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venerdì 25 ottobre 2024

1967 - UNA BRUTTISSIMA TONSILLITE

Ospedale Ascalesi

Le idi di febbraio del 1967 mi portarono febbre altissima e continua, accompagnata da fortissimi mal di gola. L’impossibilità di mangiare e bere, debilitava il mio povero fisico già fortemente provato ed asciutto all’inverosimile. Mia mamma preoccupata per il mio repentino calo di peso, mi portò dal dottore che dopo aver cercato invano di ispezionare la mia gola, utilizzando il solito, a me fortemente inviso, manico del cucchiaio per schiacciare la lingua, dopo sei o sette iniziali conati di vomito, con il serio pericolo di fuoriuscita delle orbite oculari dalla loro sede naturale, rinunciò ad infierire, sentenziando una abnorme infiammazione delle tonsille. Non preoccupatevi, riferì a mia mamma, una bella cura con sei fiale di penicillina intramuscolo, risolverà al meglio il brutto malore. Nel mentre che il dottore pronunciava questa ultima frase, la mia mente iniziò velocissimamente a percorrere la nostra casa, in cerca dei vari nascondigli utili a non farsi trovare dalla nostra vicina, “zi’ Felicella”, deputata occasionalmente ad infermiera volontaria di tutto il vicinato.

Il primo nascondiglio utilizzato non funzionò. Mi attaccarono su tre lati e senza alcuna pietà per i miei lacrimoni, mi trascinarono fuori da sotto il letto. Non volevo guardare quello scatolino d’acciaio pieno d’acqua bollente, contenenti gli strumenti di tortura per i malcapitati bambini inermi. 

Zi’ Felicella, che doveva scegliere l’ago, diceva che a suo insindacabile parere, avrebbe dovuto utilizzare l’ago più grosso, ovviamente, per via della polvere contenuta nella penicillina. Alle sue parole cercai di trasformarmi in una biscia per svincolarmi dalla possente presa rugbistica di mio padre.  Non ci fu alcun combattimento, la lotta era impari ed ero destinato a soccombere contro tutte le mie volontà. A nulla servirono le mie promesse urlate riguardanti la revisione e remissione in tutto nel mio carattere, già di per sé buono, che sarebbe diventato fin da subito angelico. L’ago rigido, freddo e ciclopico entrò nel mio piccolo gluteo irrigidito fino allo spasmo, con la stessa forza che parimenti l’urlo gigantesco uscì dalla mia gola seppur già torturata dalle tonsille.

Il dolore che mi procurò il liquido denso, mi portò quasi allo svenimento, dalla bocca non usciva più un alito di fiato, solo gemiti di sottomissione.

Subito dopo fui liberato da tutte le prese, scappai velocemente e raggiunsi immediatamente il nascondiglio purtroppo già violato, ancora con il pantaloncino abbassato. 

Altre cinque strazianti puntate, dello stesso identico copione, si susseguirono nei giorni successivi. Tutti i miei nascondigli furono deliberatamente forzati e scoperti.

Nonostante questi sacrifici e sofferenze, la febbre non calava, ormai avevo perso il conto dei giorni di scuola che stavo perdendo.

Frequentavo la prima elementare, mia mamma preoccupata per le troppe assenze scolastiche, una mattina decise di accompagnarmi a scuola, per parlare con la mia cara maestra.

Giunti in classe, di corsa, occupai il mio solito posto, il primo banco. Ho sempre amato occupare quella posizione, anche negli anni a seguire, mi dava sicurezza e non mi consentiva opportunità di distrazione. Ero molto attratto dalle due enormi cartine geografiche, l’Italia politica e quella fisica, poste sul muro dietro la cattedra. Inoltre amavo ripassare nella mente tutte le grandi schede con disegni colorati che riportavano le lettere iniziali degli oggetti ivi rappresentati.  Scritte in stampatello, in corsivo, minuscolo e maiuscolo, nei quattro angoli, formavano le ventuno lettere dell’alfabeto italiano.

Ero felice di stare li quella mattina, con il quaderno aperto sul banco e la penna già pronta per scrivere.

Non persi però l’occasione di ascoltare la conversazione tra mia mamma e la maestra.

Tra i vari discorsi riuscii a capire che da li a poco avrei dovuto ricoverarmi per l’asportazione delle tonsille. Mia mamma era angosciata al pensiero degli ulteriori giorni di assenza che avrei accumulato oltre a quelli già passati. La maestra la rassicurò, le disse di non preoccuparsi, in quanto ero un bambino diligente, disse proprio così, abbastanza avanti nell’apprendimento e che sapevo già leggere e scrivere molto bene e che ci avrebbe pensato lei a giustificare nei confronti del direttore le mie numerose assenze. 

Stava per arrivare la primavera, ma molto prima di essa arrivò inesorabile il giorno previsto per il mio ricovero in ospedale. Accompagnato dalla mamma, prendemmo il treno della Vesuviana da Marigliano a Napoli. Non stavo bene, ero fortemente debilitato ed ero tormentato dalla febbre che non mi dava tregua.

Mia mamma mi teneva per mano, gliela tenevo stretta sapendo che da li a poco avrei dovuto lasciarla. Durante il tragitto mi spiegò il motivo di quel viaggio, mi disse che avrebbe dovuto lasciarmi nell’ospedale qualche giorno, in modo che i dottori potessero finalmente liberarmi dal mostro che si era impossessato della mia gola. 

Arrivati alla stazione di Napoli, ci dirigemmo verso Porta Nolana, attraversandola. La mamma volle entrare in una chiesa lungo la strada, mi disse che lei si fermava spesso a pregare in quel luogo, quando si recava al suo lavoro, situato qualche centinaio di metri più avanti, lungo il Corso Umberto I.

La chiesa di Santa Maria Egiziaca a Forcella era situata a ridosso del popolare quartiere Forcella, affacciata sul Rettifilo (Corso Umberto I). Entrammo in quella chiesa, mi sembrò subito molto più grande di quanto dava da dimostrare esternamente. Ci sedemmo in una delle prime panche, dopo aver inserito qualche spicciolo nell’offertorio sotto il quadro della Madonna, a cui mia mamma volle raccomandare il suo figliolo ammalato e quello che aveva in grembo, tendendomi la mano aperta sulla testa.

Uscimmo dalla chiesa per incamminarci verso il vicinissimo ospedale, lasciammo la famosa piazzetta del Cippo a Forcella a sinistra ed arrivammo davanti all’ingresso del nosocomio, situato di fronte ad una grande fontana che mi intimorì non poco.

Fontana della Scompigliata

Era la cosiddetta fontana della “Scompigliata” (chiamata poi dai napoletani “della scapellata”), formata da una grossa vasca di marmo con al centro una colonna terminante con una grossa testa di donna, bruttissima, con le orecchie grandi ed una bocca larghissima da dove fuoriusciva il getto d’acqua. Mi portai immediatamente la mano alla bocca pensando al mio grosso problema alla gola ed al sangue che ne sarebbe dovuto sgorgare, alla stessa velocità e quantità del liquido che emetteva la sua boccaccia. 

La vecchia struttura ospedaliera era proprio di fronte, alla fontana, con i muri ammalorati e quasi senza intonaco.

L’ospedale Ascalesi, si trovava in quell'antico complesso da circa una cinquantina di anni, aveva preso il posto di un monastero. Costruito nel trecento dalla regina Sancha d’Aragona, moglie di Roberto D’Angiò, per ospitare le prostitute pentite. Il complesso, comprendente la chiesa, fu dedicato a Santa Maria Egizica, la santa vissuta da eremita in Egitto, dopo una vita fatta di elemosina e prostituzione.

Delle fasi concitate del ricovero non ricordo granché, solo carezze sulla testa dei vari addetti in camice bianco a compassione del mio fisico fortemente debilitato. Ricordo bene che tutti mi presero in giro quando mia mamma mi spogliò per mettermi il pigiama. 

Trovarono il mio povero fisico fortemente dimagrito ed in contrasto con la pancia voluminosa, tanto da accostarmi ad un bambino del Biafra. 

Molto indispettito, giurai di rifarmi presto del mio fisico, mantenendo però intatto il volume della mia pancia. Devo dire, al cospetto di tanti anni, di aver mantenuto la promessa.

Mi ritrovai da solo, impigiamato e sistemato in un letto che mi sembrava enorme per il mio fisico minuto. Eravamo in otto ragazzi in quello stanzone, io ero visibilmente il più piccolo. Mi sentivo gli occhi addosso e cercavo di nascondermi sotto le lenzuola, per sfuggire ai loro sguardi indiscreti ed interroganti. Rimuginavo circa la “scapellata”, pensando che di notte potesse attraversare l’enorme finestrone per venirmi ad ispezionare la gola. Non ci potevo pensare. Quando stavo per acquetarmi da questi brutti pensieri sentii una presenza vicino al letto. “Guagliò scetate, amma piglià nu poco e sango” (ragazzo svegliati, dobbiamo prendere un po’ di sangue). L’infermiere nerboruto e con la voce roca, faceva paura, rimasi impietrito, non riuscivo a fare nessun movimento. Mi prese il braccio e mi lego un laccio di gomma, mi disse di guardare dal lato opposto, non riuscii a girare il collo, bloccato come uno stoccafisso in tutto il corpo. Quell’ago entrò ed uscì in svariati punti del mio braccio innumerevoli volte. Sudavo freddo e cominciai a tremare, conati di vomito non trovavano la strada nella gola ostruita e ritornavano violentemente nello stomaco striminzito e pieno d’aria. Girò attorno al letto, senza aver prelevato una goccia di sangue. Si impossessò dell’altro braccio. Altro laccio di gomma, più volte stretto, slegato e riallacciato in varie posizioni. Ma è incredibile, disse con meraviglia, Biafra non ha le vene. I miei occhi ormai pieni di lacrime si spalancarono, la mia mente andò indietro nel tempo per cercare di capire in quale circostanza avrei potuto smarrire le mie vene.

Arrivarono altre due infermiere, dopo svariati tentativi fatti dal trio vestito di bianco, finalmente una di loro trovò la fatidica vena, ubicata a loro dire profondamente, nel dorso della mano. Al termine, le mie esili braccia erano ricoperte da numerosi lividi di vario colore e cerotti, mi sembravano la cartina fisica dell’Italia appesa nella mia scuola.

Il supplizio dei prelievi del sangue durò per l’intera settimana. Ero esausto, senza forze e molto preoccupato. Oltretutto non vedevo mia mamma da qualche giorno. Una mattina la intravidi nel corridoio, feci uno sforzo per alzarmi e mi trascinai da lei. Anche le gambe mi facevano male. Sentii un dottore che le diceva di essere preoccupato, in quanto nonostante le forti dosi di antibiotico, il quadro clinico non migliorava. Le tonsille erano infettate e purulenti, si prospettava una operazione molto più complessa del dovuto. Intanto chiesero l’autorizzazione a mettermi una cannula dal collo per evitare di bucarmi in continuazione le membra, senza più spazio dove cercare le vene buone.

La mamma scoppiò a piangere, andai veloce per quanto potessi verso di lei, mi abbracciò continuando a piangere. Cercai di rincuorarla e le dissi di stare tranquilla che avrei accettato qualsiasi cosa pur di tornare presto a scuola.

Quella stessa mattina, un ago si fece strada nella mia gola per lasciare un tubicino fermato con vari cerotti. Quella, nei giorni a seguire diventò l’unica via per i continui prelievi e flebo, sia per introdurre medicinali che supporti all’alimentazione, visto che dalla bocca entravano solo cibi liquidi.

Passarono una decina di giorni abbastanza tranquilli, senza più punture, la febbre sparì del tutto, cominciai anche a camminare speditamente in giro per il reparto. Tutti mi conoscevano, ricoverati e personale medico ed infermieristico, purtroppo con il nome di Biafra, ed avevano compassione per me. Tutti in qualche modo mi coccolavano, vedendomi quasi sempre solo, senza familiari. Io però sapevo che mia mamma era impegnata con il lavoro e mio padre era impossibilitato a venire a trovarmi.

Finalmente il 27 marzo, giorno di Pasqua, al mattino, con mia grande meraviglia vidi entrare nella camera la mamma, con un pancione enorme, il papà e mio fratello Giacomo. Scoppiai a piangere. Li abbracciai forte tutti. Mi portarono tanti doni, ma il più gradito fu quello consegnatomi da mio fratello.



Album Calciatori 1966/67

L’album, della Panini Modena, delle figurine dei calciatori, campionato 1966/67. Lo aprii subito ed andai a cercare immediatamente la mia squadra del cuore, il Napoli. L’album era nuovo, costava venti lire, mio padre mi consegnò anche otto bustine di figurine, che costavano dieci lire l’una. Immediatamente, non sentii più febbre addosso, mal di testa, mal di gola, nessun malanno e null’altro ero felice. Chiesi a Giacomo di aiutarmi ad aprire le bustine per tirare fuori le prime figurine per incollarle al posto giusto. Non vedevo Giacomo, cui ero molto attaccato, dalle vacanze di Natale che lui aveva trascorso con noi. Mio fratello infatti, dall’età di sei anni non viveva con noi, se non durante le vacanze scolastiche. Era stato mandato dai miei genitori a frequentare le scuole dell’obbligo in un collegio gestito da suore, sulla salita Miradois nel Rione Miracoli di Napoli, nel quartiere di San Carlo all'Arena.  Amavo mio fratello e mi mancava tantissimo, lo osservavo mentre attaccava le figurine. Ogni volta che scartava una figurina di un calciatore del Napoli esultava felice e mi trasmetteva le sue gioie. Conosceva a memoria i nomi di tutta la squadra della nostra città, senza doverli leggere. Anelavo fortemente che quel momento non passasse mai più. Purtroppo però arrivò il triste momento dei saluti. Strazianti!

Quelle feste pasquali passarono senza lasciare nessun ricordo. Il mio impegno era tutto mirato a completare il mio prezioso album. A giorni alterni passava mia mamma e oltre a regalarmi qualcosa di dolce da mangiare, mi lasciava sempre qualche agognata bustina di calciatori. Tante persone che mi vedevano sempre solitario mi regalavano bustine di figurine, altri mi portavano i doppioni dei loro figli. Anche alcuni infermieri e dottori mi assecondavano nel mio unico passatempo.

Passarono così circa quaranta giorni, ormai conoscevo tutti in quell’ospedale e tutti mi conoscevano. Una mattina arrivarono insieme la mamma e papà. Mi preoccupai di vederli insieme, in passato era capitato giusto in pochissime occasioni. La mamma mi disse di non preoccuparmi e di conservare le mie forze, perché quella mattina, finalmente mi avrebbero tolto il mostro dalla gola. Mi stesero su una barella e mi portarono in sala operatoria. Non ricordo più nulla! Ho rimosso dalla mia mente quel supplizio. Ero di nuovo seduto nel mio letto, con la gola arsa ed il sentore di continuare ad ingoiare sangue. Dopo qualche giorno cominciai a bere liquidi freddi e poi di seguito dei brodini e poi, finalmente tornare alla normalità.

Stavo bene, non avevo più mal di gola, ero rinato. Mi dissero che erano passati quarantacinque giorni che ero ospite dell’Ascalesi e che quel pomeriggio sarebbero venuti i miei familiari per portarmi a casa.

Preparai tutte le mie cose da portare a casa, pronto e vestito. Quando vidi la mamma in lontananza corsi verso di lei. L’abbracciai e la pregai di portarmi subito a scuola, non volevo più rimanere lì, tanto l’album dei calciatori l’avevo completato. Anzi no, mi mancava lo scudetto della Juventus ed il portiere della Roma, Pizzaballa. 

Ma non sentivo alcun bisogno di averli.

Napoli, aprile 1967


Nello Ricciardi


 


giovedì 17 ottobre 2024

GLI AMBULANTI "URLATORI" DI UNA VOLTA

Gli anni sessanta segnarono profondamente la città di Marigliano, costretta a risollevarsi dopo la sommossa della cosiddetta “Rivolta delle patate”, dove i contadini e i commercianti mariglianesi, maggiori produttori nella provincia del prezioso ma poco pagato ortaggio assaltarono la casa comunale, insieme ai colleghi venuti a dare manforte dai paesi viciniori. La rivolta, nonostante l’intervento di un nutrito numero di militari delle forze dell’ordine, culminò con l’incendio del palazzo comunale, era il 1959.

Marigliano era una città di circa ventimila abitanti, di cui quasi la metà si occupava di agricoltura e del relativo indotto.

Dalla locale stazione delle FF.SS., diretti al nord, ogni giorno partivano vagoni carichi di patate raccolte nell’agro nolano.

Ci vollero un paio di anni per sistemare al meglio le cose negli uffici comunali distrutti.

La gente dimenticò presto quella rivolta, che portò Marigliano alla ribalta nazionale.

Tutto sommato non si viveva male in questa cittadina, dove non mancavano i negozi di tutti i tipi, vantando anche la presenza di due sale cinematografiche e due stazioni ferroviarie.

A metà degli anni sessanta c’erano antiche botteghe e negozi, di antica memoria, ormai inesistenti. Ricordo addirittura una “Boulangeria” (panetterie), che vendeva pane ed alimentari. C’erano diverse mercerie, che vendevano un po’ di tutto, ma soprattutto filati. Le pollerie e le baccalerie. Insomma il commercio era basato sulle piccole botteghe, non erano ancora arrivati i discount ed i supermercati.

Nella mai vuota centrale Piazza Municipio, stazionavano sempre numerosi commercianti e uomini d’affari, non mancavano mai gli “spiccifacenti e sanzari”(mediatori e procacciatori d’affari). Queste tre ultime categorie, molto ben rappresentate, seppur in incognito, si occupavano dell’intermediazione e della relativa vendita, di case, terreni e bestiame; affitti di terreni o appartamenti; ma talvolta riuscivano persino anche a procacciare ed organizzare incontri matrimoniali.

A noi ragazzi degli anni sessanta, del quartiere San Vito, situato alla periferia ovest della città, poco importava dei negozi del centro cittadino, passavamo le nostre giornate giocando al sicuro nel nostro grande cortile, soprannominato “Shanghai” per il gran numero di famiglie che vi abitavano.

Non ci si annoiava mai in quel grande cortile, si giocava, si correva e si viveva come fossimo in una bella grande comunità. In quel cortile, ci furono degli anni dove si poterono contare circa venti famiglie ed una cinquantina tra bambini e ragazzi.

Insomma vietato tediarsi. 

Pur restando lontano dal centro cittadino, eravamo spesso visitati da venditori ambulanti urlatori, che ci portavano direttamente a casa svariate merci oppure offrivano vari servizi.

Quello che a noi bambini piaceva sicuramente di più era il “gratta ghiaccio”. Arrivava soprattutto d’estate, con una bicicletta a tre ruote, con un piccolo portapacchi anteriore. Lo sentivamo e riconoscevamo subito perché avvisava del suo arrivo con uno strano fischietto lungo, seguito dal grido “ratta ratta fridd fridd” (Gratta gratta freddo freddo). Scendeva dalla bicicletta e veniva subito attorniato dai bambini, che si acquetavano solo all’arrivo dei rispettivi genitori. Il tizio alzava una coperta dove sotto veniva messa in bella mostra una grossa lastra di ghiaccio. Con un attrezzo di metallo a forma di parallelogramma, grattava sulla superfice della lastra, riempendo lo strumento di ghiaccio tritato che scaricato in una carta, veniva irrorato di sciroppo, che poteva essere limone, menta, arancia o amarena. Erano i nostri gelati primordiali.

Dello stracciaio, ne ho già scritto in un altro racconto appropriato (link a fondo pagina).

Un altro personaggio che ricordo volentieri era “Vincenzo lo Stuccaiuolo” (Vincenzo venditore di stoccafisso). Arrivava da Somma Vesuviana, il paese per eccellenza per la lavorazione del baccalà e dello stoccafisso.

Entrava dal portone con la sua Lambretta beige, con una cassetta al posto del seggiolino del passeggero. Il suo grido era “Voglio o stocch, co' limone 'o stocch” (Voglio lo stoccafisso, con il limone lo stoccafisso). 

Vendeva pezzi pregiati ed alcuni a buon mercato, tra cui ricordo il “mussillo, la pancetta ed il filetto”.

Vincenzo amava raccontare l’origine dei suoi merluzzi ed il perché la sua città fosse diventata così importante per la lavorazione di questo pesce. 

Raccontava che l’origine dello stoccafisso risaliva ai Vichinghi, tra i primi a sottoporre il merluzzo fresco di pescato, diliscato e decapitato, a quel processo di essiccazione ai venti freddi dell’Artico fino a trasformarlo come un bastone di legno (dall’olandese stoc “bastone” e visch “pesce”).

Leggermente differente, invece, l’origine del baccalà, che si deve ai pescatori baschi, impossibilitati ad essiccare il merluzzo al soffio di venti particolarmente freddi. Essi escogitarono quindi un metodo di conservazione diverso, quello della salatura, che prevedeva di ricoprire di sale il merluzzo pescato dopo averlo privato delle interiora.

Entrambi però necessitavano di essere lavorati in ammollo per renderli utilizzabili in cucina. Somma Vesuviana era avvantaggiata per avere a disposizione l’acqua limpida e fresca delle sorgenti del fiume Sebeto. Insomma, Vincenzo era un venditore di pesce e dispensatore di cultura.

Circa trimestralmente ci faceva visita lo “Mpagliasegge” (l’impagliatore di sedie). Un uomo che girava con un vecchio fumante e rumoroso motocarro, contenente sedie di legno impagliate nuove ed alcune matasse di paglia, con i relativi attrezzi per aggiustare i pianali delle sedie, che a quei tempi erano quasi tutte impagliate. Chiaramente il suo grido per farsi sentire non poteva essere che “Mpagliasegge”.

Si fermava solitamente all’inizio della scalinata, subito dopo l’ingresso nel cortile. Quando poteva si metteva subito a riparare le sedie che gli venivano portate. Quando invece queste erano veramente messe male chiedeva tempo per rimetterle a posto e le portava via, talvolta lasciando una in prestito.

Valentino, il “cassusaro” (venditore di gassose), vendeva bibite varie e gassose, molto utilizzate a quei tempi per allungare il vino. Aveva un piccolo camioncino, veniva da Lausdomini. Minutino di corporatura, moro e ricciolino, era davvero una persona molto simpatica. Non urlava, ma si faceva sentire con un fischio strano autoprodotto, che sembrava vagamente il verso di un uccellino. Nonostante il suo fisico minuto, aveva un’abilità nel far letteralmente volare le casse di plastica contenenti le bottiglie di vetro. Oltre alle bibite, vendeva anche le bombole del gas butano.

Alcuni venditori che capitavano saltuariamente erano davvero strani. Ormai non esistono più. Uno era il capellaio. Era un personaggio che non piaceva a noi bambini, sempre dall’aspetto burbero e vestito molto male e sudicio. Comprava ciocche di capelli e trecce tagliate, per farne parrucche. Si faceva sentire urlando “Capille e parrucche” (capelli e parrucche). 

Non aveva l’abitudine di pagare, ma di barattare con varie mercanzie per la cucina, per la verità di poco conto e probabilmente anche di scarso valore. Spesso, quando riteneva che le ciocche di capelli offerti erano striminzite e per lui di poco conto, offriva la possibilità di riportarlo in un libretto e mettendolo in conto per le volte successive. Naturalmente le litigate delle avventrici, che reclamavano i loro diritti, erano all’ordine del giorno

Soprattutto d’inverno, capitava nel cortile, con la sua bicicletta trainante un rimorchietto di legno rudimentale, l’ombrellaio. “Forbice e curtielli e mbrielli” (forbici, coltelli ed ombrelli), era il suo richiamo.

Riparava qualsiasi ombrello con grande abilità ed in pochissimo tempo, oltre ad affilare lame, rasoi, coltelli e forbici di casa, grazie ad una mola che azionava tramite i pedali della bicicletta, una volta alzata su di un cavalletto, dopo aver staccato la catena dalla trasmissione del velocipede alla mola.

“Jamme ca varrichina” (andiamo con la candeggina) era il grido del venditore di detersivi. Con il suo pulmino chiuso, era avanti tecnologicamente rispetto agli altri, utilizzava già un megafono amplificato. La potenza del suo grido gli permetteva di poter rimanere in strada, senza entrare nel nostro cortile.

Svariati, invece, erano i verdurai, alcuni con il carretto trainato da animali da soma, alcuni con motocarri. Tutti accomunati dall’urlo quasi simile, che richiamava alle loro verdure e frutta di stagione. Ricordo uno in particolare che vendeva i cocomeri che richiamava la gente con “so’ russi, so’ belli, magni, bive e te lavi ‘a faccia” (sono rossi, sono belli, mangi, bevi e ti lavi la faccia).

Molti di questi venditori si alternavano con le stagioni diverse. 

Nei mesi estivi passava, con la sua cesta in testa, tremendamente in equilibrio, la “Cevezara” (venditrice di gelsi), venditrice di dolci more, gelsi e fragole, ottime anche per le marmellate. Con una voce stridula e forte richiamava al grido di “so  ddoce ‘e ceveze” ( sono dolci i gelsi).

In autunno capitava il “semmenzaro” (venditore di sementi secche), con una bicicletta con un grosso cesto pieno di lupini, semi di zucca, frutta secca varia al grido di “tengo e salatielli, vieni a pruvà” (ho i semi salati vieni a provarli).

Talvolta avverto la nostalgia del “grido” del venditore ambulante, figura che è ormai tramontata.

A piedi o con il carrettino, carichi di una merce da reclamizzare attraverso le loro colorite costruzioni verbali.

Erano gli ambulanti con la loro unicità nella forma espressiva, la precarietà del loro lavoro, l’avventatezza di quel commercio al minuto spesso senza nessuna organizzazione, si fidavano e si affidavano ai loro richiami coloriti per catturare compratori. La necessità di sopravvivere, commisurata all’importanza della vendita del loro prodotto o all’offerta dei loro servizi li rendeva riconosciuti e validi nel momento del bisogno.

Ottobre 2024

Nello Ricciardi


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Lo Stracciaio


martedì 8 ottobre 2024

1962 TRASFERIMENTO A MUGNANO DEL CARDINALE

Il piccolo Nello tra i genitori
L’arrivo in famiglia del piccolo Nello, suo malgrado, aggravò ancora di più le condizioni economiche, già pesantemente deficitarie della famiglia, composta già da quattro persone. Le bocche da sfamare erano diventate cinque, il lavoro a mamma Maddalena pesava e mancava ed il papà Giuseppe, gravemente ipovedente, non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. 
Nonostante le dure restrizioni imposte ed assolutamente non volute, i tre bambini crescevano apparentemente sani in salute e temprati nello spirito. Passavano le loro giornate all’interno del cortile sicuro e chiuso alla strada. Alcune ragazze che abitavano all’interno di quel cortile, si dedicavano amorevolmente ai tre pargoletti, regalando loro tanta attenzione ed amore. Spesso, i proprietari dell’attiguo negozio, regalavano ai bambini piccoli pacchetti contenenti i prodotti alimentari che commerciavano. Legumi secchi, farine, semole. Altri vicini invece, sempre attenzionati ai tre piccini, regalavano i prodotti del loro orto. Passarono così i primi due anni della mia vita a Lausdomini, chiuso all’interno di quel cortile, insieme a mia sorella Anna e mio fratello Giacomo. 
Mia mamma, sempre più spesso, fortunatamente, cominciò a trovare qualche lavoro, quando a servizio di qualche famiglia benestante, talora impegnata nei campi per la raccolta degli ortaggi. Il papà, invece, quando non dormiva, succedeva di sovente, stava insieme a noi. 
Grazie al vicino bottegaio, anche lui ipovedente, anzi cieco del tutto ed iscritto al relativo sindacato, papà riuscì a farsi assegnare una piccola rivalutazione sulla pensione di invalidità civile per ciechi. Questa nuova entrata sicura e definitiva cambiò il corso delle cose. 
Finalmente la nostra vita iniziò a migliorare un pochino. Non è che poi i bambini se ne accorgessero tanto, ma per lo meno il morale in casa era migliore, le liti tra gli adulti si attenuavano e la vita ci vedeva crescere con più lunghi momenti di relativa tranquillità.
Talvolta ci veniva a trovare, da Mugnano del Cardinale, il nonno Giacomo, papà della mamma. Il nonno aveva un carattere poco socievole ed autoritario. Voleva sempre aver ragione lui e soprattutto con mio padre, non andava per niente d’accordo. Accusava mio padre di non aver voglia di fare nulla, di dormire tutto il giorno e di trascurare i figli. 
Prima di andar via, aspettava apposta che rientrasse la mamma, raccontandole tutte le sue preoccupazioni ed esortandola ad andare a vivere vicino a lui, a suo dire l’unica persona che avrebbe potuto occuparsi attivamente dei tre nipoti. 
Queste sempre più continue attenzioni, non richieste, del nonno verso di noi unitamente al fatto che mio padre si fece prendere da una sorta di pesante gelosia verso mia madre, a suo dire, passava troppo tempo fuori dalla famiglia, naturalmente per lavoro, iniziarono di nuovo le pesanti liti tra di loro. Mio padre, purtroppo, iniziò ad usare troppo spesso le mani per far valere le sue ragioni nei confronti della mamma, che si vedeva costretta a chiamare in soccorso la vicina sorella maggiore, anche per assistere noi tre piccoli ed indifesi. 
La difficile situazione non trovava sbocchi, gli animi non si calmavano e fu così che mio padre ormai invaso dalla sua gelosia, esortato e supportato dal nonno Giacomo, decise di andare via da Lausdomini e da quella casa per trasferirsi vicino a lui, a Mugnano del Cardinale, sicuro che la mamma avesse accettato proprio perché sarebbe andata vicino a suo padre.
Giacomo aveva cinque anni, Anna quattro e Nello due.
Mugnano del Cardinale
Ci trasferimmo così in quel piccolo paese dell’avellinese, ai piedi del promontorio del Partenio, in via Roma, la strada principale del borgo. 
L’alloggio aveva l’entrata proprio dalla carrozzabile principale, presentava un ingresso con sala a cucina, un’altra camera interna conteneva la stanza da letto per tutti e cinque. Dalla cucina una porticina immetteva in un piccolo cortiletto interno dove c’era un piccolissimo manufatto baraccato che conteneva il gabinetto.
Il nonno abitava qualche centinaio di metri più avanti, in un vicoletto interno.
La mamma trovò subito lavoro, seppur sempre precario, in zona. 
Mio padre si riprese abbastanza della sua gelosia e continuò a fare quello che aveva sempre fatto, cioè niente.
La nostra cucina aveva una grata di ferro a protezione della finestra che dava sulla strada, mio padre approfittava di quegli ancoraggi solidi, per legare una funicella al girello dove mi faceva passare le ore della giornata, piazzandomi sul marciapiede, a debita distanza dalla strada statale. Anna e Giacomo, ormai grandicelli, erano in grado di stare attenti alla loro incolumità. Questa era una delle cause che faceva adirare oltremodo mio nonno, che trovava sempre una ragione per attaccare lite con mio padre.
Il fatto che il nonno stava troppo vicino a noi, alla fine non si rilevò per niente un valore aggiunto. Le loro liti erano continue e spesso al limite della violenza. Noi bambini ci spaventavamo molto per questi loro battibecchi senza alcun rispetto dell’uno e dell’altro. Le discussioni ovviamente venivano riportate a mia mamma che chiaramente prendeva sempre ed a prescindere le difese di suo padre. 
L’inferno era di nuovo a casa nostra. 
Spesso mio fratello Giacomo andava da solo a casa del nonno, richiamato più dalle sue caramelle che dall’attaccamento al nonno. Un giorno Giacomo tornò a casa rosso in viso e con qualche livido evidente, piangendo notevolmente. Raccontò che il nonno lo aveva picchiato, accusandolo ingiustamente di aver rubato le sue caramelle. Mio padre lo prese per un braccio e lo portò da lui per chiedere informazioni sull’accaduto. Mio nonno, quando arrivò mio padre, lo accolse con il fucile da caccia imbracciato, pronto a difendersi. 
Fortunatamente si trovò a passare nei pressi un cugino di mio nonno. 
Il cugino era ritenuto da tutti una persona da rispettare ma non per comportamenti esemplari, bensì per i suoi modi di essere sbruffone e prepotente, insomma un guappo. 
Si interpose tra di loro, chiedendo spiegazioni e quando capì che il nonno aveva esagerato con il nipote, gli tolse il fucile dalle mani e gli accomodò due sonori schiaffi sul viso, esortandolo a vergognarsi per quanto fatto ed a rientrare subito in casa. Mio nonno, in preda alla vergogna, mestamente incassò la figuraccia e fece rientro in casa.
La sera arrivò mia mamma e quando gli venne raccontato l’accaduto, non poté fare a meno di mettersi contro suo padre. Questa volta non si trattava di difendere l’onore di mio padre, ma quello del suo primogenito Giacomo.
Si incamminò infuriata dal nonno, arrivato da lui non volle sentire le sue ragioni, gliene urlò di cotte e di crude, come solo lei sapeva dirle quando era veramente arrabbiata. Concluse la sua filippica con l’avvertimento che presto avrebbe lasciato quella casa, insieme alla sua famiglia, per andare lontano da lui.
Tornò a casa e mise al corrente mio padre di quella sua decisione definitiva ed insindacabile. A mio padre non parve vero di andare via, lontano dalla persona che più odiava in quel momento.
Il mattino dopo, prendemmo il treno delle SFSM, da Baiano per Marigliano, andammo a casa di zia Violanda, la sorella maggiore della mamma. 
Raccontarono tutto con dovizia di particolari, agli zii. 
Alla fine pregarono a zio Felice di farsi carico, nel più breve tempo possibile, di aiutarli a trovare una casa a Marigliano.
Lo zio non fece passare molto tempo, nella stessa settimana trovò la casa, nel quartier San Vito di Marigliano. 
Andarono subito a vederla, ma era una pura formalità, l’avrebbero accettata in qualsiasi condizione fosse stata.
Il mattino di martedì, due luglio 1963, il festoso concerto delle campane del Santuario richiamava il popolo di Mugnano del Cardinale alla preghiera ed alla partecipazione in chiesa per la messa in onore della sua Patrona, Maria SS. delle Grazie.
Da Via Roma, quasi all’altezza della strada che portava al Santuario, la famiglia Ricciardi, dopo aver caricato mobili e mercanzie sul camioncino OM Leoncino azzurro, con sovra sponde in legno, lasciava dopo circa un anno e per sempre anche quella mesta residenza, per trasferirsi di nuovo nel comune di Marigliano. 
Luglio 1963
Nello Ricciardi
P.S. Se vuoi leggere il precedente:







mercoledì 10 aprile 2024

I FOLLETTI DI GRETA E MARLENE

Il grande e fiorito ciliegio nel giardino di casa Ricciardi allungava i suoi imponenti e lunghi rami maestri, parallelamente al verdissimo sottostante prato, formando una robusta impalcatura che dava supporto ai nodosi rami verticali, da dove dipartivano numerosi virgulti che avrebbero dato, come ormai abituati da tempo, a numerosi frutti rossi, dolci e succosi. La pianta era diventata, in pochissimi anni, imponente facendo spuntare di tanto in tanto, grosse radici, che non riuscendo a penetrare il sottosuolo fortemente argilloso, si propagavano  longitudinali lungo il prato, dove si stagliava la sua stessa ombra.

Quella stessa ombra dove amava passare le giornate calde ed oziose il nostro cane dal pelo corto e nero. 

Tach, così lo avevano chiamato le bambine, le sorelle Greta e Marlene, era stato regalato da una conoscente di Fiumaretta. Pura razza di madre bastarda, anche lui come sua madre non aveva conosciuto il padre e forse nemmeno sua mamma aveva la sicurezza di quale cane potesse essere stato ad ingravidarla. A tutti piaceva e speravano che si rivelasse presto un potente rottweiler, almeno così sembravano le sue caratteristiche da cucciolo,  poi prontamente smentite con la crescita. Zampe grosse ed imponenti, corpo agile, di statura media, un'agilità ed una corsa incredibile, che lo associavano di più ad un levriero, se non ad un canguro sbagliato.

Purtroppo le sue rilassanti dormite sotto la chioma ombrosa, venivano puntualmente interrotte da due dispettosissimi folletti, che proprio su quell'albero amavano passare le loro giornate a giocare ed a rincorrersi.

I due fratellini erano stati assegnati alle due bambine, Greta e Marlene, come da tradizione millenaria a Montemarcello, imposta dalla comunità dei folletti del bosco del Caprione, dove ogni volta che nasceva un nuovo folletto il loro papà avrebbe dovuto piantare un leccio.

Ogni bambino, fino all'età di sei anni aveva il diritto ad essere affiancato da un folletto, maschio o femmina, contrariamente al sesso del bambino. Pertanto come amici delle due bambine erano capitati i fratelli Bedaello e Viciatello.

Non si capiva chi di loro era il più grande, entrambi non più alti di una spanna, di colorito brunastro, occhi grandi e vispi rispetto al viso. Non avevano naso ed orecchie sporgenti, ma solo degli orifizi, bocca molto larga, quanto tutto il viso. Le braccia lunghe e forti, gambe corte e tozze, capelli lunghi, fin quasi alle ginocchia. Vestiti rigorosamente di verde con un cappuccio marrone. Avevano la prerogativa di saper parlare e di capire il linguaggio degli animali, ma con i bambini non riuscivano a dire più di tre lettere di fila, pur comprendendone tutti i discorsi. Amavano solo giocare.

Dormivano riparati in una botola che rimaneva sempre aperta, sotto le scale d'ingresso della casa di Nello e Rita, i genitori delle due bambine. Nello stesso sottoscala accolsero Tach, quando arrivò cucciolo e finirono per dividere l'alloggio facendosi reciproca compagnia.

Quando Greta e Marlene tornavano da scuola, andavano ad aspettarle alla fermata degli autobus, facendo festa e rincorrendole con gioia. Allo stesso tempo, ne approfittavano per incontrare gli altri folletti che erano assegnati a tutti i bambini di Montemarcello. Il risultato era che tutti i bambini per giocare con i folletti lasciavano le mani dei genitori per correre felici con loro, prendendosi tutti i rimbrotti possibili.

Tach ci rimaneva molto male, perché doveva restare da solo a casa ad aspettare. Non gli piaceva affatto questa situazione, pertanto riusciva quasi sempre a trovare un buco nella recinzione oppure a saltarla arrampicandosi a mo' di scimmia, raggiungendo le bambine ed i folletti ed ad unirsi a loro ed a partecipare alle corse spericolate.

Quando riuscivano, si infilavano in casa e mangiavano qualcosa insieme alle ragazze, spesso sporcando dappertutto o le aiutavano nei compiti, soprattutto a fare disegni incomprensibili, consumando e rompendo oltremodo le punte dei pastelli. Naturalmente Nello e Rita non potevano vederli, a loro era precluso, nemmeno potevano ricordare i loro folletti, in quanto dopo i sei anni, i bambini non avrebbero più potuto vederli né ricordarli per tutta la vita. Questo valeva per Rita che era di Montemarcello, Nello era un "foresto" e nel posto da dove proveniva non c'erano folletti, ma solo gnomi, che erano comunque un'altra entità.

Appena potevano, Greta e Marlene, approfittando dell'arrivo delle belle giornate, amavano stare a giocare in giardino, soprattutto sull'altalena doppia, costruita artigianalmente  da Nello, con dei ferrotubi da edilizia. A Tach, a Viciatello ed a Bedaello non piaceva quel gioco, per la loro struttura fisica erano impossibilitati a parteciparvi.

Tach ne approfittava per schiacciare il solito pisolino sotto il vicino limone, ma i folletti che avevano il sangue argentato, non riuscivano a stare fermi. Riuscirono con uno stratagemma a far scendere le ragazze dalle altalene, sfidandole a chi facesse per prima il giro della casa.

Greta aveva sei anni e frequentava la prima elementare, di carattere molto tranquilla, giocosa al punto giusto, senza esagerazioni, dovuto anche alla sua proverbiale flemma, riusciva spesso a stare da sola o con i parenti ed amici, senza sentire troppo il distacco dai genitori. Insomma presentava un carattere molto indipendente. Marlene di tredici mesi più piccola, frequentava il secondo anno della scuola materna. Smilza, scaltra ed iperattiva, amava correre e fare giochi pericolosi. Il suo unico difetto, se così si poteva chiamare era troppo attaccata alla mamma. Non la si poteva lasciare a nessuno dei parenti, diventava un dramma ed allagava la casa di lacrime.

Fecero il primo giro della casa, naturalmente Marlene stava avanti con il suo folletto Bedaello che la guidava incitandola ed urlando a squarciagola, Greta seguiva leggermente distaccata, con Viciatello che cercava di spingerla disperato.

Tach continuava a dormire incurante degli schiamazzi che producevano i quattro scalmanati.

Ogni tanto Rita si affacciava dalla finestra per controllare il buon andamento dei giochi, pregandole, inascoltata di andare più piano.

Al terzo giro Marlene e Bedaello lasciarono un buon distacco alla coppia più lenta, Bedaello ne approfittò per dare una pacca a Tach, che svegliatosi all'improvviso, sbattè la testa al tronco del limone ed iniziò a correre quando passarono Greta e Viciatello. Proprio quando Tach  raggiunse Greta, lei rallentò stremata e nello stesso tempo facendo perno sulla gamba si girò pensando di tornare indietro. Tach, che aveva preso subito una forte accelerazione, trovando l'ostacolo di Greta ferma, non riuscì a schivarla e le piantò la sua zampona all'altezza del femore. 

Le urla di Greta arrivarono subito a Nello e Rita, che corsero fuori.

Greta distesa a terra implorava aiuto, la sua gamba era piegata a novanta gradi in modo anomalo, subito sopra al ginocchio.

I folletti avevano capito il dramma e non ce la fecero a rimanere sul posto, scapparono nella loro casa, convincendo Tach a fare altrettanto.

Marlene piangeva accanto alla sorella. Rita urlava in preda al panico. Nello capì subito l'entità della tragedia.  Secondo lui la gamba era rotta all'altezza del femore e la sua sicurezza appariva tutta dal gonfiore violaceo abnorme che ne era scaturito.

Accorsero anche i nonni, Nello dovette faticare non poco a tenerli lontani senza far toccare la bimba per non compromettere ulteriormente la situazione.

Nello prese una vecchia porta che aveva lasciato dietro la casa, la sistemo più vicino possibile a Greta infilandola lentamente sotto il corpo, cercando di non muoverle di un millimetro. Riuscì a sistemarla sopra senza farla scomporre, assicuratosi che non c'era ulteriore fuoriuscita di sangue interno,  pregò Rita di tenere sopra l'apparente ferita una borsa di ghiaccio.

Con l'aiuto di nonno Aldo, la trasportammo all'auto e poi diritti  al pronto soccorso.

L'ortopedico, che subito la prese a carico, fece i complimenti a Nello per come aveva attrezzato l'intervento, senza toccare mai la gamba e sistemandola su una struttura rigida, evitando contraccolpi e facendo applicare correttamente  il ghiaccio.

L'esito delle radiografie immediate confermarono la frattura del femore. Portarono subito Greta in sala operatoria, dove gli applicarono un ferro da parte a parte del femore, mettendo la gamba in tiro.

Rimase una settimana sul lettino dell'ospedale con i pesi attaccati a tirare la parte da allineare.

Non fu sicuramente una bella settimana, sicuramente Greta la ricorderà per tutta la vita. La mamma rimase sempre con lei, notte e giorno.

Tach e Marlene erano tristi a casa, soprattutto il cane, a cui i folletti avevano spiegato l'accaduto. 

Viciatello riuscì un paio di volte ad infilarsi in macchina di Nello ed a raggiungere Greta in ospedale. Lo si capiva in quanto in quelle rare volte la bambina risultava assente ai genitori continuando però a ridere ed a bisbigliare qualcosa di nascosto.

Greta tornò a casa ingessata dal petto a tutta la gamba ed aveva mantenuto nel gesso il ferro nel femore, inferto in sala operatoria.

Furono giorni atroci per lei, impossibilitata a muoversi e costretta in una posizione anomala ed altamente scomoda. Tuttavia, Viciatello non la lasciò mai, nemmeno quando un mese dopo, aggravato dal gran caldo le venne diagnosticata  la varicella. Il suo corpo si riempì di bollicine e poi di piccole vesciche, il prurito, soprattutto all'interno dell'ingessatura era diventato insopportabile. Viciatello cercava di portarle sollievo anche soffiando, per quello che poteva, all'interno di quel vestito di ovatta e gesso, per portare un minimo di refrigerio.

Bedaello cercava di tenere su con il morale Marlene, non facendole perdere la voglia di giocare.

Il tempo del riposo forzato finì e Greta venne portata in ospedale per controllare l'esito di quella cura statica. Fortunatamente la frattura si calcificò al punto giusto, il ferro le venne tolto, non senza sofferenza.

Tornò a casa per riunirsi ai suoi grandi amici, anche loro in modi diversi scossi da quel brutto episodio. Marlene, Tach, Bedaello e Viciatello si riunirono a Greta e tornarono insieme a giocare spensierati nel loro giardino.

Il sette dicembre di quello stesso anno, Greta festeggiò il suo sesto compleanno. Lo celebrò insieme agli altri in casa, erano tutti felici, tranne Viciatello. Sapeva che il giorno dopo sarebbe dovuto tornare nei boschi del Caprione, nei pressi del suo Leccio piantato apposta per lui.

Non avrebbe potuto più vedere Greta nè lei si sarebbe più ricordata di lui. Questa ere la ferrea regola del popolo dei folletti del Caprione.


Montemarcello 1996

Nello Ricciardi



LAUSDOMINI - 1955/1962




Giuseppe e Maddalena, in fuga da San Giovanni a Teduccio, ma più che altro dalla mamma e suocera, arrivarono nella città di Marigliano, ospitati da Violanda e Felice, sorella maggiore e cognato di Maddalena. 
I cognati si offrirono di accogliere presso di loro, per un breve periodo, i due giovani sposi, nel loro piccolo e spoglio bilocale fronte strada, nei pressi della stazione della circumvesuviana. Il bilocale presentava un classico spazio adibito a cucina ed una camera da letto, delimitata da un pannello di legno e tela. Un piccolissimo ed angusto locale bagno, coperto con una lamiera era ubicato all'aperto nel cortile condominiale.
Felice non aveva un lavoro fisso e sbarcava il lunario, arrangiandosi con insufficienti lavori giornalieri a chiamata, non disdegnando spesso, di adattarsi a fare lo "sciuscia", aiutando il fratello minore nel nobile lavoro di lustrascarpe, al centro di Marigliano. Tuttavia dove riusciva a trovare qualche lira in più per  far quadrare il misero bilancio giornaliero per mantenere la famiglia, era presso un'osteria in via Giannone. In quel posto, sempre saturo di fumo, gli avventori si ritrovavano per bere il classico bicchiere di vino, ma soprattutto per sedersi attorno ad un tavolo verde, per giocare a carte. 
Felice era bravissimo nel gioco della zecchinetta, un antico passatempo introdotto in Italia dai lanzichenecchi. Un gioco ritenuto d'azzardo e proibito da praticare con i soldi. Logicamente e purtroppo per lui e famiglia, seppur fosse molto bravo nel gioco, non tutti i giorni risultavano fortunati e quindi spesso non si riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena. 
La vita non riservò loro grandi fortune e benessere, altresì, li aveva dotati di una grande generosità commisurata al loro cuore enorme. Dal loro matrimonio non arrivarono figli, ma nonostante gli stenti, desideravano averli. Non si tirarono indietro e non ci pensarono due volte, quando capitò loro l'occasione, ad accogliere nella famiglia un "figlio della guerra", per salvarlo dall'abbandono, il suo nome era Carlo, ma per loro diventò Giovanni. Una loro conoscente, infatti, aveva partorito questo figlio, nel 1941, mentre il marito era in guerra, ma con il rientro del marito non avrebbe potuto nasconderlo, né avrebbe potuto mantenerlo, aveva già un elevato numero di figli, così Felice e Violanda, si offrirono per dare un tetto e qualcosa da mangiare a questo bambino accudendolo come genitori. Giovanni, quando arrivarono in casa i due giovani sposi, aveva ormai quattordici anni,  cresceva forte, sveglio e sano e fin dalla tenera età si diede da fare nel lavoro, toccò così a lui ben presto mantenere i due genitori adottivi. Nel frattempo, non si tirarono indietro, ed ancora una volta, nel 1954, accolsero con loro un'altra bambina, Nicolina, anch'essa nata da un rapporto infedele e che sarebbe stata abbandonata dalla mamma biologica. Nicolina aveva appena un anno, quando arrivarono in casa gli zii,  riempiendo momentaneamente gli ultimi spazi del già piccolo bilocale. Erano veramente troppi in quella residenza, quattro adulti, un adolescente ed una bambina in quella modestissima abitazione.
Felice si diede subito da fare per trovare una sistemazione idonea per i giovani cognati, che non conoscevano il nuovo paese.  Passarono giusto un paio di mesi e spinto anche dal bisogno di liberare spazi al più presto,  grazie a qualche amico, trovò un alloggio libero per Giuseppe e Maddalena.
Si fecero prestare un piccolo carretto di legno a due ruote, da spingere a braccia, lo caricarono con la pochissima mercanzia che avevano, quasi tutto contenuto in un baule di legno stile liberty  ed una grossa valigia di cartone pressato, inoltre un paio di sacchi contenenti qualche pentola d'alluminio ed altre pochissime stoviglie. L'unico oggetto di modesto valore, di cui Giuseppe non si sarebbe mai separato era una radio a valvole ad onde medie e corte marca Magnadyne modello S175 del 1951. La radio era contenuta ed assemblata in un elegante mobile di legno impiallacciato noce, di medie dimensioni. Giuseppe amava la sua radio, amava ascoltare la musica e le notizie, ma in particolar modo gli incontri di calcio, sopratutto quelli della sua squadra del cuore, il Napoli. L'aveva comprata usata, dopo che era diventato ipovedente, condizione sfortunata che lo portò a isolarsi in casa escludendosi per un lungo periodo dalla società. Con la rata della sua prima pensione di invalidità, volle comprare quello strumento che, a suo dire, lo teneva collegato alla realtà.
Arrivarono con non poca fatica in fondo a Corso Campano, sempre nel comune di Marigliano, nella frazione di Lausdomini.
In quel posto c'era quella che per loro fu la prima abitazione in assoluto, da quando erano sposati, dove poterono finalmente prendere la residenza di famiglia. 
L'ingresso era situato nella strada principale al piano terra, era formata da un monolocale ammobiliato con un vecchio letto interamente in metallo, un comò a tre cassettoni, con evidenti segni di tarlatura, un tavolo di legno per sei persone contornato da quattro sedie di paglia sdrucite e scompagnate. Di fronte all'ingresso principale c'era una porticina a vetri, che usciva nel cortile condominiale ubicato all'interno di un tipico palazzo di campagna di fine ottocento, dove al centro era ubicato il piccolo gabinetto con tetto in lamiera, addossato ad un grande forno a legna ed un pozzo artesiano per attingere l'acqua, tutto ad uso comune degli abitanti che si affacciavano nel cortile.
Questa misera abitazione era il massimo che potevano permettersi in quel momento. Si sistemarono facilmente e velocemente in casa, vista la scarsità delle vettovaglie ed altrettanto velocemente fecero amicizia con i vicini. Quasi tutti contadini e manovali, abituati al duro lavoro nei campi ed all'utilizzo delle pietre e mattoni. Proprio nel cortile dove abitavano, si affacciava uno dei proprietari, Raffaele, che gestiva insieme alla moglie, un piccolo negozio di alimentari e generi di granaglie per piccoli animali da fattoria. I due giovani iniziarono una bella amicizia con i nuovi vicini, Giuseppe scoprì presto che Raffaele aveva la sua stessa invalidità, anche se più aggravata, essendo cieco totale. Tuttavia Raffaele riusciva a muoversi nella sua bottega ed a servire i clienti meglio di quanto facesse la moglie, utilizzando i pesetti in ottone, per bilanciare la bascula in modo impeccabile, senza sbagliare di un grammo.
Grazie sempre ai vicini, mossi a compassione per la giovane e sfortunata coppia, Maddalena iniziò a lavorare come bracciante agricola trascorrendo delle giornate di duro lavoro in campagna, iniziando presto la mattina e tornando a casa stanca al calar del sole.
Giuseppe, invece, in qualità di non vedente partecipò a dei corsi per rilegatore di libri. Ma pur impegnandosi, non ricevette mai nessuna offerta di lavoro. Passava le sue giornate in casa ad aspettare la moglie, ascoltando musica oppure andava nel negozio di Raffaele a cercare di dare una mano, aiutandolo quando aveva bisogno, a trasportare qualche sacco di farina o di cereali.
Quando cominciarono a vivere abbastanza bene, senza più stenti ed a mangiare qualcosa di diverso dal solito ed a mettere da parte anche qualche liretta, Maddalena si accorse di essere incinta.  Purtroppo il suo lavoro era veramente molto faticoso, soprattutto per una donna incinta, ma non poteva permettersi di stare a casa, voleva dire perdere le provvigioni e quindi non guadagnare nulla. Fortunatamente Giuseppe aveva consolidato il suo, seppur piccolo, assegno fisso di pensione per la sua malattia cronica, che era una entrata sicura nel bilancio familiare.
Maddalena non volle perdere una giornata di lavoro, andava in campagna con un pancione enorme e tutti i vicini la riprendevano, consigliandole vivamente di stare a casa. Ma non volle mollare se non ad una decina di giorni dal parto.  A fine marzo del '57, nacque un bellissimo e sano marmocchio dagli occhi dolci, aveva già la riga a sinistra nei lunghi capelli neri. Gli venne dato il nome Giacomo, come il nonno materno. Allora si usava dare ai nascituri il nome dei nonni, dando la priorità ai nonni paterni (il famoso patriarcato), ma Giuseppe non potette dare quello di suo padre in quanto anche lui si chiamava Giuseppe ed all'anagrafe non lo accettarono. Questa indecisione sul nome portò ad un ritardo nella trascrizione alla casa comunale del neonato, rendendolo più giovane di tre giorni, pertanto  fu dichiarato solo il primo aprile. 
Maddalena fu così costretta a fermarsi dal lavoro, doveva badare ed allattare il piccolo tanto atteso e voluto. Passarono i mesi e purtroppo, quel poco risparmiato cominciò a finire. Cominciarono di nuovo i sacrifici e gli stenti. Maddalena iniziò di nuovo a lavorare quando il piccolo aveva circa dieci mesi, le ragazzine che abitavano nel vicinato facevano a gara a chi teneva il piccolo Giacomo, lasciandola così libera per dedicare ore al lavoro in campagna.
Maddalena era stremata, dal mancato recupero fisico, ma la sua scorza dura di montanara, l'aiutò ad affrontare di nuovo il lavoro con nuova lena.
Quando riuscì a rimettere in sesto il suo fisico e ad impegnarsi nuovamente, si accorse di aspettare un altro bambino.
Questa volta, suo malgrado, dovette assentarsi dal lavoro molto prima. Raffaele, la moglie ed altri vicini li aiutarono molto in questo periodo difficile.
Ad ottobre del '58, aiutata dall'immancabile ostetrica tuttofare di Marigliano, venne al mondo Anna. Chioma fluente e nera, lineamenti paffuti, morbidi ed olivastri, buona come solo il pane sa esserlo. La classica bambolina da tenere sul comò, vestita di tulle bianco e le scarpette nere. Questa volta Giuseppe, soddisfatto, potè dare il nome di sua mamma alla sua seconda figlia.
Appena si rimise dal secondo parto, aiutata sempre dalle gentilissime ragazzine del vicinato, che si offrivano nel lavoro di baby sitter, Maddalena ritornò a lavorare.
La vita iniziò un tantino a sorridere, i bambini crescevano bene ed erano la gioia di tutti i vicini del cortile, la posizione economica non era quella delle migliori, ma si riusciva a vivere tranquillamente.
Questa condizione non durò a lungo. Purtroppo la televisione non arrivò ancora a casa della giovane famiglia, gli inverni erano lunghi e freddi, fu così che arrivò la notizia di un'altra gravidanza.
I troppi giorni di mancato lavoro iniziarono a pesare in modo molto concreto. Ormai tiravano avanti con la sola misera pensione di Giuseppe. 
Arrivò con il solleone, in piena estate, con le idi di Luglio del 1960 il terzo bambino, spalle larghe, corpicino allungato e scheletrico, gli occhi tendenti al verde che rimanevano quasi sempre chiusi e strizzati, spiccavano su tutto le grosse orecchie  a sventola. Lo chiamarono Aniello, il nome del primo fratello di Giuseppe, ma fin da subito fu appellato Nello.

Marigliano 1960
Nello Ricciardi





giovedì 14 marzo 2024

LA FORZA DEL DESTINO

I LIGURI-APUANI NEL SANNIO
La zona del Sannio
I quarantamila Liguri, chiamati Bebiani o Corneliani, rispettivamente con i nomi dei consoli che li sconfissero e li deportarono nei nuovi territori a loro assegnati dal Senato di Roma, vennero deportati nelle aree libere del circondario che i romani avevano tolto ai Sanniti, da precedenti guerre. 
Un territorio montuoso, aspro e lontano dal mare.

Il primo luogo dove furono sistemati si trovava nella alta valle del Fiume Tammaro. Il primo villaggio costruito, probabilmente prese il nome di Bebio, che sarebbe dovuta diventare la loro capitale.

Un numero consistente di deportati rimase in quelle zone, dividendosi naturalmente più o meno in base alle tribù di appartenenza e di provenienza.

Ma altri, non abituati a rimanere in confini imposti ed a vivere in numerose comunità, cercarono con le proprie famiglie, terre libere da occupare e sfruttare, spingendosi verso il sud, discendendo la naturale valle del fiume Tammaro, fino ad arrivare nei pressi di Beneventum (odierna Benevento, capoluogo del Sannio) e quindi fino ad occupare alcuni territori dell’Irpinia. 

IL SECONDO GRUPPO DEI SETTEMILA

Deportazione via mare
Il secondo gruppo, in numero di circa settemila Liguri-Apuani, arrivò via mare circa un anno dopo, si presume che venne portato in un’area situata a sud di Beneventum, distribuendosi poi verso nord.  In questo gruppo c’era anche il capo Sengauno Gruza, con la sua compagna Garana e l’ultimo figlio rimasto Igiul. 

Gruza, con il suo clan si fermò non lontano da Beneventum, nei pressi della Via Appia. Scelse di costruire la sua prima dimora in una piccola pianura dominata e semi circondata da un promontorio poco più alto di un centinaio di metri del suo pianoro.

Quasi tutti quelli che erano appartenuti alla sua tribù, si fermarono con lui, facendo nascere un piccolo nucleo abitato. Tuttavia, lui ed i suoi uomini mantenevano l’istinto guerriero e proprio non riuscivano a non maneggiare le armi, così, una volta sistemate le famiglie, non avendo nemici da combattere in loco, si arruolarono in gran numero nell’esercito romano, per andare a combattere la terza guerra punica, con la speranza di essere ripagati in assegnazione di benefici e terre da coltivare.

Durante gli anni di assenza dei loro compagni guerrieri, le donne con i bambini si dedicarono chi al lavoro della terra e chi alla pastorizia ed allevamento di bestiame. In particolare Igiul, insieme alla mamma, in poco tempo misero insieme un certo numero di capi di armento. Igiul fin dalla tenera età imparò anche a macellare i suoi capi di bestiame, instaurando un proficuo commercio con le famiglie sannite e romane che condividevano con loro quel territorio.

Quando ritornarono dalla guerra, gli uomini apuani, trovarono la maggior parte delle famiglie ormai adattate alla vita in quel nuovo territorio, anche loro finirono per accettare quello stile di vita e col tempo finirono con il perdere la loro indole guerriera, iniziando a costruire piccoli villaggi di vita comune. 

LA TABULA ALIMENTARIA DI TRAIANO

Tabula alimentaria
I “Ligures”, così erano chiamati dai romani, stanziati nelle terre sannitiche, erano così poveri che l’imperatore Traiano, nel 101 d.C., istituì una fondazione alimentare per sostentare le famiglie con bambini: ogni villaggio avrebbe ricevuto un fondo da distribuire ai bisognosi. Tutto il regolamento, con il nome dei beneficiari, fu scritto su una sola lastra di bronzo, di m 1.20 per 1.70. 

Questa lastra, “Tabula Alimentaria di Traiano” fu trovata per caso, alla fine dell’ottocento, nel giardino di un privato a Macchia di Circello (probabile antica Bebio), nell’alto Sannio. La preziosa tavola è conservata presso il Museo nazionale di Roma.

I territori al nord, dei Liguri-Apuani rimasti nel frattempo vuoti, furono occupati da nuovi coloni, provenienti dall’esercito romano, soprattutto mercenari e collaboranti, pronti a formare famiglie ed a dedicarsi al lavoro dei campi ed alla manutenzione del territorio, di conseguenza a pagare nuove tasse all’Impero Romano. La nascente Lunigiana. Questi nuovi abitanti, ormai non più votati alla guerra, si integrarono presto con i pochi liguri-apuani superstiti locali, ripopolando le pianure e le montagne. Pertanto, in Lunigiana e nel Sannio, nuove popolazioni si adattarono e prosperarono per circa due millenni. 

LE BATTERIE MILITARI DEL CAPRIONE

All’inizio del 1900, nella località di Punta Bianca, presso Ameglia, fu costruita la batteria anti nave Dante De Lutti, armata con due cannoni di grosso calibro 152/45 ed un pezzo illuminante da 120/40. Invece a Montemarcello fu completata la Batteria Chiodo, armata con quattro obici da 280mm..  Nel territorio circostante le due batterie c’erano delle piazzole con armi antiaereo a difesa dei grossi pezzi antinave. Nell’area dell’attuale parcheggio a Montemarcello, vennero costruiti, dal genio militare, dei manufatti adibiti a caserme, per alloggio del personale militare, refettori e cucine per la logistica.

Il personale impiegato nelle rispettive batterie, apparteneva alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nella specialità di Artiglieria Marittima, che utilizzava ed addestrava il proprio personale all’utilizzo delle batterie per la difesa costiera del territorio italiano. Questi militari volontari, chiamati camice nere per l’indumento che indossavano come divisa, erano alle dipendenze della Regia Marina. 

A Montemarcello fino a poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, la Batteria Chiodo fu utilizzata come scuola di artiglieria. Nel 1940 la MVSN diventò MILMART, (Milizia di artiglieria marittima). 

A SAN MARTINO SANNITA NASCE LUIGI LEGGIERO

San Martino Sannitico
Nel 1917 a San Giacomo, frazione di San Martino Sannita, in provincia di Benevento, venne alla luce Luigi Leggiero. Ultimo di sette figli, due femmine e cinque maschi. La famiglia Leggiero si occupava da intere generazioni di macellazione e commercio di carne per alimentazione. Il territorio di San Giacomo, pur appartenendo ad altro comune, era parte integrante del più grande comune San Giorgio del Sannio, attraversato a metà dalla importantissima strada di grande comunicazione, l’antica Via Appia ed a circa dieci chilometri da Benevento. Qualcuno del posto, afferma che a circa tre chilometri da San Martino Sannita, si trova una piccola zona chiamata Garfagnana, situata più precisamente vicino alla frazione di Cucciano, dove è stato trovato un "Vico" d’epoca romana.

La posizione era strategicamente ottima per svolgere tutte le attività commerciali e soprattutto per quelle alimentari. Quando Gino, così veniva chiamato amorevolmente, l’ultimo rampollo della famiglia di macellai, arrivò a finire la scuola dell’obbligo, non ne volle proprio sapere di continuare gli studi e protetto dal fatto che fosse il più piccolo, riuscì anche a stare lontano dai compiti essenziali nell’aiutare la famiglia con il lavoro. Insomma gli piaceva la bella vita e si trastullava nel dolce far niente. 

Per la verità aveva scoperto, per caso, un’attività che gli piacque subito a prima vista. Quel gruppo di ragazzi, tutti sporchi di fango che correvano dietro, fino a contenderla, una palla ovale, lo fece innamorare. Non perse tempo e si buttò nella mischia, di nome e di fatto.

Purtroppo, però quel tipo di sport, il rugby, non era ancora catalogato in nessun campionato o federazione, almeno nel Sannio. Ma a loro non importava. Continuavano a giocare ed a correre nei campi improvvisati e rubati alle colture, sempre pieni di fango e di insidie. Poche regole e tanto rispetto, nonostante le botte ed i colpi presi in campo. Ma questa attività non poté durare a lungo, Gino riceveva giornalmente continui richiami all’ordine, imposti dai genitori, che lo invitavano ad una più partecipata vita familiare.

GINO PARTE PER IL SERVIZIO DI LEVA

Luigi Leggiero marinaio

Fu così che, arrivato alla soglia dei vent’anni, pur potendo usufruire del congedo illimitato, in quanto quinto figlio maschio, decise di non avvalersi di questa opportunità e scelse di rispondere alla chiamata per il servizio militare di leva. Nel 1937 fu chiamato a svolgere il servizio nelle file del C.R.E.M. (Corpo Regi Equipaggi Marina) ed inviato a far servizio presso il “Battaglione Artiglieria Costiera del Golfo Della Spezia” e quindi assegnato alla Batteria Dante De Lutti a Punta Bianca sita nel comune di Ameglia (SP). 

 Luigi non aveva mai sentito né conosceva la provincia spezzina, tuttavia, pur lontano dal suo Sannio, era felice di venire il Liguria, non conoscendone i motivi. Aveva il dovere di servire la Patria per ventotto mesi, con il servizio obbligatorio di leva. Il posto gli piaceva, direttamente sul mare, le giornate passavano tranquille e la franchigia (permesso di libertà dal servizio, concesso ai militari dal proprio comando) la trascorreva nel piccolo borgo, non molto lontano, di Montemarcello. In questa piccola località sul promontorio del Caprione, si conoscevano tutti e Luigi ed i suoi commilitoni finirono di farsi accettare subito e bonariamente da tutti gli abitanti del paese.  Molti di loro fecero abbastanza facilmente amicizia con la popolazione ed in particolare, qualcuno di loro si fidanzò e si sposò, portando poi via le mogli nei loro posti di provenienza.

Dopo due anni di permanenza presso la batteria De Lutti, quando ormai era vicino il momento del congedo, l’Italia entrò in guerra e quindi tutti i militari furono trattenuti in servizio, sine die (senza conoscere la data del congedo).

Con lo scoppio della guerra, entrambe le batterie vennero modernizzate e potenziate. I marinai ed il personale della MILMART cominciarono a fare sul serio ed i tempi di franchigia vennero ridotti drasticamente. 

GINO CONOSCE LEDA

Spesso Gino, ormai così lo conoscevano anche i suoi camerati e gli amici del paese, veniva inviato, a prestare servizio giornaliero, presso la Batteria Chiodo, dove dava una mano nelle cucine, visto la sua capacità nel manipolare la carne da macello. Questo lo portò ad essere più vicino alle frequentazioni con la gente del paese. Fu proprio questa l’occasione in cui fece la conoscenza di una ragazza di un anno più grande di lui. La vedeva spesso seduta sulla porta di casa a ricamare o a cucire e da buon marinaio, non aveva disdegnato alla classica battutina di approccio. Gino era un bel ragazzo e sfoggiava un fisico atletico e Leda non rimase a lungo impassibile alle sue rimostranze. Decise così di frequentarlo per qualche pomeriggio in cui lui risultasse libero. 

Leda viveva in casa con la mamma ed il fratello. Il padre, Abramo Domenichini, lo aveva perso durante la prima guerra mondiale, non fece mai più ritorno a casa, probabilmente morto in Francia. La mamma sposò in seconde nozze Elia, il fratello di Abramo, ed ebbe con lui un secondo figlio, appunto il fratello che viveva con lei e la mamma. Ma anche il secondo marito la lasciò presto, venne affondato mentre era imbarcato su una nave della Regia Marina, nonostante si fosse salvato, la disgrazia lo segnò profondamente, non ritornò più sano di mente. Venne ricoverato presso un centro di salute mentale per quasi tutta la vita.

Gino ebbe amore e pietà allo stesso tempo, per questa donna e se ne innamorò fin da subito. Luigi Leggiero e Leda Domenichini, si sposarono nel 1942, in piena seconda guerra mondiale.

Un anno dopo arrivò nella neo famiglia costituita il primo figlio, Francesco Abramo (meglio conosciuto come Franco). 

Nello stesso anno l’otto settembre Badoglio firmò l’armistizio per l’Italia. La maggior parte dei soldati italiani rimasero sbandati alla notizia, non sapendo più da chi ricevere ordini. Le due Batterie vennero assunte ed utilizzate dai soldati tedeschi che le fortificarono, per proteggere la nascente linea Gotica nell’alta Toscana, che aveva l’intento di fermare o comunque rallentare l’avanzata dei nuovi alleati italiani. Tuttavia i tedeschi, ormai in gran numero a Montemarcello, non furono mai violenti nei confronti della popolazione montemarcellese. Anzi, non disdegnavano, nel tempo libero di frequentare l’osteria e spesso venivano accompagnati la sera, molto allegri e  barcollanti in caserma.

Le Batterie e tutte le contraeree attorno a guardia dei cannoni, davano molto fastidio alle truppe alleate che cercavano di sfondare la linea gotica. Gli americani e gli inglesi cercarono in tutti i modi di bombardare, per rendere inutilizzabili, le due grandi postazioni, ma con scarsi risultati.

IL TRISTE GIORNO DI MONTEMARCELLO 13/12/1944

Si arrivò cosi ad un triste giorno per il paese e la sua popolazione.  Il 13 dicembre 1944, alcuni bombardieri, nell’intento di colpire la Batteria Chiodo e la De Lutti, sganciarono una bomba che cadde proprio al centro del borgo di Montemarcello. Il centro del paese fu distrutto, la popolazione tutta si mise a scavare per trovare eventuali superstiti. Alla fine contarono 47 morti civili. Nei giorni che seguirono il tragico evento, i paesani si rifugiarono verso i monti di Zanego e Tellaro. Occuparono tutti i rifugi possibili, quasi tutte casette di campagna, per lo più ruderi. Era dicembre e soffrirono tanto freddo e fame. Luigi, Leda ed il piccolo Franco ripararono a Tellaro presso parenti.

Ma anche questa fase tristissima della vita passò, lasciando un ricordo incancellabile nella mente. Ad aprile del quarantacinque la linea Gotica fu sfondata da parte degli alleati. I tedeschi si misero in fuga verso nord, non prima di lasciare distruzione dietro di loro. Ad essere demolite furono tutte le strutture delle caserme a Montemarcello, non rimase più nulla, solo masse di detriti.

Il ritorno alla normalità portò sacrifici e povertà da parte di tutti. Per fortuna Luigi venne assunto nelle maestranze dell’Arsenale della Spezia e la vita riprese con più fiducia.  Nel 1957, quando Franco aveva quattordici anni arrivò in famiglia anche una sorellina, Donatella.

Gino ha sempre partecipato attivamente alle attività del paese mettendo a disposizione il suo buon umore, la simpatia e la sua gentilezza innata e profondendo il suo amore per questo territorio. Se non fosse stato per la sua inflessione dialettale tipicamente campana, non sembrava per niente, caratterialmente, diverso dai Montemarcellesi. 

LA FORZA DEL DESTINO

Leda Domenichini se ne andò da questo mondo nel 1985. Gino rimase da solo in casa, con i due figli ed i quattro nipoti a coccolarlo. Luigi (Gino) Leggiero se ne andò dal Caprione, dal suo Sannio e da questo mondo nel 1994.

Poco tempo dopo, si racconta che in una calda giornata di primavera, in una delle tipiche formazioni della Caligo che aveva come al solito abbracciato il Caprione dal mare, alcuni abitanti del paese, che si trovavano nei pressi del cimitero di Montemarcello, videro danzare ad altezza d’uomo, due fiammelle libere, a similitudine di “fuochi fauti” (Secondo il folclore popolare, i fuochi fatui rappresentano le anime dei morti, che vagano fino a quando arriva il momento di essere liberati per l’aldilà). Le due fiammelle sparirono dalla loro vista quasi danzando, procedendo in direzione Bavognano. Nello stesso momento, un contadino giurò di aver visto tre di queste fiammelle, proprio nella località di Bavognano.  Anche queste tre fiammelle si allontanarono fluttuando andando in direzione sud. Nella stessa giornata, alla stessa ora, altre persone che si trovavano sul belvedere di Punta Corvo ad assistere dall’alto la densa Caligo, osservarono quattro fiammelle uguali, danzare nei pressi della Punta del Crò. Le quattro fiammelle, prima che la Caligo sparisse, sprofondarono giù verso il mare, infilandosi dentro di essa. Le videro poi, immediatamente uscire dalla grande foschia densa e bianca, velocemente dirette verso il cielo sereno oltremodo, dove scomparvero per sempre.

Una ricerca recente, ha confrontato il DNA di alcuni abitanti della Lunigiana e dell’area Apuana, confrontandolo con le popolazioni del Sannio. La ricerca ha messo in evidenza delle affinità sui geni del cromosoma “Y”.  Gli individui liguri hanno un marcatore che non esiste nel sud Italia, ma che ha un picco molto alto nelle zone dove furono deportati i Liguri-Apuani.

Il destino, purtroppo,  non lo si trova scritto da nessuna parte.

Montemarcello, marzo 2024

Nello Ricciardi

PRIMA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/02/i-sengauni-antico-popolo-ligure-apuano.html

SECONDA PARTE:

https://nelloricciardi.blogspot.com/2024/03/montemarcello.html