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domenica 30 ottobre 2016

CICCIOBELLO

Il Varignano mi catturò. Dopo le scrupolosissime visite mediche, a cui fui sottoposto presso l’ospedale militare di La Spezia, ed i tre giorni di faticosissimi test fisici, fui dichiarato idoneo a provare a frequentare il corso Incursori della Marina Militare, appunto presso la caserma del Varignano.
Eravamo in cinquantotto ragazzi, con età media di venti anni, che superammo tutte le prove previste.
Ci alloggiarono tutti in uno stanzone enorme, circondato da grigi armadietti metallici. Al centro dell’enorme camerone vi erano due file da venti letti a castello, i restanti diciotto trovarono posto in un camerone attiguo, leggermente più piccolo, diviso da grossi tendoni pesanti blue scuro.
Quest’ultimo camerone aveva quattro grossi finestroni che affacciavano nel piazzale principale. Dalle soglie superiori delle finestre partivano in obliquo verso il sottostante selciato, delle draglie (funi) di acciaio fasciate con della cima di canapa. Questo era il mezzo per salire nei cameroni dopo le attività. Le scale, che pure esistevano si potevano utilizzare solo se autorizzati.
Iniziai a svuotare due enormi zaini contenente tutto il vestiario consegnatoci per affrontare le varie fasi del corso. Fu un’impresa veramente difficile, sistemare tutto per bene nell’angusto armadietto assegnato.
La mia preoccupazione maggiore era rivolta ai pensieri che mi frullavano nella mente.
Come potevo affrontare un corso simile della durata di un anno, fatto principalmente di impegno fisico e sacrificio mentale?
Come potevo sopportare tutto quello che mi si sarebbe prospettato, fin dal giorno dopo, considerando la mia proverbiale pinguedine che mi aveva portato a pesare novantasei chili. Oltretutto avevo saputo, da un maresciallo che conoscevo, i risultati dei miei test fisici.
Prova di velocità cento metri: appena sufficiente; prova sui quattrocento metri: appena sufficiente; prova sui duemila metri: da rivedere; prova di salita alla fune: superata con riserva; prova di salita alla pertica: cinquanta per cento.
Giudizio finale: ammesso con riserve.
Non ce l’avrei mai fatta, ma ormai ero lì e non avevo nulla da perdere. Ogni giorno era buono per tornarmene a bordo della mia nave.
La sera, la stanchezza si impadronì del mio corpo e mi immobilizzò nel letto, ma la notte passò presto, troppo presto.
Alle cinque e cinquanta, ora della sveglia mattutina, l’allievo di guardia svegliò tutti. Avevamo solo dieci minuti per lavarci, sistemarci per bene, fare il letto in modo perfetto ed ordinare tutto nell’armadio. Nulla doveva essere lasciato fuori in vista.
Alle sei in punto, inquadrati e coperti, in assemblea nel sottostante piazzale. Indossavamo la tuta azzurra di cotone e le scarpe alte a suola bassa marca superga. Scarpe che sarebbero servite per tutte le attività in caserma.
Ci aspettarono quella prima mattina quattro istruttori più il direttore del corso.
Dopo alcune raccomandazioni, ci sistemarono in fila indiana, esortandoci al silenzio monacale ed a seguirli nel percorso mattutino di condizionamento fisico, che sarebbe durato all'incirca un’ora.
Il maresciallo più anziano, che gli altri chiamavano “il biondo” cominciò a correre, in testa alla fila, gli altri si sistemarono lungo tutta la fila a cercare di far serrare i ranghi ai ritardatari.
Cercai di stare al passo, ma già dopo cinquecento metri cominciai a sentire il cuore in gola. Non sarei mai riuscito a tenere quel ritmo. Sembrò quasi che il capo m’avesse ascoltato, perché cominciò a rallentare, consentendomi così di racimolare un po’ di fiato. Le discese si susseguivano alle salite. Il Varignano, costruito sull’estremità di una collinetta affacciata sul mare offriva questo tipo di percorso. Sembrava studiato apposta. Dopo una ventina di minuti, qualcuno cominciava a rimanere indietro, assistito da uno degli istruttori che chiudeva la fila. Il mio cuore ormai era arrivato in testa e pulsava nelle tempie. Il respiro era diventato sonoro ed annaspante. Il cuore mi chiedeva di fermarmi, ma la ragione prendeva il sopravvento. Non potevo mollare proprio il primo giorno. Salita, discesa, salita, discesa, “il biondo” non si fermava mai. Le gambe dure, i muscoli tesi in uno spasmo di dolore, cominciavano a sentire tutto l’acido lattico prodotto a dismisura.
Arrivammo nel piazzale, “il biondo” finalmente si fermò. Mi piegai in due e vomitai tutta la bile possibile.
Una ventina di allievi arrivarono con qualche minuto in ritardo, accompagnati da altri due istruttori.
Eravamo tutti provati dopo quaranta minuti di corsa continua. Con la bocca spalancata cercavo di reclutare più aria possibile da mandare giù nei polmoni che si aprivano e chiudevano come mantici.
“Il biondo” mi si avvicinò e con il tipico accento bresciano mi disse: “Bravo CICCIOBELLO. Non avrei mai creduto che saresti arrivato fin qui con il gruppo di testa. Ma se non hai mollato oggi mollerai sicuramente domani!”
Cominciammo a fare esercizi di defaticamento e di preatletismo, per una ventina di minuti ancora.
Ma il maresciallo mi aveva messo un’altra pulce nell’orecchio. Anzi due. Perché credeva che ce non l’avessi fatta? Perché mi appioppò quel nomignolo, Cicciobello?
Le risposte le ebbi dopo la doccia, mentre ero davanti allo specchio a farmi la barba.
Ma certo, lui facendomi sentire non all’altezza del compito, forse voleva spronarmi a reagire, ed io così farò, pensai spronandomi mentalmente. Ed il nomignolo? Ma certo, non era riferito alla mia pinguedine, ciccio, ma alla sola seconda parte del nome, bello!
Mi sorrisi consapevole allo specchio ed andai felice e sicuro ad affrontare il resto della giornata.
A quella giornata succedettero altre trecentotrenta giornate circa. Tutte faticose e dure quante le altre. Alla fine, da quel camerone, uscimmo solo dieci sottufficiali e due ufficiali. Avevamo superato il corso. Indossavamo il Basco Verde da Incursore. Avevo perso la prima parte del mio nomignolo, pesavo settantadue chili. La seconda rimase per svariati anni ancora.

p.s. : Da quel giorno, gli operatori incursori del  Varignano, mi chiamarono affettuosamente Cicciobello. Ancora oggi. Ma voi che leggete non vi azzardate a farlo. Solo gli uomini autorizzati ad indossare quel Basco Verde possono chiamarmi così.

giovedì 20 ottobre 2016

IL LAVORO MINORILE - PALA E PICCONE


Nessuna sorpresa arrivò per me dall'uovo di pasqua del 1974. Il fastidio che avvertivo al braccio sinistro, nella parte alta dell'omero, cominciò a manifestarsi anche con dolori frequenti. Fu così che l'ortopedico decise di inviarmi in ospedale per mettere fine al mio calvario ormai quotidiano. Erano anche parecchi giorni che saltavo i giorni di scuola e non potevo continuare a farlo.
Fui ricoverato all'ospedale di Nola, dove si decise di intervenire chirurgicamente.
Nola era anche la città dove frequentavo il primo anno di ragioneria. Mia mamma mi accompagnò in ospedale e mi chiese di aver molta pazienza e rassegnazione.
Dovetti, infatti, rassegnarmi a stare da solo, perché nessuno dei miei genitori potevano darmi assistenza durante l'ospedalizzazione.
Negli anni settanta i ricoveri in ospedale duravano tantissimi giorni. Ricordo che tra preparazione, operazione e post intervento, rimasi con medici ed infermieri più di venti interminabili giorni.
Una mattina, quando meno me lo aspettavo, un infermiere mi disse di prepararmi che lasciavo finalmente il mio posto a qualcun altro.
Mi feci aiutare nel vestirmi e mi apprestai a lasciare l'ospedale. Non avevo soldi con me né potevo avvisare nessuno a casa, non avevamo il telefono in famiglia.
Per fortuna avevo con me l'abbonamento studenti per i treni della circumvesuviana, proprio nella tratta Nola-Marigliano.
Fui dimesso dall'ospedale con il braccio immobilizzato e con la prognosi di venti giorni di ulteriore convalescenza.
Alla fine dei conti persi più di quaranta giorni di scuola, proprio nel pentamestre finale. Quando mi presentai a scuola, accompagnato da mia mamma, ci accolse la preside. Non fu per nulla ottimista e mi chiese di provare a frequentare le lezioni per capire se riuscivo a mettermi al passo con gli altri.
Volli provare, ma fu un'impresa impossibile. La stenografia, già materia a me abbastanza invisa, era diventata peggio dell'arabo. Non ci capivo più nulla. Matematica e geometria uguale. Lo stesso per le altre materie. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile. Decisi così di ritirarmi da scuola. Tanto avevo la licenza media e tanta voglia di lavorare.
Aspettai giusto il tempo che il dottore mi dichiarasse finalmente guarito anche dai punti di sutura.
Sapevo già cosa volevo fare per guadagnare qualcosa. Nei periodi di convalescenza andavo a vedere come lavoravano alcuni miei amici, un pochettino più grandi di me. Mi piaceva quel gruppo che stava lavorando, come muratori, nel costruire un campo di gioco per le bocce, commissionato dai frati Francescani di San Vito.
Lavoravano sodo tutto il giorno, ma c'era tanta armonia ed amicizia tra di loro, erano dei giocherelloni. Si divertivano lavorando.
Fu così che chiesi a Carmine, il capo, se mi prendesse a lavorare con lui.
Mi disse che al termine di quel lavoro, ne avrebbe iniziato un altro e sicuramente avrebbe avuto bisogno anche di me.
Ero felice e non vedevo l'ora di iniziare, non mi interessava neppure sapere quanto avrei guadagnato. Il solo fatto di poter andare a lavorare e stare tutto il giorno con Massimo, il fratello del capo e soprattutto con Andrea, un burlone nato, mi avrebbe ripagato di tutto.
Arrivò finalmente il fatidico giorno. Ci presentammo tutti e quattro da signor Raia, per prendere atto del tipo di lavoro da fare.
Il signor Raia era molto conosciuto a san Vito, un uomo dal fisico statuario, una presenza forte ed un rigore indiscusso. Era un brigadiere dei carabinieri in pensione e prestava il suo tempo al servizio dei frati del convento. Era il tuttofare e uomo di fiducia.
Ci portò all'interno del convento, fino ad un seminterrato che andava in discesa, fino ad interrompersi di fronte ad una porticina non più alta di un metro. Era tutto buio e umido. Il signor Raia spiegò a Carmine che dietro quella porticina ci sarebbe dovuto essere una specie di sottopassaggio che collegava il convento dei frati a quello delle monache e che sarebbe servito ai frati per recarsi al refettorio situato dalle vicine suore.
In pratica, con l'uso di pale e picconi, avremmo dovuto scavare sotto quella volta di mattoni, liberarlo dalla terra per creare un passaggio comodo e sicuro.
Iniziammo il lavoro. Eravamo in quattro, io il più giovane, Massimo ed Andrea due anni più di me, Carmine, il più vecchio, non aveva più di venti anni.
Carmine, con la sua forza spaventosa, si mise subito all'opera con il piccone, Massimo con la pala riempiva le carriole che io ed Andrea le facevamo percorrere avanti ed indietro, portando all'esterno la terra spalata.
I giorni passavano, la terra portata via era tanta e tanta ancora ne rimaneva da spicconare. Le mie mani, non abituate a quel tipo di lavoro gridavano pietà. I calli avevano ormai preso il posto delle vesciche ed iniziai ad andarne fiero.
La sera ero stanco morto, ma la mattina riandavo a lavorare molto volentieri, perché si stava davvero bene insieme a loro. Nonostante la fatica fosse tanta, era sempre tutta una risata,con Andrea non poteva essere altrimenti. Sempre la battuta pronta, sempre attento a cogliere l'attimo per inventare qualcosa su cui ridere. Finalmente un giorno cadde l'ultimo diaframma che portava al convento delle suore. La fessura nel muro diventava sempre più ampia e la luce inondava quella caverna illuminata dalle candele.
Con grande sorpresa ci venne a far visita suor Candida, che ci portò da bere dei succhi di frutta fatti da loro, una bontà. Li bevemmo con avidità. Poi ci offrì delle fette di pane con della confettura di arance del convento. Una prelibatezza.
Tutti i giorni, Andrea, che aveva il dono dell'ilarità e della sfrontatezza andava a chiedere succhi e marmellata alla suora, che non sapeva dire di no.
Quel lavoro durò quasi tutta l'estate. Poi andammo a lavorare in un altro posto.
Io però lasciai quella squadra di lavoro, a malincuore. Volli riprovare ad andare a scuola.
Mi iscrissi al primo anno dell'ITIS di Somma Vesuviana. Ma questa è un'altra storia.
Marigliano, settembre 1975

Nello Ricciardi