
Il suono della tromba, che dettava la sveglia
militare, ci fece oltremodo sobbalzare dalle nostre brande. Non eravamo
abituati, in Marina, a svegliarci con tale procedura.
Alloggiavamo in un'unica stanza con cinque
letti a castello. presso la Caserma Gamerra dell’Esercito, a
Pisa, dove avremmo dovuto frequentare il corso Paracadutisti.
Quella notte, afosa ed umida di inizio
giugno, la passammo con le finestre aperte ed una buona fila di zampironi fumanti
disposti sui due davanzali, per tentare di tenere alla larga sciami di zanzare,
avide di sangue nuovo.
Tutti noi riportavamo sulla pelle i segni
di quella nottata, chi con bubboni cremisi dovuti alle punture delle incursioni zanzaresche, chi con
violastre lividure, causate dagli schiaffi, rifilati nel vuoto buio della
notte, per tentare di abbattere le agguerrite ronzatrici.
Ma quella mattina, le sorprese non
finirono ed il comandante della caserma riuscì ancora a sbalordirci.
Dopo la strepitante sveglia militare,
dagli altoparlanti dell’intera caserma, una musica inconsueta per quel posto e
per quel momento, iniziò a deliziare le nostre orecchie e lo spirito. Eravamo
tutti intenti ad ascoltare quella musica lenta ed inizialmente tintinnante e ci
interrogavamo con gli sguardi attoniti ed incuriositi.
Ma le prime parole tolsero ogni dubbio; ♫ On a dark desert highway,
cool wind in my hair, warm smell of colitas, rising up through the air……..♫
Si, era proprio il brano
degli Eagles, Hotel California. Solo un comandante “smart” avrebbe potuto acconsentire
una cosa del genere.
Inutile dire che quella
deliziosa melodia, unita alla curiosità degli avvenimenti che ci aspettavano da
quel giorno, ci mise di buon umore.
Nel grandissimo piazzale al
centro della caserma, si svolgeva l’alza bandiera. C’erano ameno quattro
compagnie di giovani soldati schierati in fila per nove, tutti vestiti con
pantaloncini corti e magliette rigorosamente grigioverdi.
Un giovane ed atletico
caporal maggiore si presentò da noi, dicendoci
che da quel giorno, per tutti i trenta giorni della durata del corso,
lui sarebbe stato la nostra guida ed istruttore responsabile.
Il ragazzo, dal chiaro accento
toscano, aveva un aspetto formale militare molto attento ed accentuato nei
nostri confronti, che eravamo tutti superiori a lui di grado.
I nostri due ufficiali,
Alessandro Polonio e Fabio Teppati gli dissero di abbandonare tali attenzione e
di dedicarsi al suo lavoro trattandoci da allievi e non come graduati.
Il caporale rimase
veramente compiaciuto di ciò e ci portò a sistemarci nella prima fila di una di
quelle compagnie. “Da oggi questa sarà la vostra compagnia e con tutti loro
frequenterete il corso per tentare di diventare paracadutisti”. Ci disse il
caporale, sistemandosi a sua volta davanti alla compagnia.
Venivamo da un anno di
corso passato al Varignano, dove conseguimmo il brevetto da Incursori della
Marina Militare, poi sei mesi di corso integrativo per passare direttamente al
far parte del Gruppo Operativo Incursori. Ma per essere classificati operativi
al cento per cento, mancava il brevetto di paracadutista militare. Iniziammo il
corso.
Tutte le mattine la
giornata iniziava con la corsa. Dopo l’alza bandiera, ogni compagnia, con il
proprio caporale in testa si apprestava ad iniziare la corsa rimanendo in
formazione. Si dovevano completare cinque giri di un chilometro attorno agli
edifici che circondavano il campaccio.
Tutti al passo e pugni al
petto. Vietato fermarsi. Per la verità c’erano alcuni ragazzi, nelle varie
compagnie, che non riuscivano a reggere quelle andature, ma l’unico modo per
fermarsi, uscendo dallo schieramento, era consentito quando si passava davanti
ai locali igienici. Chi si fermava, si doveva nascondere dentro ed aspettare il
termine dei cinque giri, per poi uscire e riaggregarsi alla compagnia, non
prima di aver lasciato il proprio nominativo.
Purtroppo, con il passare
dei giorni le compagnie si riducevano fin quasi a diventare dei plotoni. Non
tutti i ragazzi riuscivano a tenere il passo, abbastanza forzato, sul
pentachilometro.
L’addestramento, quasi
tutto fisico, vedeva anche delle lezioni puramente pratiche, tendenti alla
formazione tecnica vera e propria del paracadutista militare.
Queste esercitazioni erano
quelle che più attiravano la nostra attenzione, in quanto la nostra squadra di
incursori era già molto ben preparata fisicamente.
Uno dei primi ostacoli
grossi da superare era sicuramente l’impatto con la torre in palestra.
Qui bisognava partire da
tre metri, poi sei ed infine dieci metri per fare il salto nel telo concentrico
tenuto a braccia tese da una decina di commilitoni.
Le prime due altezze
richiedevano un salto libero. Ma per saltare dall’ultimo piano, era
obbligatoria una figura plastica.
Da dieci metri il telo
diventava davvero piccolo e sembrava impossibile centrarlo. Ma una volta
saliti, non si poteva tonare indietro. Ognuno dichiarava la figura che avrebbe
tentato di rappresentare in aria prima di atterrare al centro del telo
sottostante: croce, angelo, gabbiano, erano le più dichiarate. Alla fine
risultavano però tristemente figure di m….!
Il salto dalla falsa
carlinga, un’altezza di sedici metri, simulava l’uscita dalla porta dell’aereo.
Si veniva equipaggiati ed imbragati, come se fosse un lancio vero, quando il
caporale dava il colpo sulla spalla, bisognava assumere la posizione compatta
di lancio e saltare nel vuoto. La fune di vincolo, invece di aprire il
paracadute, rimaneva attaccata ad un cavo d’acciaio lunghissimo,
che declinava verso terra.
Ciononostante, dopo il salto nel vuoto, l’impatto della fune sul cavo era
tremendo ed altrettanto era l’arrivo con il terreno, dove bisognava cominciare
a mulinare i piedi già in aria per
cercare di attutire ed assecondare la velocità di atterraggio.
L’ultimo giorno, prima del
fatidico primo lancio, era prevista la corsa libera di cinque chilometri.
Ci portarono con i camion
alla distanza prevista lontano dalla caserma. Al via si partiva e bisognava
coprire il percorso in un massimo di venti minuti. Tutti quelli che arrivavano
dopo non venivano ammessi al lancio.
Finalmente arrivò il
fatidico giorno. Il grosso quadrimotore C130 ci attendeva sulla pista dell’aeroporto
militare di Pisa.
Espletati i controlli ai
paracadute correttamente indossati, il caporale distribuiva saggiamente gli
ultimi buoni consigli. “Avete domande?” chiedeva prima di salire in fila
sull’aereo, che ci aspettava con la pancia aperta. La risposta unica, classica
e collettiva era sempre la stessa: “E se non si apre?”.
“Vuol dire che non
diventerete mai più paracadutisti”. L’inesorabile risposta tristemente funebre
del caporale.
L’aereo partì con un rumore
assordante. Ognuno di noi, rigorosamente in silenzio, stringeva il moschettone posto
in cima alla fune di vincolo. Ci scrutavamo tutti per capire dagli occhi chi
avesse paura. Cinque minuti al lancio, si sentì dagli altoparlanti,
immediatamente si aprirono i due portelloni laterali e l’aria entrò prepotente
a riempire la fusoliera affollata di giovani aspiranti paracadutisti. Il
caporale ci ordinò di alzarci e di metterci in fila in direzione dell’uscita,
stando bene attaccati e con il moschettone agganciato alla corda d’acciaio. Forse
per un attimo le gambe tremarono, ma non volli darle retta, mi alzai in piedi,
guardando il portellone aperto per cercare dsi scrutare il di fuori. Agganciai
il moschettone, quando subito si sentì “un minuto al lancio”!
Non ho mai capito come
facessero a passare quattro minuti in poco più di trenta secondi. Mi ritrovai a
spingere quello davanti ed a mia volta mi sentivo spingere da quello dietro.
Arrivai alla porta e mi attaccai
con la mano libera sull’estremità dell’apertura nella carlinga. Potevo vedere
il panorama verde sotto i miei piedi e la lunga striscia grigia dell’autostrada
sottostante, al limite del campo di atterraggio. Sentii il colpo deciso della
mano del caporale sulla spalla, “Via”!
Assunsi la posizione prevista
e saltai nel vuoto. “Milleuno, milledue, melletre, millequattro, contai
veloce”. Lo strappo verso l’alto della calotta bianca di seta frenò la
velocissima caduta iniziale.
Mi trovai libero nell’aria,
appeso al paracadute. Il primo pensiero fu di
guardare se era tutto a posto, poi lo sguardo cominciò a roteare a
trecentosessanta gradi, ad ammirare stupito la bellezza di quell’evento unico.
Una sensazione sublime di silenzio e di aria diversa che sibilava fresca nel
viso. Provai a emettere dei suoni con la bocca e mi meravigliavo da come li
sentivo strani. Poi cominciai a sentire varie parole degli altri paracadutisti
che si chiamavano mentre scendevano lentamente verso il prato. Già, quel prato
che nascondeva però un’insidia. Parallelamente all’autostrada, correva un canale
melmoso d’irrigazione, dal quale, parimenti all’autostrada, bisognava stare
lontani. L’errore che si commetteva tutti era quello di cercare le due maniglie
dei freni e cominciare a fare un po’ a sinistra ed un po’ a destra. Ma il punto
di caduta rimaneva sempre pericolosamente nel canale. Ogni tanto qualcuno ci
finiva dentro e ritornava in caserma infangato fradicio, puzzolente ed isolato
da tutti. Nessuno cadeva mai sull’autostrada, forse perché si sceglieva il male
minore.
Nei giorni successivi
succedettero altri cinque lanci, per arrivare a conseguire l’agognato brevetto.
Nessun lancio però fu più uguale al primo.
Lasciammo la caserma
dell’esercito per far rientro al Varignano, consapevoli e fieri di aver
completato il percorso operativo. Le note di Hotel California, mi hanno
accompagnato per tutta la vita come, dolce ricordo di una gioventù superba che
non tornerà mai più.
Nello Ricciardi
Pisa giugno 1981