Avevo frequentato tre
anni di asilo dalle suore a San Vito, ero abituato a vedere le maestre con il velo in testa.
La nostra maestra,
invece, indossava un lungo camice blu,
abbottonato sul davanti.
Nonostante fosse un
tipico indumento da lavoro, lo vestiva con eleganza marziale. Aveva una bella
chioma di capelli con la riga al centro e la pettinatura leggermente
all'indietro la facevano sembrare molto alta.
Ci invitò a sederci,
cominciò a guardarci con aria indagatrice, attraverso i suoi occhiali
grossi, sormontati da lenti spesse.
Nella stanza, non troppo
illuminata, regnava il silenzio, eravamo
ventisei alunni al nostro primo anno di scuola elementare.
Io, che ero al primo banco, abbassai lo
sguardo, quando incrociai i suoi occhi, non per timidezza, forse per timore
reverenziale. Credo che i suoi occhi esperti, che avevano fotografato in
passato centinaia di alunni, riuscissero a carpire tutto il nostro io in pochissimo tempo.
Sguardi impauriti,
timidi, reverenziali, spavaldi, furbetti, attoniti ,
ridenti , vivaci di tutti i bambini della classe.
Il silenzio imbarazzante
venne interrotto dall’ingresso nell’aula
della bidella, che scusandosi per il disturbo, accompagnava, tenendo per un
orecchio un bambino che io conoscevo perché aveva abitato nel mio cortile a San
Vito.
“Signora Maestra,
Gennaro voleva andare nella seconda con
i suoi ex compagni, invece è stato bocciato e deve stare qui con voi”, disse la
bidella.
Gennaro nonostante
camminasse sulle punte per pareggiare la possente tirata verso l’alto, rideva
come se fosse contento, sicuro e divertito nell'attirare l’attenzione di tutti.
Aveva un grembiule
diventato troppo piccolo per lui, con un fiocco ad allacciare il colletto
enorme, scarpe a mezzo stivaletto sdrucite e troppo grosse, i calzini quasi non
si vedevano.
Sprizzava simpatia da
tutti i pori.
Mentre prendeva posto
nell’ultimo banco, continuava a bofonchiare frasi spiritose quasi
incomprensibili, rigorosamente in vernacolo stretto e continuava a ridere
beffardo ed a mostrare le gengive arrossate rimaste orfane dai denti di latte.
La maestra lo esortò a
fare silenzio ed a sedersi più avanti. Chiese al mio temporaneo compagno di
banco di scambiare il posto con lui, mi ritrovai così seduto vicino al più
allegro della classe.
Sentivo i polmoni che
pulsavano, volevo esplodere in una grassa risata che sarebbe risultata
devastante, ma avevo troppo timore a farlo, inutile dire che lui faceva di
tutto perché questo avvenisse.
La maestra tirò fuori da
un vecchio armadio di legno un cappello di cartone fatto a cono, tutto
colorato, sormontato da due protuberanze laterali, sempre di cartone, a forma
di orecchie d’asino. Attorno alla base c’era una scritta che nessuno di noi
sapeva ancora leggere. La maestra indicandola lesse molto lentamente:
A S
I N O.
Una risata simultanea
esplose in aula. La stessa maestra rideva, ma con moderazione signorile.
Invitò Gennaro ad
indossare quell’insolito copricapo, ricordando a tutti che che avremmo potuto fare la stessa fine se non
si veniva promossi.
Gennaro indossò il
cappellino da ciuchino con inaspettato orgoglio e tutto impettito si girava
guardando tutti noi, con il suo sorriso a bocca larga, si gingillava tutto. Era
felice di essere guardato!
“In piedi”, ordinò la
maestra, facendo ritornare l'immediato silenzio in classe.
Tutte le nostre giornate
iniziavano con il segno della croce e la preghiera.
Nello Ricciardi
Marigliano (NA) ottobre
1966
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