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venerdì 25 ottobre 2024

1967 - UNA BRUTTISSIMA TONSILLITE

Ospedale Ascalesi

Le idi di febbraio del 1967 mi portarono febbre altissima e continua, accompagnata da fortissimi mal di gola. L’impossibilità di mangiare e bere, debilitava il mio povero fisico già fortemente provato ed asciutto all’inverosimile. Mia mamma preoccupata per il mio repentino calo di peso, mi portò dal dottore che dopo aver cercato invano di ispezionare la mia gola, utilizzando il solito, a me fortemente inviso, manico del cucchiaio per schiacciare la lingua, dopo sei o sette iniziali conati di vomito, con il serio pericolo di fuoriuscita delle orbite oculari dalla loro sede naturale, rinunciò ad infierire, sentenziando una abnorme infiammazione delle tonsille. Non preoccupatevi, riferì a mia mamma, una bella cura con sei fiale di penicillina intramuscolo, risolverà al meglio il brutto malore. Nel mentre che il dottore pronunciava questa ultima frase, la mia mente iniziò velocissimamente a percorrere la nostra casa, in cerca dei vari nascondigli utili a non farsi trovare dalla nostra vicina, “zi’ Felicella”, deputata occasionalmente ad infermiera volontaria di tutto il vicinato.

Il primo nascondiglio utilizzato non funzionò. Mi attaccarono su tre lati e senza alcuna pietà per i miei lacrimoni, mi trascinarono fuori da sotto il letto. Non volevo guardare quello scatolino d’acciaio pieno d’acqua bollente, contenenti gli strumenti di tortura per i malcapitati bambini inermi. 

Zi’ Felicella, che doveva scegliere l’ago, diceva che a suo insindacabile parere, avrebbe dovuto utilizzare l’ago più grosso, ovviamente, per via della polvere contenuta nella penicillina. Alle sue parole cercai di trasformarmi in una biscia per svincolarmi dalla possente presa rugbistica di mio padre.  Non ci fu alcun combattimento, la lotta era impari ed ero destinato a soccombere contro tutte le mie volontà. A nulla servirono le mie promesse urlate riguardanti la revisione e remissione in tutto nel mio carattere, già di per sé buono, che sarebbe diventato fin da subito angelico. L’ago rigido, freddo e ciclopico entrò nel mio piccolo gluteo irrigidito fino allo spasmo, con la stessa forza che parimenti l’urlo gigantesco uscì dalla mia gola seppur già torturata dalle tonsille.

Il dolore che mi procurò il liquido denso, mi portò quasi allo svenimento, dalla bocca non usciva più un alito di fiato, solo gemiti di sottomissione.

Subito dopo fui liberato da tutte le prese, scappai velocemente e raggiunsi immediatamente il nascondiglio purtroppo già violato, ancora con il pantaloncino abbassato. 

Altre cinque strazianti puntate, dello stesso identico copione, si susseguirono nei giorni successivi. Tutti i miei nascondigli furono deliberatamente forzati e scoperti.

Nonostante questi sacrifici e sofferenze, la febbre non calava, ormai avevo perso il conto dei giorni di scuola che stavo perdendo.

Frequentavo la prima elementare, mia mamma preoccupata per le troppe assenze scolastiche, una mattina decise di accompagnarmi a scuola, per parlare con la mia cara maestra.

Giunti in classe, di corsa, occupai il mio solito posto, il primo banco. Ho sempre amato occupare quella posizione, anche negli anni a seguire, mi dava sicurezza e non mi consentiva opportunità di distrazione. Ero molto attratto dalle due enormi cartine geografiche, l’Italia politica e quella fisica, poste sul muro dietro la cattedra. Inoltre amavo ripassare nella mente tutte le grandi schede con disegni colorati che riportavano le lettere iniziali degli oggetti ivi rappresentati.  Scritte in stampatello, in corsivo, minuscolo e maiuscolo, nei quattro angoli, formavano le ventuno lettere dell’alfabeto italiano.

Ero felice di stare li quella mattina, con il quaderno aperto sul banco e la penna già pronta per scrivere.

Non persi però l’occasione di ascoltare la conversazione tra mia mamma e la maestra.

Tra i vari discorsi riuscii a capire che da li a poco avrei dovuto ricoverarmi per l’asportazione delle tonsille. Mia mamma era angosciata al pensiero degli ulteriori giorni di assenza che avrei accumulato oltre a quelli già passati. La maestra la rassicurò, le disse di non preoccuparsi, in quanto ero un bambino diligente, disse proprio così, abbastanza avanti nell’apprendimento e che sapevo già leggere e scrivere molto bene e che ci avrebbe pensato lei a giustificare nei confronti del direttore le mie numerose assenze. 

Stava per arrivare la primavera, ma molto prima di essa arrivò inesorabile il giorno previsto per il mio ricovero in ospedale. Accompagnato dalla mamma, prendemmo il treno della Vesuviana da Marigliano a Napoli. Non stavo bene, ero fortemente debilitato ed ero tormentato dalla febbre che non mi dava tregua.

Mia mamma mi teneva per mano, gliela tenevo stretta sapendo che da li a poco avrei dovuto lasciarla. Durante il tragitto mi spiegò il motivo di quel viaggio, mi disse che avrebbe dovuto lasciarmi nell’ospedale qualche giorno, in modo che i dottori potessero finalmente liberarmi dal mostro che si era impossessato della mia gola. 

Arrivati alla stazione di Napoli, ci dirigemmo verso Porta Nolana, attraversandola. La mamma volle entrare in una chiesa lungo la strada, mi disse che lei si fermava spesso a pregare in quel luogo, quando si recava al suo lavoro, situato qualche centinaio di metri più avanti, lungo il Corso Umberto I.

La chiesa di Santa Maria Egiziaca a Forcella era situata a ridosso del popolare quartiere Forcella, affacciata sul Rettifilo (Corso Umberto I). Entrammo in quella chiesa, mi sembrò subito molto più grande di quanto dava da dimostrare esternamente. Ci sedemmo in una delle prime panche, dopo aver inserito qualche spicciolo nell’offertorio sotto il quadro della Madonna, a cui mia mamma volle raccomandare il suo figliolo ammalato e quello che aveva in grembo, tendendomi la mano aperta sulla testa.

Uscimmo dalla chiesa per incamminarci verso il vicinissimo ospedale, lasciammo la famosa piazzetta del Cippo a Forcella a sinistra ed arrivammo davanti all’ingresso del nosocomio, situato di fronte ad una grande fontana che mi intimorì non poco.

Fontana della Scompigliata

Era la cosiddetta fontana della “Scompigliata” (chiamata poi dai napoletani “della scapellata”), formata da una grossa vasca di marmo con al centro una colonna terminante con una grossa testa di donna, bruttissima, con le orecchie grandi ed una bocca larghissima da dove fuoriusciva il getto d’acqua. Mi portai immediatamente la mano alla bocca pensando al mio grosso problema alla gola ed al sangue che ne sarebbe dovuto sgorgare, alla stessa velocità e quantità del liquido che emetteva la sua boccaccia. 

La vecchia struttura ospedaliera era proprio di fronte, alla fontana, con i muri ammalorati e quasi senza intonaco.

L’ospedale Ascalesi, si trovava in quell'antico complesso da circa una cinquantina di anni, aveva preso il posto di un monastero. Costruito nel trecento dalla regina Sancha d’Aragona, moglie di Roberto D’Angiò, per ospitare le prostitute pentite. Il complesso, comprendente la chiesa, fu dedicato a Santa Maria Egizica, la santa vissuta da eremita in Egitto, dopo una vita fatta di elemosina e prostituzione.

Delle fasi concitate del ricovero non ricordo granché, solo carezze sulla testa dei vari addetti in camice bianco a compassione del mio fisico fortemente debilitato. Ricordo bene che tutti mi presero in giro quando mia mamma mi spogliò per mettermi il pigiama. 

Trovarono il mio povero fisico fortemente dimagrito ed in contrasto con la pancia voluminosa, tanto da accostarmi ad un bambino del Biafra. 

Molto indispettito, giurai di rifarmi presto del mio fisico, mantenendo però intatto il volume della mia pancia. Devo dire, al cospetto di tanti anni, di aver mantenuto la promessa.

Mi ritrovai da solo, impigiamato e sistemato in un letto che mi sembrava enorme per il mio fisico minuto. Eravamo in otto ragazzi in quello stanzone, io ero visibilmente il più piccolo. Mi sentivo gli occhi addosso e cercavo di nascondermi sotto le lenzuola, per sfuggire ai loro sguardi indiscreti ed interroganti. Rimuginavo circa la “scapellata”, pensando che di notte potesse attraversare l’enorme finestrone per venirmi ad ispezionare la gola. Non ci potevo pensare. Quando stavo per acquetarmi da questi brutti pensieri sentii una presenza vicino al letto. “Guagliò scetate, amma piglià nu poco e sango” (ragazzo svegliati, dobbiamo prendere un po’ di sangue). L’infermiere nerboruto e con la voce roca, faceva paura, rimasi impietrito, non riuscivo a fare nessun movimento. Mi prese il braccio e mi lego un laccio di gomma, mi disse di guardare dal lato opposto, non riuscii a girare il collo, bloccato come uno stoccafisso in tutto il corpo. Quell’ago entrò ed uscì in svariati punti del mio braccio innumerevoli volte. Sudavo freddo e cominciai a tremare, conati di vomito non trovavano la strada nella gola ostruita e ritornavano violentemente nello stomaco striminzito e pieno d’aria. Girò attorno al letto, senza aver prelevato una goccia di sangue. Si impossessò dell’altro braccio. Altro laccio di gomma, più volte stretto, slegato e riallacciato in varie posizioni. Ma è incredibile, disse con meraviglia, Biafra non ha le vene. I miei occhi ormai pieni di lacrime si spalancarono, la mia mente andò indietro nel tempo per cercare di capire in quale circostanza avrei potuto smarrire le mie vene.

Arrivarono altre due infermiere, dopo svariati tentativi fatti dal trio vestito di bianco, finalmente una di loro trovò la fatidica vena, ubicata a loro dire profondamente, nel dorso della mano. Al termine, le mie esili braccia erano ricoperte da numerosi lividi di vario colore e cerotti, mi sembravano la cartina fisica dell’Italia appesa nella mia scuola.

Il supplizio dei prelievi del sangue durò per l’intera settimana. Ero esausto, senza forze e molto preoccupato. Oltretutto non vedevo mia mamma da qualche giorno. Una mattina la intravidi nel corridoio, feci uno sforzo per alzarmi e mi trascinai da lei. Anche le gambe mi facevano male. Sentii un dottore che le diceva di essere preoccupato, in quanto nonostante le forti dosi di antibiotico, il quadro clinico non migliorava. Le tonsille erano infettate e purulenti, si prospettava una operazione molto più complessa del dovuto. Intanto chiesero l’autorizzazione a mettermi una cannula dal collo per evitare di bucarmi in continuazione le membra, senza più spazio dove cercare le vene buone.

La mamma scoppiò a piangere, andai veloce per quanto potessi verso di lei, mi abbracciò continuando a piangere. Cercai di rincuorarla e le dissi di stare tranquilla che avrei accettato qualsiasi cosa pur di tornare presto a scuola.

Quella stessa mattina, un ago si fece strada nella mia gola per lasciare un tubicino fermato con vari cerotti. Quella, nei giorni a seguire diventò l’unica via per i continui prelievi e flebo, sia per introdurre medicinali che supporti all’alimentazione, visto che dalla bocca entravano solo cibi liquidi.

Passarono una decina di giorni abbastanza tranquilli, senza più punture, la febbre sparì del tutto, cominciai anche a camminare speditamente in giro per il reparto. Tutti mi conoscevano, ricoverati e personale medico ed infermieristico, purtroppo con il nome di Biafra, ed avevano compassione per me. Tutti in qualche modo mi coccolavano, vedendomi quasi sempre solo, senza familiari. Io però sapevo che mia mamma era impegnata con il lavoro e mio padre era impossibilitato a venire a trovarmi.

Finalmente il 27 marzo, giorno di Pasqua, al mattino, con mia grande meraviglia vidi entrare nella camera la mamma, con un pancione enorme, il papà e mio fratello Giacomo. Scoppiai a piangere. Li abbracciai forte tutti. Mi portarono tanti doni, ma il più gradito fu quello consegnatomi da mio fratello.



Album Calciatori 1966/67

L’album, della Panini Modena, delle figurine dei calciatori, campionato 1966/67. Lo aprii subito ed andai a cercare immediatamente la mia squadra del cuore, il Napoli. L’album era nuovo, costava venti lire, mio padre mi consegnò anche otto bustine di figurine, che costavano dieci lire l’una. Immediatamente, non sentii più febbre addosso, mal di testa, mal di gola, nessun malanno e null’altro ero felice. Chiesi a Giacomo di aiutarmi ad aprire le bustine per tirare fuori le prime figurine per incollarle al posto giusto. Non vedevo Giacomo, cui ero molto attaccato, dalle vacanze di Natale che lui aveva trascorso con noi. Mio fratello infatti, dall’età di sei anni non viveva con noi, se non durante le vacanze scolastiche. Era stato mandato dai miei genitori a frequentare le scuole dell’obbligo in un collegio gestito da suore, sulla salita Miradois nel Rione Miracoli di Napoli, nel quartiere di San Carlo all'Arena.  Amavo mio fratello e mi mancava tantissimo, lo osservavo mentre attaccava le figurine. Ogni volta che scartava una figurina di un calciatore del Napoli esultava felice e mi trasmetteva le sue gioie. Conosceva a memoria i nomi di tutta la squadra della nostra città, senza doverli leggere. Anelavo fortemente che quel momento non passasse mai più. Purtroppo però arrivò il triste momento dei saluti. Strazianti!

Quelle feste pasquali passarono senza lasciare nessun ricordo. Il mio impegno era tutto mirato a completare il mio prezioso album. A giorni alterni passava mia mamma e oltre a regalarmi qualcosa di dolce da mangiare, mi lasciava sempre qualche agognata bustina di calciatori. Tante persone che mi vedevano sempre solitario mi regalavano bustine di figurine, altri mi portavano i doppioni dei loro figli. Anche alcuni infermieri e dottori mi assecondavano nel mio unico passatempo.

Passarono così circa quaranta giorni, ormai conoscevo tutti in quell’ospedale e tutti mi conoscevano. Una mattina arrivarono insieme la mamma e papà. Mi preoccupai di vederli insieme, in passato era capitato giusto in pochissime occasioni. La mamma mi disse di non preoccuparmi e di conservare le mie forze, perché quella mattina, finalmente mi avrebbero tolto il mostro dalla gola. Mi stesero su una barella e mi portarono in sala operatoria. Non ricordo più nulla! Ho rimosso dalla mia mente quel supplizio. Ero di nuovo seduto nel mio letto, con la gola arsa ed il sentore di continuare ad ingoiare sangue. Dopo qualche giorno cominciai a bere liquidi freddi e poi di seguito dei brodini e poi, finalmente tornare alla normalità.

Stavo bene, non avevo più mal di gola, ero rinato. Mi dissero che erano passati quarantacinque giorni che ero ospite dell’Ascalesi e che quel pomeriggio sarebbero venuti i miei familiari per portarmi a casa.

Preparai tutte le mie cose da portare a casa, pronto e vestito. Quando vidi la mamma in lontananza corsi verso di lei. L’abbracciai e la pregai di portarmi subito a scuola, non volevo più rimanere lì, tanto l’album dei calciatori l’avevo completato. Anzi no, mi mancava lo scudetto della Juventus ed il portiere della Roma, Pizzaballa. 

Ma non sentivo alcun bisogno di averli.

Napoli, aprile 1967


Nello Ricciardi


 


giovedì 17 ottobre 2024

GLI AMBULANTI "URLATORI" DI UNA VOLTA

Gli anni sessanta segnarono profondamente la città di Marigliano, costretta a risollevarsi dopo la sommossa della cosiddetta “Rivolta delle patate”, dove i contadini e i commercianti mariglianesi, maggiori produttori nella provincia del prezioso ma poco pagato ortaggio assaltarono la casa comunale, insieme ai colleghi venuti a dare manforte dai paesi viciniori. La rivolta, nonostante l’intervento di un nutrito numero di militari delle forze dell’ordine, culminò con l’incendio del palazzo comunale, era il 1959.

Marigliano era una città di circa ventimila abitanti, di cui quasi la metà si occupava di agricoltura e del relativo indotto.

Dalla locale stazione delle FF.SS., diretti al nord, ogni giorno partivano vagoni carichi di patate raccolte nell’agro nolano.

Ci vollero un paio di anni per sistemare al meglio le cose negli uffici comunali distrutti.

La gente dimenticò presto quella rivolta, che portò Marigliano alla ribalta nazionale.

Tutto sommato non si viveva male in questa cittadina, dove non mancavano i negozi di tutti i tipi, vantando anche la presenza di due sale cinematografiche e due stazioni ferroviarie.

A metà degli anni sessanta c’erano antiche botteghe e negozi, di antica memoria, ormai inesistenti. Ricordo addirittura una “Boulangeria” (panetterie), che vendeva pane ed alimentari. C’erano diverse mercerie, che vendevano un po’ di tutto, ma soprattutto filati. Le pollerie e le baccalerie. Insomma il commercio era basato sulle piccole botteghe, non erano ancora arrivati i discount ed i supermercati.

Nella mai vuota centrale Piazza Municipio, stazionavano sempre numerosi commercianti e uomini d’affari, non mancavano mai gli “spiccifacenti e sanzari”(mediatori e procacciatori d’affari). Queste tre ultime categorie, molto ben rappresentate, seppur in incognito, si occupavano dell’intermediazione e della relativa vendita, di case, terreni e bestiame; affitti di terreni o appartamenti; ma talvolta riuscivano persino anche a procacciare ed organizzare incontri matrimoniali.

A noi ragazzi degli anni sessanta, del quartiere San Vito, situato alla periferia ovest della città, poco importava dei negozi del centro cittadino, passavamo le nostre giornate giocando al sicuro nel nostro grande cortile, soprannominato “Shanghai” per il gran numero di famiglie che vi abitavano.

Non ci si annoiava mai in quel grande cortile, si giocava, si correva e si viveva come fossimo in una bella grande comunità. In quel cortile, ci furono degli anni dove si poterono contare circa venti famiglie ed una cinquantina tra bambini e ragazzi.

Insomma vietato tediarsi. 

Pur restando lontano dal centro cittadino, eravamo spesso visitati da venditori ambulanti urlatori, che ci portavano direttamente a casa svariate merci oppure offrivano vari servizi.

Quello che a noi bambini piaceva sicuramente di più era il “gratta ghiaccio”. Arrivava soprattutto d’estate, con una bicicletta a tre ruote, con un piccolo portapacchi anteriore. Lo sentivamo e riconoscevamo subito perché avvisava del suo arrivo con uno strano fischietto lungo, seguito dal grido “ratta ratta fridd fridd” (Gratta gratta freddo freddo). Scendeva dalla bicicletta e veniva subito attorniato dai bambini, che si acquetavano solo all’arrivo dei rispettivi genitori. Il tizio alzava una coperta dove sotto veniva messa in bella mostra una grossa lastra di ghiaccio. Con un attrezzo di metallo a forma di parallelogramma, grattava sulla superfice della lastra, riempendo lo strumento di ghiaccio tritato che scaricato in una carta, veniva irrorato di sciroppo, che poteva essere limone, menta, arancia o amarena. Erano i nostri gelati primordiali.

Dello stracciaio, ne ho già scritto in un altro racconto appropriato (link a fondo pagina).

Un altro personaggio che ricordo volentieri era “Vincenzo lo Stuccaiuolo” (Vincenzo venditore di stoccafisso). Arrivava da Somma Vesuviana, il paese per eccellenza per la lavorazione del baccalà e dello stoccafisso.

Entrava dal portone con la sua Lambretta beige, con una cassetta al posto del seggiolino del passeggero. Il suo grido era “Voglio o stocch, co' limone 'o stocch” (Voglio lo stoccafisso, con il limone lo stoccafisso). 

Vendeva pezzi pregiati ed alcuni a buon mercato, tra cui ricordo il “mussillo, la pancetta ed il filetto”.

Vincenzo amava raccontare l’origine dei suoi merluzzi ed il perché la sua città fosse diventata così importante per la lavorazione di questo pesce. 

Raccontava che l’origine dello stoccafisso risaliva ai Vichinghi, tra i primi a sottoporre il merluzzo fresco di pescato, diliscato e decapitato, a quel processo di essiccazione ai venti freddi dell’Artico fino a trasformarlo come un bastone di legno (dall’olandese stoc “bastone” e visch “pesce”).

Leggermente differente, invece, l’origine del baccalà, che si deve ai pescatori baschi, impossibilitati ad essiccare il merluzzo al soffio di venti particolarmente freddi. Essi escogitarono quindi un metodo di conservazione diverso, quello della salatura, che prevedeva di ricoprire di sale il merluzzo pescato dopo averlo privato delle interiora.

Entrambi però necessitavano di essere lavorati in ammollo per renderli utilizzabili in cucina. Somma Vesuviana era avvantaggiata per avere a disposizione l’acqua limpida e fresca delle sorgenti del fiume Sebeto. Insomma, Vincenzo era un venditore di pesce e dispensatore di cultura.

Circa trimestralmente ci faceva visita lo “Mpagliasegge” (l’impagliatore di sedie). Un uomo che girava con un vecchio fumante e rumoroso motocarro, contenente sedie di legno impagliate nuove ed alcune matasse di paglia, con i relativi attrezzi per aggiustare i pianali delle sedie, che a quei tempi erano quasi tutte impagliate. Chiaramente il suo grido per farsi sentire non poteva essere che “Mpagliasegge”.

Si fermava solitamente all’inizio della scalinata, subito dopo l’ingresso nel cortile. Quando poteva si metteva subito a riparare le sedie che gli venivano portate. Quando invece queste erano veramente messe male chiedeva tempo per rimetterle a posto e le portava via, talvolta lasciando una in prestito.

Valentino, il “cassusaro” (venditore di gassose), vendeva bibite varie e gassose, molto utilizzate a quei tempi per allungare il vino. Aveva un piccolo camioncino, veniva da Lausdomini. Minutino di corporatura, moro e ricciolino, era davvero una persona molto simpatica. Non urlava, ma si faceva sentire con un fischio strano autoprodotto, che sembrava vagamente il verso di un uccellino. Nonostante il suo fisico minuto, aveva un’abilità nel far letteralmente volare le casse di plastica contenenti le bottiglie di vetro. Oltre alle bibite, vendeva anche le bombole del gas butano.

Alcuni venditori che capitavano saltuariamente erano davvero strani. Ormai non esistono più. Uno era il capellaio. Era un personaggio che non piaceva a noi bambini, sempre dall’aspetto burbero e vestito molto male e sudicio. Comprava ciocche di capelli e trecce tagliate, per farne parrucche. Si faceva sentire urlando “Capille e parrucche” (capelli e parrucche). 

Non aveva l’abitudine di pagare, ma di barattare con varie mercanzie per la cucina, per la verità di poco conto e probabilmente anche di scarso valore. Spesso, quando riteneva che le ciocche di capelli offerti erano striminzite e per lui di poco conto, offriva la possibilità di riportarlo in un libretto e mettendolo in conto per le volte successive. Naturalmente le litigate delle avventrici, che reclamavano i loro diritti, erano all’ordine del giorno

Soprattutto d’inverno, capitava nel cortile, con la sua bicicletta trainante un rimorchietto di legno rudimentale, l’ombrellaio. “Forbice e curtielli e mbrielli” (forbici, coltelli ed ombrelli), era il suo richiamo.

Riparava qualsiasi ombrello con grande abilità ed in pochissimo tempo, oltre ad affilare lame, rasoi, coltelli e forbici di casa, grazie ad una mola che azionava tramite i pedali della bicicletta, una volta alzata su di un cavalletto, dopo aver staccato la catena dalla trasmissione del velocipede alla mola.

“Jamme ca varrichina” (andiamo con la candeggina) era il grido del venditore di detersivi. Con il suo pulmino chiuso, era avanti tecnologicamente rispetto agli altri, utilizzava già un megafono amplificato. La potenza del suo grido gli permetteva di poter rimanere in strada, senza entrare nel nostro cortile.

Svariati, invece, erano i verdurai, alcuni con il carretto trainato da animali da soma, alcuni con motocarri. Tutti accomunati dall’urlo quasi simile, che richiamava alle loro verdure e frutta di stagione. Ricordo uno in particolare che vendeva i cocomeri che richiamava la gente con “so’ russi, so’ belli, magni, bive e te lavi ‘a faccia” (sono rossi, sono belli, mangi, bevi e ti lavi la faccia).

Molti di questi venditori si alternavano con le stagioni diverse. 

Nei mesi estivi passava, con la sua cesta in testa, tremendamente in equilibrio, la “Cevezara” (venditrice di gelsi), venditrice di dolci more, gelsi e fragole, ottime anche per le marmellate. Con una voce stridula e forte richiamava al grido di “so  ddoce ‘e ceveze” ( sono dolci i gelsi).

In autunno capitava il “semmenzaro” (venditore di sementi secche), con una bicicletta con un grosso cesto pieno di lupini, semi di zucca, frutta secca varia al grido di “tengo e salatielli, vieni a pruvà” (ho i semi salati vieni a provarli).

Talvolta avverto la nostalgia del “grido” del venditore ambulante, figura che è ormai tramontata.

A piedi o con il carrettino, carichi di una merce da reclamizzare attraverso le loro colorite costruzioni verbali.

Erano gli ambulanti con la loro unicità nella forma espressiva, la precarietà del loro lavoro, l’avventatezza di quel commercio al minuto spesso senza nessuna organizzazione, si fidavano e si affidavano ai loro richiami coloriti per catturare compratori. La necessità di sopravvivere, commisurata all’importanza della vendita del loro prodotto o all’offerta dei loro servizi li rendeva riconosciuti e validi nel momento del bisogno.

Ottobre 2024

Nello Ricciardi


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Lo Stracciaio


martedì 8 ottobre 2024

1962 TRASFERIMENTO A MUGNANO DEL CARDINALE

Il piccolo Nello tra i genitori
L’arrivo in famiglia del piccolo Nello, suo malgrado, aggravò ancora di più le condizioni economiche, già pesantemente deficitarie della famiglia, composta già da quattro persone. Le bocche da sfamare erano diventate cinque, il lavoro a mamma Maddalena pesava e mancava ed il papà Giuseppe, gravemente ipovedente, non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. 
Nonostante le dure restrizioni imposte ed assolutamente non volute, i tre bambini crescevano apparentemente sani in salute e temprati nello spirito. Passavano le loro giornate all’interno del cortile sicuro e chiuso alla strada. Alcune ragazze che abitavano all’interno di quel cortile, si dedicavano amorevolmente ai tre pargoletti, regalando loro tanta attenzione ed amore. Spesso, i proprietari dell’attiguo negozio, regalavano ai bambini piccoli pacchetti contenenti i prodotti alimentari che commerciavano. Legumi secchi, farine, semole. Altri vicini invece, sempre attenzionati ai tre piccini, regalavano i prodotti del loro orto. Passarono così i primi due anni della mia vita a Lausdomini, chiuso all’interno di quel cortile, insieme a mia sorella Anna e mio fratello Giacomo. 
Mia mamma, sempre più spesso, fortunatamente, cominciò a trovare qualche lavoro, quando a servizio di qualche famiglia benestante, talora impegnata nei campi per la raccolta degli ortaggi. Il papà, invece, quando non dormiva, succedeva di sovente, stava insieme a noi. 
Grazie al vicino bottegaio, anche lui ipovedente, anzi cieco del tutto ed iscritto al relativo sindacato, papà riuscì a farsi assegnare una piccola rivalutazione sulla pensione di invalidità civile per ciechi. Questa nuova entrata sicura e definitiva cambiò il corso delle cose. 
Finalmente la nostra vita iniziò a migliorare un pochino. Non è che poi i bambini se ne accorgessero tanto, ma per lo meno il morale in casa era migliore, le liti tra gli adulti si attenuavano e la vita ci vedeva crescere con più lunghi momenti di relativa tranquillità.
Talvolta ci veniva a trovare, da Mugnano del Cardinale, il nonno Giacomo, papà della mamma. Il nonno aveva un carattere poco socievole ed autoritario. Voleva sempre aver ragione lui e soprattutto con mio padre, non andava per niente d’accordo. Accusava mio padre di non aver voglia di fare nulla, di dormire tutto il giorno e di trascurare i figli. 
Prima di andar via, aspettava apposta che rientrasse la mamma, raccontandole tutte le sue preoccupazioni ed esortandola ad andare a vivere vicino a lui, a suo dire l’unica persona che avrebbe potuto occuparsi attivamente dei tre nipoti. 
Queste sempre più continue attenzioni, non richieste, del nonno verso di noi unitamente al fatto che mio padre si fece prendere da una sorta di pesante gelosia verso mia madre, a suo dire, passava troppo tempo fuori dalla famiglia, naturalmente per lavoro, iniziarono di nuovo le pesanti liti tra di loro. Mio padre, purtroppo, iniziò ad usare troppo spesso le mani per far valere le sue ragioni nei confronti della mamma, che si vedeva costretta a chiamare in soccorso la vicina sorella maggiore, anche per assistere noi tre piccoli ed indifesi. 
La difficile situazione non trovava sbocchi, gli animi non si calmavano e fu così che mio padre ormai invaso dalla sua gelosia, esortato e supportato dal nonno Giacomo, decise di andare via da Lausdomini e da quella casa per trasferirsi vicino a lui, a Mugnano del Cardinale, sicuro che la mamma avesse accettato proprio perché sarebbe andata vicino a suo padre.
Giacomo aveva cinque anni, Anna quattro e Nello due.
Mugnano del Cardinale
Ci trasferimmo così in quel piccolo paese dell’avellinese, ai piedi del promontorio del Partenio, in via Roma, la strada principale del borgo. 
L’alloggio aveva l’entrata proprio dalla carrozzabile principale, presentava un ingresso con sala a cucina, un’altra camera interna conteneva la stanza da letto per tutti e cinque. Dalla cucina una porticina immetteva in un piccolo cortiletto interno dove c’era un piccolissimo manufatto baraccato che conteneva il gabinetto.
Il nonno abitava qualche centinaio di metri più avanti, in un vicoletto interno.
La mamma trovò subito lavoro, seppur sempre precario, in zona. 
Mio padre si riprese abbastanza della sua gelosia e continuò a fare quello che aveva sempre fatto, cioè niente.
La nostra cucina aveva una grata di ferro a protezione della finestra che dava sulla strada, mio padre approfittava di quegli ancoraggi solidi, per legare una funicella al girello dove mi faceva passare le ore della giornata, piazzandomi sul marciapiede, a debita distanza dalla strada statale. Anna e Giacomo, ormai grandicelli, erano in grado di stare attenti alla loro incolumità. Questa era una delle cause che faceva adirare oltremodo mio nonno, che trovava sempre una ragione per attaccare lite con mio padre.
Il fatto che il nonno stava troppo vicino a noi, alla fine non si rilevò per niente un valore aggiunto. Le loro liti erano continue e spesso al limite della violenza. Noi bambini ci spaventavamo molto per questi loro battibecchi senza alcun rispetto dell’uno e dell’altro. Le discussioni ovviamente venivano riportate a mia mamma che chiaramente prendeva sempre ed a prescindere le difese di suo padre. 
L’inferno era di nuovo a casa nostra. 
Spesso mio fratello Giacomo andava da solo a casa del nonno, richiamato più dalle sue caramelle che dall’attaccamento al nonno. Un giorno Giacomo tornò a casa rosso in viso e con qualche livido evidente, piangendo notevolmente. Raccontò che il nonno lo aveva picchiato, accusandolo ingiustamente di aver rubato le sue caramelle. Mio padre lo prese per un braccio e lo portò da lui per chiedere informazioni sull’accaduto. Mio nonno, quando arrivò mio padre, lo accolse con il fucile da caccia imbracciato, pronto a difendersi. 
Fortunatamente si trovò a passare nei pressi un cugino di mio nonno. 
Il cugino era ritenuto da tutti una persona da rispettare ma non per comportamenti esemplari, bensì per i suoi modi di essere sbruffone e prepotente, insomma un guappo. 
Si interpose tra di loro, chiedendo spiegazioni e quando capì che il nonno aveva esagerato con il nipote, gli tolse il fucile dalle mani e gli accomodò due sonori schiaffi sul viso, esortandolo a vergognarsi per quanto fatto ed a rientrare subito in casa. Mio nonno, in preda alla vergogna, mestamente incassò la figuraccia e fece rientro in casa.
La sera arrivò mia mamma e quando gli venne raccontato l’accaduto, non poté fare a meno di mettersi contro suo padre. Questa volta non si trattava di difendere l’onore di mio padre, ma quello del suo primogenito Giacomo.
Si incamminò infuriata dal nonno, arrivato da lui non volle sentire le sue ragioni, gliene urlò di cotte e di crude, come solo lei sapeva dirle quando era veramente arrabbiata. Concluse la sua filippica con l’avvertimento che presto avrebbe lasciato quella casa, insieme alla sua famiglia, per andare lontano da lui.
Tornò a casa e mise al corrente mio padre di quella sua decisione definitiva ed insindacabile. A mio padre non parve vero di andare via, lontano dalla persona che più odiava in quel momento.
Il mattino dopo, prendemmo il treno delle SFSM, da Baiano per Marigliano, andammo a casa di zia Violanda, la sorella maggiore della mamma. 
Raccontarono tutto con dovizia di particolari, agli zii. 
Alla fine pregarono a zio Felice di farsi carico, nel più breve tempo possibile, di aiutarli a trovare una casa a Marigliano.
Lo zio non fece passare molto tempo, nella stessa settimana trovò la casa, nel quartier San Vito di Marigliano. 
Andarono subito a vederla, ma era una pura formalità, l’avrebbero accettata in qualsiasi condizione fosse stata.
Il mattino di martedì, due luglio 1963, il festoso concerto delle campane del Santuario richiamava il popolo di Mugnano del Cardinale alla preghiera ed alla partecipazione in chiesa per la messa in onore della sua Patrona, Maria SS. delle Grazie.
Da Via Roma, quasi all’altezza della strada che portava al Santuario, la famiglia Ricciardi, dopo aver caricato mobili e mercanzie sul camioncino OM Leoncino azzurro, con sovra sponde in legno, lasciava dopo circa un anno e per sempre anche quella mesta residenza, per trasferirsi di nuovo nel comune di Marigliano. 
Luglio 1963
Nello Ricciardi
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