni del Sannio. La ricerca ha messo in evidenza delle affinità sui geni del cromosoma “Y”.  Gli individui liguri hanno un marcatore che non esiste nel sud Italia, ma che ha un picco molto alto nelle zone dove furono deportati i Liguri-Apuani.

Il destino, purtroppo,  non lo si trova scritto da nessuna parte.

Montemarcello, marzo 2024

Nello Ricciardi

PRIMA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/02/i-sengauni-antico-popolo-ligure-apuano.html

SECONDA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/03/montemarcello.html








sabato 2 marzo 2024

MONTEMARCELLO

Continua dal Racconto: I Sengauni (Antico popolo Ligure-Apuano del Caprione)
Doverosa premessa: i fatti raccontati sono un lavoro della mia fantasia ed inseriti in avvenimenti storici veri, tratti in larga parte dagli scritti raccolti nel "Ab urbe condita" dello storico Tito Livio.

LA FAMIGLIA DI GRUZA
La serenità e la pace tornarono a farsi vive tra le tribù del Caprione. Le famiglie crescevano e prosperavano, gli uomini si dedicavano alle loro attività di sempre, il commercio dei loro prodotti della terra e di un particolare formaggio ovino, prodotto con mano esperta dalle loro donne. Il taglio degli alberi per produrre legna per tutti gli usi e la loro susseguente piantumazione. 

Nella famiglia del giovane e forte capo tribù Gruza, arrivarono in cinque anni tre figli maschi, Baugnan, Crò e Igiul. Tuttavia la giovane mamma e moglie del capo tribù, Garana, chiese a Gruza di poter prendere con loro una bimba rimasta orfana e che girovagava per i boschi del Caprione, scacciata da tutti. La bimba di nome Adel, fu accolta così in quella giovane famiglia benestante, potendo così passare le notti al coperto in una capanna, circondata dall’affetto dei tre fratellastri. Numerose furono le offerte fatte alla farfalla dorata che derivando dal Dio sole, veniva a trovarli nelle giornate calde d’estate, appoggiandosi per riposarsi su una roccia, dove gli sciamani avevano allestito un sacro tempio. Queste offerte venivano trasportate dalla farfalla che si occupava della trasmigrazione delle anime dei loro caduti, nel regno dei morti. 

Tuttavia, i più facinorosi, per non contraddire la loro indole guerriera, non disdegnavano di tanto in tanto qualche scorribanda tra gli accampamenti romani, che ormai erano fissi nella pianura ai piedi delle Apuane.

LA PRIMA DEPORTAZIONE

Non durò a lungo, purtroppo quella serenità. I romani erano molto infastiditi da quegli attacchi a sorpresa, che lasciavano sempre numerose perdite e saccheggi di materiali, oltre al fatto che avevano troppo bisogno di passare indenni da quei territori, per dare sempre più attenzione al crescere del loro impero nei territori del nord est. Organizzarono così una grandissima offensiva, cinque anni dopo quella bruciante sconfitta avvenuta ai piedi del Caprione. Questa volta due Consoli, Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo con le rispettive Legioni, non aspettarono l’inizio delle belle stagioni, per attaccare i nemici, come era in uso dell’esercito romano, ma marciarono verso i territori Apuani nel bel mezzo dell’inverno, prendendo così di sorpresa le varie tribù sparse sui monti. Era l’anno 181 a.C.. 

Diedero la caccia a tutte le tribù sparpagliandole ed occupando in pianta stabile i territori, bloccando i loro commerci. Ben presto i Liguri-Apuani dovettero arrendersi, ma questa volta non furono lasciati liberi sul posto. Furono raccolti in numero molto consistente, circa quarantamila e deportati definitivamente in un territorio lasciato libero dall’impero romano. I quarantamila deportati furono chiamati Liguri Bebiani e Liguri Corneliani, a secondo dei consoli che li scortarono nelle nuove terre. Vennero condotti nella lontana provincia campana di Benevento, un territorio diventato di proprietà dell’impero romano, dopo la sconfitta e la cacciata dei sanniti. 

Ogni famiglia ricevette la somma di 150 mila denari, che dovevano servire per avviare le loro necessarie attività di sopravvivenza nelle nuove terre, a loro assegnate direttamente in custodia.

Questa volta, la maggior parte delle tribù del Caprione scamparono alla cattura e comandati dall'ormai famoso guerriero Gruza iniziarono a scorribandare su e giù dalle colline ed a depredare i romani accampati presso la nascente colonia di Lunae.

I romani non potevano accettare queste continue e fastidiose perdite che rallentavano notevolmente la crescita della nascente colonia. 

LA SECONDA DEPORTAZIONE

Una nuova campagna militare fu avviata, un anno dopo dal console Flavio Flacco, che questa volta arrivò con navi lunghe dal mare, aggirando gli apuani con un’azione diversiva, salendo dal promontorio che scende sul mare da Punta Bianca. La famiglia di Gruza e la sua tribù fu sopraffatta e smembrata, nessuno si aspettava l’arrivo dalla parte più difficile ed impervia. I romani dal Caprione scesero a valle e mossero lungo la vallata del Magra, rastrellarono altri settemila Liguri-Apuani, comprese donne e bambini. Vennero anche loro, questa volta avviati via mare, con apposite grosse navi da trasporto e fatti sbarcare nel porto di Napoli, per incamminarsi così, anche loro nei territori sanniti tra le province di Avellino e Benevento.  Il territorio, svuotato da gran parte delle tribù locali, cominciò ad essere interessato fortemente dai romani. Qualche anno dopo, nel 177 a.C., fu fondato il “Portus Lunae”, con accampamenti fissi dell’esercito romano a presidio dell’importante scalo marittimo alla foce sinistra del fiume Magra. Molti terreni lasciati liberi dai liguri vennero assegnati in premio a circa duemila mercenari e soldati che avevano servito con ardore e fedeltà l’Impero Romano. 

IL RIPOPOLAMENTO

Il Caprione rimase quasi completamente svuotato. Solo qualche vecchio, giovani ragazzi e bambini, erano rimasti vivi per miracolo, non incappando negli ultimi attacchi e rastrellamenti avvenuti per opera dei legionari.

Tre di questi bambini, che cercavano di nutrirsi e vivere, stando alla larga dai nuovi coloni, c'erano Baugnan, Crò e la piccolissima Adel, i fratellastri figli di Gruza e Garana. Nonostante avessero girovagato in lungo e largo tra le cime appiattite del Caprione, chiesto ai vari superstiti che incontravano, non v’era traccia dei genitori e dell’altro fratello, Igiul. Non potevano sapere che i soldati, avendo conosciuto Gruza come uno di capi, lo tennero legato, bendato e sotto stretta sorveglianza, allo scopo di non farlo tornare indietro. La moglie Garana, riuscì a restargli vicino, però si perse i tre figli portando con sé solo il più piccolo dei bambini.

I coloni romani per una ventina di anni, nonostante la maggior crescita ed il ripopolamento della zona della nuova colonia romana, dovettero continuamente contrastare le rapide e continue incursioni effettuate dalle bande di giovani Liguri-Apuani che guidati ed addestrati da qualche vecchio guerriero riuscito a scampare alla deportazione, riorganizzandosi nei boschi e sulle alture.

Baugnan ed i fratelli, non rimasero avulsi da questi fatti, anzi, presto Crò mostrò grandi doti nel combattere e nel comando, diventando a sua volta il sostituto naturale di suo padre Gruza, di cui tutti avevano rispetto. I tre, rimasti soli, furono adottati da una donna di nome Marrana, che viveva in solitudine, nella località che la gente indicava con il suo stesso nome,  appunto Marrana, situata all’estremità sud del Caprione. La vecchia era considerata una matta e con particolari doti spiritistiche. Sul Caprione c’erano numerose sorgenti d’acqua, che andavano a terminare la loro corsa in grotte ed anfratti di origine carsiche. Una di queste fonti era proprio nei pressi della Marrana, dove la strega teneva i suoi riti propiziatori. Al contrario del fratello diventato un guerriero, Baugnan e Adel erano più portati alla pastorizia ed alla vita tranquilla. Finivano per rimanere spesso per lungo tempo da soli, visto le continue peripezie del fratello Crò, impegnato con le sue bande di guerrieri a dar fastidio ai coloni romani. Il fatto di vivere insieme ed in solitudine, li portò a condividere molte cose, oltre alla fratellanza, di cui sapevano la non naturalità. Il passo fu breve, impararono ad aiutarsi a vicenda e quindi ad amarsi, spinti anche dai consigli della matta della Marrana, che li voleva insieme ed aveva benedetto la loro unione.

Passò circa un anno da quei giorni, quando la vecchia sciamana accompagnò Adel, vistosamente incinta, ed il fratello e compagno Baugnan, nei pressi di un’altra grande sorgente, non molto lontano dalla Marrana. 

Il luogo, ritenuto magico era conosciuto da sempre da tutti gli abitanti del Caprione. Quasi tutte le donne ritenute di un certo livello nella società, veniva accompagnate a partorire in quel posto. 

Le cascate delle Fate o sorgente della Fada, come era chiamata in antichità, era presidiata da alcuni guerrieri che la preservavano da chi volesse intaccare la sacralità del luogo. Lungo il percorso si incontravano varie streghe, o fate o sciamane, che aiutavano l’ingresso delle partorienti. Il padre dei nascituri doveva lasciare in dono al luogo, come offerta, un segno di devozione, consistente in una incisione su una pietra da lasciare in un luogo ben esposta al dio sole per almeno una stagione. Baugnan poté arrivare fino all’ultima piccola pozza, prima di lasciare Adel incamminarsi, accompagnata da tre fate e da Marrana, nella grotta semibuia ed umida. Si addentrò per la prima volta in questo luogo magico, fino ad arrivare sotto una cascata alta circa trenta metri. C’erano attorno all’ultima pozza coperta da una leggera nebbiolina, un numero imprecisato di torce accese che rendevano l’ambiente carico di odori speziati. La fecero immergere nell’acqua non più alta di mezzo metro e due delle accompagnatrici si misero ai lati, tenendola per le braccia. La fecero accovacciare lentamente, quando ad un certo punto dopo qualche urlo di dolore un piccolo virgulto, annaspando cercò di assaporare la sua prima aria da respirare. Adel allungò subito le braccia per prendere la creatura dall’acqua, ma le vecchie fate la tennero ferma, un’altra testolina emerse da quell’acqua intrisa di sangue e liquidi umorali. Erano due gemelli, un maschio ed una femmina. Adel venne accompagnata fuori dall’acqua, ripulita e rifocillata. I piccolissimi nuovi Liguri-Apuani vennero puliti ed avvolti in fasce e consegnati all’incredulo padre.

Quella sera tornarono nella loro capanna presso Fonti, quando rimasero soli si guardarono negli occhi e si strinsero delicatamente, tenendo i piccolini tra di loro. Baugnan le disse mormorando, se sei d’accordo li chiameremo Gruza e Garana, in onore ed a ricordo dei nostri genitori.

Il giorno dopo, Baugnan si recò da solo presso il sito magico della Farfalla dorata, li incontrò il fratello Crò, avvisato da Marrana. Si abbracciarono e Crò giurò di proteggere per sempre i suoi due nipoti. Baugnan si mise subito al lavoro e con abilità e sveltezza incise su di una pietra arenaria, scelta per l’occasione, il suo dono per il Dio Sole. Disegnò due piccoli  bambini accompagnati da un pennato al centro, l’antica arma a forma di roncola prediletta dal Dio Pen. Il pennato aveva lo scopo di proteggere le due nuove vite. L’offerta venne poi portata e collocata nei pressi della grotta delle Fate.

LA NASCITA DI MONTEMARCELLO

Purtroppo non durò a lungo la loro felicità. Il Console Marco Claudio Marcello fu inviato nei pressi del loro territorio, per chiudere una volta per tutte la questione dei Liguri-Apuani e renderli finalmente inoffensivi. Era l'anno 155a.C..

Il Console salì sul Caprione, ormai quasi deserto, se non popolato da pochi superstiti, per lo più vecchi o bambini o comunque non più attivi nel combattere. Tutti i guerrieri si erano trasferiti sui monti e le Alpi. 

I romani costruirono, per la prima volta, il loro accampamento militare in fondo al promontorio, dove potevano ben osservare il mare, la vallata ed i monti di fronte. Di quella battaglia cruenta dominata in lungo e largo dalle legioni, non vennero fatti prigionieri. Baugnan riuscì a portare in salvo la sua famiglia, nascondendosi in un anfratto che arrivava fin quasi alla sottostante spiaggia. Di suo fratello Crò non ebbero più notizie. Qualcuno disse loro che era stato catturato e buttato giù da un altissimo dirupo che cadeva direttamente sul mare.Toccò a questa giovane coppia ed ai loro due piccoli figli, ridare numeri e continuità al popolo Ligure del Caprione.

I romani dopo la battaglia lasciarono il campo, costruito come di solito attorno ad un "cardo ed un decumano" ed una ragnatela di piccole strade parallele e perpendicolari, Il Castrum Romano.

Nacque da quel Castrum, voluto dal console Marcello, ancora visibile oggi nelle sue strade del Borgo, il paese di Montemarcello.

…..continua

Marzo 2024

Aniello Ricciardi

PRIMA PARTE:

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TERZA PARTE:

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venerdì 23 febbraio 2024

I SENGAUNI (Antico popolo Ligure-Apuano del Caprione)


Doverosa premessa: i fatti raccontati sono un lavoro della mia fantasia ed inseriti in avvenimenti storici veri, tratti in larga parte dagli scritti raccolti nel "Ab urbe condita" dello storico Tito Livio.

I SENGAUNI

I Liguri-Apuani, probabilmente uno dei popoli più antichi della Penisola italica, abitavano nel vasto territorio, compreso tra l’alta Gallia alle Alpi Apuani fino al fiume Serchio. Vivevano in una vasta zona libera e senza confini imposti. 

Non avevano un vero capo dichiarato e si riunivano in moltissime tribù locali, dandosi spesso manforte tra i vari clan. In particolare, il promontorio del Caprione, che si distende tra il mare dei Liguri e la sponda destra del fiume Magra, così come riprodotto sulla " Tavola Peutigenaria, Pars IV, Segmentum IV" era popolato dalla tribù dei Sengauni, appartenenti alla grande famiglia dei Liguri-Apuani.

I romani, che da anni battagliavano contro i Liguri-Apuani, tuttavia senza riuscire a sottometterli, dicevano che era un popolo di uomini e donne valenti guerrieri, le donne combattevano come gli uomini, spietate e feroci come fiere.

Correva l’anno 187 a.C., quando i romani inviarono, due consoli a capo delle loro legioni a sottomettere definitivamente i Liguri-Apuani. Queste popolazioni cominciarono ad essere un grosso problema per Roma, in quanto impedivano il naturale proseguimento di accrescimento e quindi i collegamenti con la Gallia e l’Iberia. 

Per verità furono cercati diversi accordi con le singole tribù, ma proprio per il fatto che non avevano un capo unico, non si riusciva a trovare la pace, che voleva anche dire la sottomissione ai romani. 

La base avanzata della colonia di Roma si attestava nei pressi del fiume Arno a Pisa e già i romani iniziavano a costruire nuova strada per collegare l’estuario del fiume Magra, ritenuto strategicamente importantissimo per i collegamenti marittimi con le coste galliche ed iberiche.

L'esercito, con a capo i Consoli Flaminio e Lapido, riuscì a sconfiggere diverse tribù di Apuani, cacciandoli dai loro castellari, disperdendoli nei boschi delle vette apuane e verso l’entroterra ligure. Tuttavia la popolazione rimasta, non ne voleva sapere di sottomettersi continuando le loro scorribande contro i coloni romani che cercavano di insediarsi nella piana del Magra.

Nella località della cima Rocchetta, la più alta del Caprione, con i suoi quattrocento metri di altezza, viveva in solitudine un vecchio sengauno, Piotr. 

Nessuno della sua tribù era a conoscenza del motivo di questo suo allontanamento, avvenuto in giovane età. Piotr non parlava o meglio non si faceva capire, in quanto sillabava poche parole ed in malo modo. Non faceva del male a nessuno e viveva immerso nella natura, insieme agli animali selvatici. Inizialmente si faceva vedere, di tanto in tanto, da qualche parente più fidato, poi con il tempo, anche loro persero le sue tracce.

Piotr non stava più bene fisicamente e spesso si lasciava andare in dormite che risultavano terapeutiche per i suoi malanni, questi ultimi dovuti soprattutto all’età avanzata ed al cibarsi di quel poco che trovava in natura. 

LA CALIGO

Fu proprio in una bella giornata tiepida di primavera, quando il clima cominciava a diventare gradevole, prendendo il posto alle pungenti giornate di freddo, che Piotr si svegliò di soprassalto, annusando qualcosa di strano ed insolito nell’aria. Quando aprì gli occhi, ebbe la sensazione di stare su di un’isola deserta, staccata da tutto il Caprione. Il suo monte galleggiava su di una enorme nube bianca ovattata e sopra di lui un bel sole che sprigionava un caldo tepore.

Piotr si trovava nel bel mezzo del “caligo”.

La caligo era un fenomeno atmosferico, tipico di quei luoghi, si poteva vederlo un paio di volte l’anno, nel cambio di stagione. I vecchi e gli sciamani conoscevano molto bene questo scherzo della natura. Si verificava, di solito, durante la primavera per la concomitanza di condizioni molto particolari. Quando il mare ancora freddo viene baciato dall’aria calda riscaldata a dovere dal sole, fa evaporare l’acqua formando microscopiche goccioline che vengono spinte sulla costa da una debole brezza proveniente dal sud. 
Il risultato è un banco di fitta nebbia che si ferma a pochi metri d’altezza, senza scavallare le cime più alte, lasciando queste ultime nel cielo azzurro assolato.

Gli sciamani della tribù collegavano il fenomeno agli spiriti dell’aldilà. Questi salivano dal mare per andare a prendere le anime dei defunti incastrate ancora alla vita terrena e quindi in una condizione di tormento. Pertanto gli spiriti utilizzavano la caligo per nascondersi ai vivi, così da portare le nuove anime in mare senza essere visti.

Anche Piotr conosceva bene la caligo e la sua antica storia, ma il suo intuito da uomo solitario lo portò a preoccuparsi di più per gli strani e forti rumori, come boati, che provenivano dal fiume, attraversando quella nebbia fitta ed intensa.

Aveva intuito un immenso pericolo, tale da imporgli di lasciare il suo eremo per correre ad avvisare la sua tribù dell’imminente pericolo, non prima però di spingersi a percorrere un canalone che declinava verso il sottostante Fiume Magra, per avvicinarsi il più possibile verso quel gran frastuono per vedere da vicino la realtà degli eventi. 

Non volle credere ai suoi occhi. Migliaia di soldati e cavalieri romani erano accampati sulla sponda opposta del fiume. Erano tutti intenti a riempire l’alveo, dove questo risultava più basso, con detriti e terra, trasportati appositamente con grossi carri. L’intento era quello di attraversare facilmente e prima possibile il fiume per dirigersi sul Caprione ed invaderlo, allo scopo di occupare questo meraviglioso osservatorio sulla vallata del Magra e sul mare.

Ritornò indietro di corsa, nonostante gli acciacchi, ma era una questione di vita o di morte, si diresse alle pendici del monte Murlo, fino a scavallarlo e poi si diresse giù dal lato opposto, verso il mare.

Incontrò tutto il suo popolo, accampato sulle piccole pianure verso il mare, nascosto dalla caligo.

Notò che c’era tanta gente a lui sconosciuta e che parlavano dialetti strani. Gli spiegarono che i capi dei Sengauni, tra cui il giovanissimo ed astuto Gruza, aveva riunito negli ultimi giorni alcune tribù Apuane, spingendosi fino a Pontremoli. Avevano intuito che presto sarebbero stati attaccati, in quanto avevano notato, nei giorni precedenti, durante le loro scorribande nell’avamposto romano della nascente Lunae, continui arrivi di legionari romani, scorgendo anche la presenza del Console Quinto Marcio Filippo.

Gruza ringraziò di cuore Piotr, che sparì subito, riprendendo la strada della sua solitudine.  Furono inviati dei velocissimi giovani ad accendere numerose torce e fuochi sulle cime più alte del Caprione, perché si vedessero lontano e sulle vicine Apuane e rimanendo quasi invisibili a chi rimaneva ai piedi della caligo.

Con questi segnali avvisarono del possibile attacco, le altre tribù  Liguri-Apuani, sia nelle montagne che verso il promontorio opposto al mare.

Oltre alle numerose tribù Apuane, già presenti sul Caprione, fin dai giorni precedenti, altre si misero in marcia per andare in soccorso ai fratelli Sengauni. Addirittura molti clan appartenenti ai Friniati, provenienti dal vicino Appennino Reggiano-Modenese, si mossero per accorrere nella vicina terra amica, per sconfiggere gli odiati romani, attaccandoli alle spalle.

La caligo si esaurì nella stessa giornata, cosicché le varie sentinelle Sengaune, per la maggior parte donne, disseminate lungo i pendii che guardavano verso il sottostante fiume, controllavano l’avanzamento dei lavori nel fiume ed il continuo arrivo di truppe legionarie nell’accampamento posto nella sottostante grossa piana di Luni, per carpirne il momento dell’attacco

L' ATTACCO AL CAPRIONE

Una di queste giovanissime sentinelle si chiamava Garana, era la compagna del giovane Gruza, lasciato a riposare nella sua semplice abitazione, costruita su una base di pietra, realizzata con legno, frasche e tenuta insieme dall’argilla. All’alba cominciò a piovere e l’aria si era trasformata dal caldo dei giorni prima a fredda e pungente.

Garana si accorse prima di tutte che il Console Quinto Marcio Filippo, con le proprie insegne e vessili, aveva iniziato la marcia di avvicinamento, per attraversare il fiume. Erano circa ottomila legionari, a piedi ed a cavallo. 

Immediatamente inviò le staffette, formate da ragazzi giovanissimi, ad avvisare tutti, guerrieri, uomini e donne, armati di tutto punto.

Capirono che i romani avevano pianificato di salire il Caprione attraverso uno dei suoi canaloni impervi.

Li sentirono bene quando i legionari impegnarono il canalone, mentre battevano con le spade ed i giavellotti sui loro grossi scudi, allo scopo di intimorire gli avversari. Non fu una buona scelta strategica per il console. Le tribù locali ed i loro alleati li aspettarono quasi in cima al canalone e li assaltarono attaccandoli dai fianchi.

Non si mise bene per i legionari, non abituati a combattere in quel modo, forse il console non si aspettava una difesa così preparata ed accanita. La battaglia ebbe un impeto violento numerose vittime si potevano contare da entrambe le parti. Quella di passare dentro quell’impervio canalone, fu per il console una scelta impietosa. I cavalieri maledissero i loro cavalli che non riuscivano a salire nel canalone, i soldati non potevano maneggiare al meglio le loro lunghe lance che si impigliavano nella folta boscaglia, le pesanti corazze indossate impediva loro l’agilità necessaria a muoversi in quegli anfratti, che diventavano invece ottimi nascondigli per i Liguri, che erano alleggeriti da qualsiasi corazze o scudi ed utilizzavano corte spade larghe ed appuntite, ma soprattutto l'arma tipica degli apuani, il pennato. Ma quando il console decise di ordinare la ritirata, trovo la strada dietro di sé sbarrata dalle tribù Liguri-Apuane provenienti dai monti e dai Friniati accorsi a loro volta per dar man forte. I legionari furono presto sterminati. Dal canalone il sangue scorreva a fiotti verso valle in direzione fiume Magra, macchiando e riempendo le sue acque tranquille di rosso carminio. 

Restarono uccisi sul campo non meno di quattromila uomini e vennero perse tre insegne delle legioni, undici insegne degli alleati e la maggior parte delle armi mollate dai Romani in fuga, mentre il resto dell’esercito si ritirò nel più completo disordine. Si disse che "si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire".

Da quel giorno, anno 186 a.C., il luogo del disastro fu chiamato "Saltus Marcius" cioè dove Marcio era precipitato, ovvero aveva perso il suo nome glorioso, ai nostri giorni diventato “Canale del Marzo”.

Nei giorni successivi, le tribù esauste, si adoperarono alla pulizia del campo di battaglia. I numerosi corpi dei nemici, vennero accatastati presso il fiume e bruciati sul posto.

I corpi degli Apui vennero portati via dalle proprie tribù. Con grande stupore venne trovato, tra i tanti anche il corpo del povero Piotr. Nessuno lo sapeva, ma era accorso anche lui, per quello che poteva fare, per dare una mano a difendere la sua terra, il suo Caprione.

Piotr, insieme agli eroi Sengauni caduti in battaglia, vennero cremati. Le loro ceneri vennero raccolte in urne di terracotta con coperchio e chiuse dentro una cassetta di pietra che venivano conficcate nel terreno coperte da una ulteriore piastra. Una di queste necropoli si trovava nella piana di Ameglia. 

Continua.......

febbraio 2024

Nello Ricciardi

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sabato 20 gennaio 2024

IL CUORE OLTRE L'OSTACOLO. UN CANOISTA INCURSORE

Nel 1992, prestavo servizio, in qualità di istruttore di educazione fisica militare presso il Centro Sportivo della Prima Divisione Navale e del Comando Dragaggio, situato all’interno dell’Arsenale Marina Militare Della Spezia. 
Mi occupavo, in particolare, della manutenzione degli impianti sportivi, ubicati all’interno del comprensorio e dell’organizzazione dell’attività sportiva, per il  mantenimento fisico lo svago a favore del personale militare imbarcato sulle navi della locale Squadra Navale.  
Un giorno mi capitò di conoscere un giovane marinaio, tra i tanti, che fin dai primi approcci valutai ben diverso da tutti i militari che frequentavano abitualmente le strutture sportive del centro. 
Marco, così si chiamava, era stato chiamato a svolgere il servizio di leva militare obbligatoria, sulla Fregata Scirocco, nave della Marina, con la qualifica di elettromeccanico. Era uno dei pochi, se non l’unico, a frequentare gli impianti sportivi, non solo per passare qualche ora con i piedi a terra, ma per il vero piacere di dedicarsi al mantenimento della forma fisica. 
Lo seguivamo tutti con attenzione e meraviglia, quando veniva in palestra. Marco sfoggiava un fisico scolpito ed adamantino come pochissimi in circolazione, non di quelli a cui eravamo abituati a vedere, costruiti artificiosamente in palestra. Ostentava passione e insolita voglia di allenarsi al di fuori di qualsiasi schema. 
Un giorno, ci chiese di utilizzare un vecchio kayak olimpico in legno, tutto impolverato e conservato in pessime condizioni, in un capannone annesso alla palestra. Facemmo presente che l’imbarcazione era vecchissima ed in attesa di essere distrutta, in quanto non più confacente allo scopo per cui era stata creata. Insistette affinché acconsentissimo a quella semplice voglia di rimettere il kayak funzionante in acqua.  
Ricevuto il nostro consenso, con tutti i dubbi del caso, tutti i pomeriggi, cominciò a venire presso il centro dopo un’oretta di corsa e qualche esercizio in palestra, si dedicò a ripulire ed a sistemare con vera devozione, come fosse una reliquia religiosa, la vecchia imbarcazione. Tappò tutti i buchi con la vetroresina, riparò la pedaliera e le slitte di alloggio del seggiolino. 
Lavorava con destrezza e tecniche proprie di un esperto artigiano. Noi lo seguivamo meravigliati, con poca invadenza e tutta la disponibilità necessaria a procurare il materiale indispensabile al restauro. 
Riuscimmo a trovare una vecchia pagaia, chiedendola in prestito ad un altro Centro Sportivo della Marina. Non fu molto soddisfatto del tipo di attrezzo procurato, secondo lui molto datata e non adatta al tipo di kayak, ma si accontentò suo malgrado. 
Arrivò il giorno fatidico e tanto anelato, per il varo dell’imbarcazione ristrutturata di tutto punto e provata con riempimenti di acqua all’interno dello scafo, per assicurarsi di eventuali infiltrazioni. Andammo verso la banchina scali, costruita per fare ormeggiare le navi, pertanto l’altezza sul livello del mare non era proprio ottimale. Cercò e trovò un pezzo di banchina che aveva un parabordo di legno molto grosso, lo utilizzò per scenderci sopra. Era ancora abbastanza alto e pericoloso, ma non se ne preoccupò. 
Marco appoggiò il kayak in acqua, quasi lanciandolo, subito traballò e sembrava volersi capovolgere, lo tenne fermo abilmente con la pagaia e con un balzo felino saltò nel pozzetto del kayak, si allungò con le gambe nella prua affusolata e si sedette al centro del pozzetto, tenendosi al parabordo per diminuire l’ondulazione del natante, con una poderosa spinta si allontanò dalla banchina e prese il largo, con un equilibrio assai precario, secondo noi, ma senza alcun problema per lui. Cominciò fin da subito a mulinare in acqua le pale della sua pagaia e si diresse fuori dalle ostruzioni, con una velocità per noi davvero impressionante. 
Quando rientrò era visibilmente soddisfatto e felice, non perse tempo per chiedere di poter utilizzare tutti i giorni quella imbarcazione per integrare i suoi allenamenti giornalieri. 
Lo invitai in ufficio per una chiacchierata, volevo sapere molto di più da lui. 
Marco proveniva da Policastro, un paesino del meraviglioso Cilento, in provincia di Salerno, incastonato sulle rive dell’omonimo e delizioso Golfo. Si era appena diplomato ed era partito per il servizio di leva in Marina. 
Ci disse che era in attesa di essere chiamato a svolgere il concorso per entrare nella Forza Armata in qualità di sottufficiale perché fin da piccolo aveva sentito forte l’amore per il mare. 
Andava in canoa fin dalla tenera età, in questo piccolo e tranquillo luogo turistico del Cilento, dove la maggior parte dei ragazzini era dedito a questa attività sportiva, grazie alla presenza del fiume Bussento e del suo estuario. 
Ci raccontò che da ragazzini, presso la foce di quel fiume, si era formato un piccolo gruppo di coetanei, che sotto la guida di alcuni appassionati e precursori di questo sport, svolgevano attività a favore dei turisti, accompagnandoli nelle escursioni guidate in mare e nel fiume, ricavandone il giusto sostentamento per approcciare all'attività agonistica fatta in trasferta
Diventò ben presto un bravissimo e forte canoista fin dalle categorie giovanili, come tanti dei suoi compagni di squadra, la sua passione per questo duro e difficile sport lo portò ben presto a vestire la maglia azzurra della nazionale italiana, vincendo una medaglia d’argento ai Campionati Mondiali Junior disputati a Grisons-Svizzera, nel 1990, nel K1 a squadre con Fabio Nosella ed Eros Zanini.
Tutto questo, lo raccontava senza mai far trasparire una sorta di vanagloria, bensì rimanendo sempre umile, semplice nelle sue risposte e nel suo raccontarsi, spronato dalle nostre innumerevoli domande poste con nostra grande meraviglia e curiosità.
Alla fine di quel lungo colloquio, mi chiese se ci fosse un posto per allenarsi all’aperto, in quanto la palestra, non avendo grandi aerazione, nonché con scarse e datate attrezzatura, rimaneva scomodissima soprattutto nelle ore calde del pomeriggio.
Gli feci presente che era stato costruita da poco una palestra nel verde, solo che si trovava in cima al Monte Parodi, a circa settecento metri di altitudine e per arrivarci doveva chiedere quale autobus avrebbe potuto prendere, qualora ce ne fosse uno. Non era ancora pratico del territorio spezzino, mi ringraziò e mi disse che si sarebbe informato su come arrivarci comodamente.
Era di venerdì e non lo vidi il sabato e la domenica. 
Il lunedì pomeriggio, arrivò presso il centro sportivo, felice e pronto per scendere in canoa, gli chiesi se avesse trovato la palestra nel verde. Certo, mi rispose, è un bellissimo posto e ci tornerò tutte le volte che avrò tempo per arrivarci. 
Gli chiesi con curiosità che autobus avesse preso, mi rispose tranquillamente, nessun autobus, ho chiesto all’edicolante fuori dall’Arsenale, mi ha fornito una carta dei sentieri, sono partito di corsa, sono arrivato sul Parodi, ho fatto tutto il percorso, indicato ottimamente sulle attrezzature e dopo, sempre di corsa, sono rientrato a bordo. Rimasi sorpresamene stupito!
Gli chiesi: - Perché non provi ad andare a fare l’Incursore al Varignano? 
Io penso che tu abbia qualche buona qualità per riuscirci.
Mi rispose con pacatezza, ci starei pensando, ma prima devo vincere il concorso per essere ammesso al corso sottufficiali, una cosa per volta. 
Non passò molto tempo, che Marco ci mise al corrente che lo avevano chiamato a Taranto per frequentare il corso sottufficiali, tanto anelato. Ci congratulammo con lui e gli facemmo le solite raccomandazioni da esperti fratelli maggiori.
Passarono due anni circa, quando rivedemmo Marco di nuovo al Centro Sportivo. 
Ci mise al corrente di come era andato tutto il corso e che lo avevano ridestinato su una nave Alla Spezia, la Portaerei Garibaldi, in qualità di specialista delle comunicazioni e scoperta, ma la notizia, per noi più importante, fu che aveva formulato anche la sua richiesta per essere ammesso alle prove, per frequentare il 46° corso Incursori.
Per noi, che ormai conoscevamo le ottime qualità del ragazzo, fu una notizia del tutto positiva e non avevamo nessun timore o dubbi sulla sua possibile riuscita.
Per tutto l’anno della frequenza del corso incursori, lui non lo sapeva, ma ci tenevamo informati sull’andamento tramite i nostri colleghi al Varignano. Le notizie erano sempre le solite, ragazzo serio, molto preparato, determinato, motivatissimo ed impeccabile.
In quasi tutta la sua onorata carriera, l’ho sempre seguito, seppur da lontano. 
Alla fine del corso, Marco ottenne il tanto ambito Basco Verde e si brevettò Incursore della Marina Militare. 
Qualche volta, quando quei rari momenti di poco impegno lavorativo, gli consentivano di avere un fine settimana libero,  sono riuscito a portarlo a fare qualche gara di canoa. Ha sempre fatto bellissime figure nelle sue performance, dimostrando sempre di non perdere le abilità acquisite e prestandosi volentieri anche a dare preziosi consigli ai nostri giovani.
Ha avuto una carriera encomiabile all’interno del Gruppo Incursori del Varignano, guadagnando vivissimi apprezzamenti anche all’estero, quando ha spesso collaborato con altri reparti speciali.
Ultimamente, avendo accumulato gli anni necessari di servizio, ha chiesto di essere messo a riposo dalla Marina Militare e gli è stata concessa la relativa pensione. 
Nel corso della sua meravigliosa carriera da Incursore, è stato insignito di una Medaglia d’Oro al merito di Marina con la seguente motivazione:
“Al Primo Maresciallo Incursore Paracadutista, Marco Arenare, Soccorritore militare, nel corso dell'operazione a «Maashin IV ª» a supporto delle forze di sicurezza afghane, durante violenti combattimenti con elementi ostili, accortosi che uno dei suoi commilitoni veniva ferito gravemente, con straordinario coraggio, spiccato sprezzo del pericolo ed eccezionale perizia, lo raggiungeva mettendo prima in sicurezza la zona e poi prestandogli le cure del caso. Con la sua azione forniva un contributo determinante per evitare vittime civili e ulteriori feriti tra i commilitoni. Splendida figura di Sottufficiale che, con il suo comportamento esemplare e generoso, ha contribuito a dare lustro alle Forze Armate italiane in un contesto multinazionale. Herat (Afghanistan)”.  (Gazzetta ufficiale n. 125 del 30 maggio 2013)

Ed una Medaglia di Bronzo al valore di Marina con la seguente motivazione:
“Al Primo Maresciallo incursore paracadutista Marco Arenare, Sottufficiale Vice Comandante di Distaccamento, partecipava a un'operazione di antiterrorismo volta alla liberazione di ostaggi nella città di Herat.  In tale azione dimostrava grande coraggio, sangue freddo ed indiscusse capacità e abilità professionali, oltre ad iniziativa e prontezza nel porre in atto ogni accortezza per il positivo esito dell'operazione. Grazie al suo mirabile comportamento e al prezioso contributo fornito, veniva portata a termine la liberazione di trentuno ostaggi tra cui sei italiani. Splendida figura di Sottufficiale che, con il suo comportamento esemplare e generoso, ha contribuito a dare lustro alle Forze Armate italiane in un contesto multinazionale.  Herat (Afghanistan)”.  (Gazzetta Ufficiale n. 85 del 11 gennaio 2014)

Dalle storie vissute con semplicità e determinazione, ma intrise di passione, nascono le motivazioni più belle per ricevere le migliori soddisfazioni nel corso della vita.

Gennaio 2024
Nello Ricciardi