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mercoledì 13 dicembre 2023
IL LAVORO MINORILE - LE PATATE (Prima parte)
domenica 5 novembre 2023
GINEVRA

giovedì 26 ottobre 2023
MONTEMARCELLESI INTERNATI IN AMERICA
Giuseppe, classe 1903, primo di quattro figli, dovette molto presto prendere la via del mare. Il suo primo imbarco, a sedici anni, come quello di tutti i novizi dell’epoca, avvenne a Genova. La qualifica attribuitagli fu di mozzo tuttofare. Mestiere di apprendistato, che veniva assegnato allo scopo di avere bassa forza e manovalanza a bordo per riempire con necessità i buchi lavorativi che si andavano creando nei vari reparti, ed offrire ai neo marinai la possibilità di conoscere appieno il mestiere a bordo e di poter scegliere le qualifiche future, ritenuti dagli stessi più consone alle proprie aspettative e capacità.
Giuseppe, fin da subito, non ebbe dubbi, era attratto dalla propulsione della nave, dalle macchine e dalle sue caldaie.
A quei tempi i motori dei Piroscafi erano alimentati con caldaie ed avevano come carburante il carbone. Gli venne attribuita presto la qualifica di fuochista.
Era molto facile per quei tempi, durante i vari imbarchi, che potevano durare anche oltre un anno, di navigare insieme a dei paesani amici o addirittura parenti. Uno di questi amici fu il suo compaesano Armando Guglielmone, classe 1909. Anche lui effettuò il primo imbarco a sedici anni, anch'egli dapprima mozzo e successivamente passò tra il personale di macchine.
Entrambi erano addetti al duro lavoro di spalare il carbone per alimentare le caldaie e dare vita a tutta la nave.
Erano molto affiatati e veramente buoni amici. Si compensavano caratterialmente, uno molto scherzoso, a cui piaceva cantare, soprattutto canzoni napoletane, Armando più serio, compassato attento ai particolari e grande lavoratore. Questo loro trovarsi sempre d’accordo, trasferito anche alle famiglie che restavano a casa ad aspettarli, li portò ben presto a scegliere insieme gli imbarchi.
Alla soglia dei trent’anni, durante una delle navigazioni oltreoceano, arrivò a Giuseppe la notizia dell’arrivo del primo figlio, a cui venne dato il nome Enio. Qualche anno dopo, nel 1935, toccò ad Armando. Per lui fu una notizia al femminile, arrivò in casa Guglielmone, la piccola Albertina.
La loro attività marittima proseguiva più o meno tranquilla, tra imbarchi e sbarchi quasi annuali e viaggi terrestri verso Genova, ormai erano circa vent’anni che battevano il mare, quasi sempre insieme. Arrivò durante una pausa di sbarco, a febbraio del 1939 il secondo figlio di Giuseppe, a cui venne dato il nome Aldo.
Nello stesso anno, venti di guerra, seppur lontani, cominciavano a soffiare. Il periodo di riposo a terra finì, come al solito troppo presto e dovettero di nuovo imbarcare.
Il Piroscafo Monfiore partì da Genova a giugno del ’39, diretto verso gli Stati uniti d’America.
Arrivarono nel porto di New Orleans a fine agosto dello stesso anno. Purtroppo a settembre, quello che si temeva potesse succedere, ebbe inizio. La Germania iniziò a guerreggiare in Europa, con le nazioni confinanti. A causa di una pregressa alleanza tra Italia e Germania, gli americani dichiararono lo stato di fermo per tutte le navi mercantili italiane presenti sul proprio territorio. Iniziò il calvario di non poter comunicare con le famiglie, nessuno a casa sapeva dove fossero e cosa facessero.
A fine anno, Rita ed Enrichetta, le mogli dei due amici montemarcellesi, si recarono a Genova dalla Compagnia di Navigazione, per avere notizie dei propri mariti. Fu solo la Croce Rossa che riuscì a tranquillizzarle, dicendo loro che le navi erano ferme in porto e comunque il personale doveva restare a bordo o all’interno del porto sotto sorveglianza e che al momento non rischiavano nulla.
Purtroppo però, gli eventi precipitarono e a fine estate del ’40 l’Italia entrò in guerra e l’anno dopo toccò agli Stati Uniti d’America.
Il 28 agosto del 1941 furono requisite ventisei navi mercantili ferme nei vari porti americani, tra cui il Monfiore.
Gli equipaggi sbarcati da tali navi vennero provvisoriamente rinchiusi nelle stazioni di immigrazione di New York, Portland e Philadelfia, dove non esistevano stazioni di immigrazione nelle carceri locali, successivamente la maggioranza di loro venne internata nel campo di Fort Missoula nel Montana.
Alcune delle ventisei navi italiane furono sabotate dagli stessi equipaggi, per ordini arrivati dall’Italia.
I marittimi ritenuti colpevoli di aver guastato l'apparato motore o gli organi di navigazione, vennero giudicati dalla corte federale, che condannò tutti, emettendo condanne variabili da uno a tre anni da scontare in prigioni di tipo riformatorio, i marinai rinchiusi in prigione furono circa trecento.
Giuseppe, Armando e tutto l’equipaggio del Monfiore vennero tradotti nel Montana, nel campo di prigionia Fort Missoula.
Fu un viaggio interminabile, circa tremilacinquecento chilometri fatti con camion e treni. Giuseppe quasi non ricordava più il suo secondo figlio, lasciato in fasce a quattro mesi.
Il campo era situato nelle vicinanze della citta di Missoula Montana a circa 1000 metri di altezza sul livello del mare, in una vallata i cui campi e le cui industrie erano adibite alla produzione dello zucchero.
Alla fine gli internati nel campo furono 1143 italiani e 29 giapponesi.
Il campo era formato da baracche di legno, era lungo circa un chilometro ed era recintato da filo spinato. Avevano però abbastanza confort, basti pensare che erano dotate di riscaldamento, di acqua corrente calda e fredda, di buoni e spaziosi dormitori. Le guardie americane lo chiamavano lo 'spaghetti lager'.
Un grande fabbricato di legno, conteneva la cucina ed il grande refettorio. Alla cucina provvedeva un cuoco italiano, assistito da una ventina di altri internati, tratti dal personale di cucina e di camera.
Si raccontava che il cuoco, inizialmente si rifiutò di cucinare in assenza di olio, non voleva utilizzare il grasso animale fornito dagli americani. Addirittura ci fu una piccola rivolta per questo motivo.
Una grande lavanderia, azionata con motori elettrici e con apparecchi a vapore, era a disposizione gratuita degli internati.
Addirittura esisteva una biblioteca contenente circa quattromila libri italiani e varie centinaia di volumi in inglese, e francese.
Si organizzò ben presto una scuola vera e propria che comprendeva corsi di italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, motori marini, matematica, navigazione, legislazione marittima, disegno e geometria. Vi partecipano divisi in varie classi quasi tutti gli internati.
Con i mezzi e gli strumenti messi a disposizione del campo, gli internati costituirono addirittura due orchestre. Due volte alla settimana venivano anche proiettati film di normale produzione americana.
In un campo di internati italiano, ovviamente, non poteva mancare un campo di calcio.
Un sacerdote internato Padre Bruno, celebrava la messa ogni domenica per i marittimi che erano tutti cattolici.
Non male, qualcuno direbbe a questo punto, se non fosse che ormai erano lontano dalle famiglie da circa due anni. Nel frattempo il governo americano concesse agli internati di poter diventare collaborazionisti, accettando lavori all’esterno del campo. Molti di loro scelsero questa strada, se non altro perché venivano regolarmente assunti con tutti i benefici del caso, rientrando però sempre la sera nelle proprie baracche.
L’otto settembre del 1943, Badoglio firmò la resa dell’Italia. Da questo momento fu concesso agli internati di poter fare anche altri lavori sul territorio degli Stati Uniti.
Molti internati scelsero di lavorare nelle ferrovie, sia nella costruzione di nuove tratte ferroviarie che a bordo dei treni. Giuseppe ed Armando, in qualità del loro mestiere di fuochisti, furono avviati sulle locomotive a vapore.
Nell’ottobre del 1943, furono assunti con regolare contratto di lavoro, dalla “Northern Pacific Railway Company, Co. Idaho Divisione Mtce Track”, con la qualifica “Extra Gang Laborer” (lavoratore extracomunitario). Furono mandati a lavorare a Spokane, nel vicino stato di Washington.
Ora avevano un buon lavoro ed anche ben pagato, ma la corrispondenza era sempre molto lenta, le lettere ci mettevano anche quattro mesi ad arrivare. A loro ed alle loro famiglie interessava che stavano bene reciprocamente.
La paga era ottima e riuscivano a mettere da parte molto del loro guadagno, inviando il necessario al mantenimento delle famiglie.
Lavorarono nelle ferrovie circa tre anni, considerarono anche la possibilità di essere raggiunti dalle proprie famiglie, che non se la sentirono di lasciare tutti i loro cari a Montemarcello. Eppure per Enrichetta, nata negli USA, non sarebbe stato difficile burocraticamente.
Decisero così di mettere fine a quell’esperienza prima da internati e poi di lavoratori in America.
Il 25 marzo del 1946 arrivarono a Genova, dove ad aspettarli c’erano le rispettive famiglie.
Giuseppe trovò un figlio quattordicenne ed un altro che nemmeno più conosceva, Aldo, che aveva compiuto sette anni un mese prima.
Armando poté riabbracciare la piccola Albertina che era quasi una donnina di undici anni.
Il ministero della navigazione riconobbe loro il periodo da internati come imbarco effettivo, con tutti i benefici del caso. Il governo americano riconobbe loro una pensione da sommare a quella italiana.
Tornarono a casa felici, dovevano farsi riconoscere soprattutto dai figli che quasi li discostavano da loro.
Quella felicità e quella nuova vita a Montemarcello, non durò a lungo, il mare chiamava i suoi uomini e loro risposero. Il 29 luglio del 1947 salirono sul Piroscafo Acasta per una nuova navigazione.
Nello Ricciardi
venerdì 20 ottobre 2023
LA FASE ACQUA
mercoledì 17 maggio 2023
IL FALEGNAME E LA GUERRA (Il nonno materno)
Cominciarono così a frequentarsi, anche se solo la domenica. Intorno a loro, però, il lento scandire delle giornate tutte uguali e fatte di sacrifici, cominciarono ad arrivare notizie di guerre ai confini della Nazione e di grandi movimentazioni di massa per reclutare i giovani da inviare ad una eventuale possibilità di entrata in guerra, già da un anno circa avviata dai Paesi d’oltralpe.
Fu così che anche a Giacomino arrivò la tanto insperata cartolina precetto. Si presentò al vicino Distretto di Nola, dove si sottopose alle previste visite mediche di rito. Di colorito bruno, con una vistosa cicatrice sulla fronte, di professione falegname, non sa scrivere e non sa leggere, abile a vestire l’uniforme. Così fu scritto sul suo ancora immacolato foglio matricolare. Il sei di aprile del 1914 venne messo in congedo illimitato in attesa di nuovi ordini.
Tornò a casa con la tristezza addosso, non ne voleva sapere di partire per fare il soldato, non voleva lasciare la sua amata Rosa. Doveva fare qualcosa per non rispondere ad una eventuale chiamata che lo avrebbe portato lontano dal sicuro lavoro e soprattutto dai suoi affetti. Nel frattempo a livello nazionale, gli interventisti e gli irredentisti prendevano la meglio e chiedevano al governo, con grandi manifestazioni di massa, di entrare in guerra.
Fu proprio la paura della guerra che lo portò alla decisione di convolare a nozze con la sua amata, sperando in una seguente esenzione dal partire per l’eventuale fronte di guerra. Si sposarono in fretta e furia, senza fronzoli e dichiarazioni, il 24 luglio del 1914. Non avevano la possibilità di avere un loro alloggio, così si sistemarono nella casa dei Bonagura, in attesa di tempi migliori.
Il loro idillio, purtroppo, durò solo una cinquantina di giorni. Arrivò inesorabile, la chiamata a vestire la divisa dell’esercito. Presentarsi il 19 settembre del corrente anno presso la caserma del 27° Reggimento Cavalleggeri dell’Aquila. Non la prese affatto bene, andò dal medico di famiglie per avere una qualche esenzione, minacciando di tagliarsi le dita, andò finanche dal sindaco e dal comandante della locale stazione dei carabinieri. Tutti ovviamente lo esortarono a non cacciarsi nei guai, a lui ed alla giovane moglie. Il suo pensiero chiaramente era Rosa, come avrebbe fatto a mantenersi, data la forte disparità nel salario medio giornaliero, da bracciante contadino a soldato in armi, 7 lire contro appena 90 centesimi.
Non servì a nulla fare il pazzo in casa, nelle strade del paese e fino al distretto militare di Nola. Se non partiva veniva dichiarato disertore! Fu così che, anche se non convinto, suo malgrado, partì lo stesso. Con una tradotta militare, in partenza dallo scalo di Nola prese la direzione dell’Abruzzo. Arrivò in caserma dopo circa dieci ore di viaggio, con i suoi pochi averi e tutte le intenzioni di tornare a casa quanto prima. Venne assegnato alla pulizia delle stalle, dove se non altro recuperava qualche carruba da sgranocchiare oltre il misero rancio giornaliero.
In caserma fece amicizia con un corregionale di Nola, che fortunatamente era riuscito ad arrivare a frequentare la seconda elementare. Si affidò a lui per scrivere e leggere la corrispondenza con la famiglia, ma soprattutto con la consorte. Ormai era rassegnato, pensando di svolgere il servizio di leva e rientrare a casa definitivamente. Aveva però capito che la vita militare non era stata pensata per il suo carattere, libertino e senza regole. Ma se ne fece una ragione.
Purtroppo l’Italia entrò in guerra, dichiarando le ostilità all’Austria-Ungheria, il 24 maggio del 1915. La guerra impose uno sforzo popolare enorme; enormi masse di uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul fronte di battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della morte.
Il 17 agosto del 1916 Giacomino verrà aggregato al deposito di allevamento cavalli di Grosseto, nel distaccamento di Cecina. La tranquilla vita della caserma cambiò in poco tempo. Qualche giorno dopo, l’Italia dichiarò guerra anche all’Impero Germanico. Il congedo si allontanò inesorabilmente “sine die”, stante in territorio dichiarato in stato di guerra.
Con l’entrata in guerra si interruppero anche le missive. Quelle poche lettere che si riusciva ad inviare passavano dalla censura e troppo veniva tagliato, da una parte e dall’altra. Per sua fortuna non venne mai inviato al fronte, forse per le scarse competenze operative o forse per il carattere oltremodo difficile di stare con gli altri. Arrivo l’estate del 1917, durante una delle pochissime licenze concesse, decise di non rientrare in caserma.
Suo malgrado, convinto dai soliti rimproveri dei suoi conoscenti, decise di ascoltare tutti e soprattutto Rosa e rientrò al Distaccamento con dodici giorni di ritardo. Fu prontamente dichiarato disertore e denunciato al Comando territoriale di Firenze. Fu accolto con i ferri ai polsi e trattenuto in prigione di rigore, in attesa di disposizioni.
Dopo un breve processo interno, il 14 novembre del 1917 venne messo in prigione, demandando il giudizio finale al Comando Supremo del Corpo d’Armata di Verona. La prigione era dura, fatta di tavolaccio e catene. Nessuna libertà e morale sotto i piedi!
La sentenza definitiva arrivò il 24 dicembre, alla vigilia di Natale. Pena sospesa, in quanto c’era particolare bisogno di manovalanza nelle stalle, per preparare i cavalli da inviare al fronte, avido di armi, uomini, mezzi e materiali. Intanto, tra le pochissime notizie che gli arrivavano dalla famiglia, ne arrivò una che gli avrebbe cambiato la vita. Rosa era incinta. Sicuramente era accaduto nell’ultimo mese di agosto, che era stato a casa in licenza. Gli convenne così stare buono e tenere a freno gli impulsi più imprevisti.
Riuscì a stare abbastanza tranquillo, con i suoi standard, almeno fino alla data prevista per il parto. A maggio finalmente, dopo un periodo di buona condotta forzata, chiese ed ottenne una licenza, sperando di incontrarsi con il suo primogenito. Arrivò a casa giusto in tempo per assistere alla nascita di Iolanda, la sua prima figlia, il 24 maggio del 1918. Chiese un prolungamento della licenza, che gli fu concessa, fino al 20 giugno.
Era felice per la bimba e per la moglie, ma lo rattristava ora, ancor di più, dover ripartire, anche perché la guerra continuava senza conoscere una fine vicina. Nei giorni liberi di licenza cercava lavoro a giornata per arrotondare qualche spicciolo occorrente per la famiglia in chiara difficoltà. Arrivò il giorno fatidico del rientro, ma non ce la faceva proprio a staccarsi dalle due donne della sua vita. Anche stavolta dovettero faticare non poco per indurlo a rientrare al Distaccamento di Cecina.
Arrivò quattro giorni dopo il previsto rientro e venne dichiarato per la seconda volta disertore e denunciato al Tribunale di Guerra. Lo accompagnarono di nuovo in prigione in attesa di giudizio. Il 2 agosto del 1918, viene condannato a tre anni di reclusione ordinaria, per diserzione, al pagamento delle spese di giudizio. La pena viene però sospesa per cinque anni.
Il 4 novembre alle ore 15 tutte le operazioni di guerra cessarono e fu proclamata la fine della Grande Guerra. Armando Diaz emanò un bollettino che celebrava, non senza retorica, la vittoria sui "uno dei più potenti eserciti del mondo". Ma voi pensate che a Giacomino importasse qualcosa della vittoria? Lui stava escogitando come fare per andare a Palma Campania dalla sua piccola Iolanda. Ma certo, cominciò a fare il pazzo. Buttava per aria tutto quello che trovava per strada, cominciò ad attaccare lite con tutti per futili motivi. Il Comando decise così di ricoverarlo all’ospedale militare di Roma. Ci rimase dieci giorni e poi fu dimesso con una licenza di convalescenza di quaranta giorni.
Arrivò a casa, sperando di rimanervi sempre. Qualcuno lo ascoltò, perché durante la licenza gli ordinarono di rientrare, al termine della convalescenza, in servizio presso il deposito del Reggimento Cavalleggeri di Nola. A Nola i giorni passavano veloci e la famiglia era vicina, non aveva più problemi se non quello di dare sostentamento alla famiglia. Qui, finalmente venne posto in congedo illimitato il 15 settembre 1919.
Gli verrà rifiutata la dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore. Inoltre non gli fu corrisposto il premio di congedamento, ma gli vennero cancellate le pene ricevute, durante il servizio in zona di guerra, ancora da scontare, grazie all’amnistia concessa dal Re Vittorio Emanuele III, per la vittoria.
La legna da tagliare lo aspettava, insieme ad una nuova vita che, intanto, stava per arrivare.
P.S.: Le date e gli eventi riportati, in questo racconto, sono stati detratti dal Foglio Matricolare di Giacomo Manzi, mentre i fatti di collegamento tra le date sono da me liberamente interpretati.
Aniello Ricciardi
17 maggio 2023
martedì 7 marzo 2023
CASCIULELLA (Il bisnonno ed il nonno paterno)
Cav. Aniello Ricciardi