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mercoledì 2 marzo 2016

LA COLONIA ESTIVA

LA COLONIA ESTIVA
Il primo anno della scuola elementare passò veramente in fretta, tutto sommato mi piaceva la scuola, merito sicuramente della mia bravissima Maestra Carmela Correale.
Addirittura mi dispiaceva non poter andare a scuola per tre mesi, non sapevo cosa fare a casa, sempre le stesse cose monotone, dormire fino a tardi, giocare insieme ai miei coetanei nel grande cortile sotto casa. Sapere che dovevo aspettare fino ad ottobre per andare in seconda elementare mi intristiva.
Fu un mattino di luglio che la mamma non andò a lavorare e mi disse che quel giorno io sarei partito per la colonia marina, per restarci due settimane.
Subito pensai ad un castigo, eppure non mi sembrava di essere un bambino birichino, anzi tutt'altro, anche a scuola avevo chiuso la prima elementare con un eccellente profitto. Ma quello che mi metteva più terrore era andare al mare. Lo odiavo, avevo paura dell’acqua, delle onde. In mente mi venivano tutti gli episodi brutti capitati le poche volte che ero andato al mare con i miei genitori, a Portici. Mio padre voleva a tutti i costi insegnarmi a nuotare ed addirittura andare sott'acqua, ma lo faceva con metodi coercitivi che puntualmente mi portavano a bere enormi quantità di liquido salato schifosissimo. Anche il mio fratello maggiore, Giacomo, che invece era nato pesce e si districava a nuotare con estrema facilità, invece di aiutarmi contribuiva a tenermi ancora di più con la testa sott'acqua. Ci fosse stato il telefono azzurro a quei tempi lo avrei utilizzato volentieri contro di loro.
Puntualmente mi rifugiavo, piangendo a squarciagola e sputando acqua salata, tra le braccia di mia madre, che non sapendo nuotare come me, mi capiva e mi difendeva.
Insieme a mamma e papà, con una piccola borsetta contenente pochi effetti di vestiario e una bustina con materiale per la pulizia della persona, ci incamminammo verso il centro di Marigliano.
Arrivammo nei pressi della stazione della circumvesuviana, ad attenderci c’era un uomo esile e smilzo, con la pelle abbronzatissima. Aveva due occhi tondi tondi sormontati da occhiali ed un baffo leggero . Vestiva con una strana divisa color grigio verde ed aveva un berretto dello stesso colore con la visiera tipo poliziotto. Quando ci vide, si tolse il cappello, mostrando un buon grado di calvizie e con un fazzoletto si asciugò il cuoio capelluto ed il collo. Faceva veramente caldo.
Il Signor Carmine Messina, così si chiamava, ci fece accomodare nella sua auto, credo un 1100 fiat.
Mi diede uno scappellotto sulla testa esortandomi ad essere contento per il periodo che mi apprestavo a passare. Ti divertirai, conoscerai nuovi amici, farai i bagni di mare che fanno bene, ma soprattutto mangerai bene.
Il signor Messina, tutto sommato mi fu subito simpatico, parlava sempre, ma soprattutto scherzava e faceva ridere.
Durante il viaggio mi raccontò delle colonie, che furono costruite alla fine dell’ottocento dal re d’Italia poi durante il fascismo le colonie vennero intensificate e rivolte a bambini e ragazzi allo scopo di sostenere le famiglie meno agiate e offrire un periodo di attività fisica e ludica per le future generazioni. 
Mi addormentai e mi svegliai quando stava parcheggiando.
La colonia marina era formata da un blocco parallelepipedo unico, a due piani e tutto dipinto di bianco. La struttura era stata costruita al centro di un ampio parco alberato e recintato da un muro alto. All’ingresso un cancello sorvegliato da un guardiano.
Ci ritrovammo in un ampio refettorio e ci fecero sedere, i genitori erano ancora con noi.
Da un lato c’erano tutte le maestre, una di loro spiegò ai genitori le modalità per il recupero dei propri figli dopo due settimane e tutte le informazioni per eventuali problemi che sarebbero potuti sorgere.
Alla fine ci furono i saluti di rito, con pianti e strazi compresi. Il refettorio diventò ben presto una bolgia.
Rimasi solo.
C’erano tantissimi bambini, maschi e femmine. Ci divisero in squadre formate da una trentina di bambini dello stesso sesso.
Ogni squadra ebbe in dotazione il nome di un colore che si identificava con l’abbigliamento che ci assegnarono. Maglietta, pantaloncino e cappellino con visiera.
Fui sfortunato, capitai nella squadra bianca. Immaginatevi quegli indumenti candidi dopo due settimane!
Oltretutto le squadre non erano omogenee per età, ma dentro c’erano bambini di sei anni come me e bambini di dodici o tredici.
Le insegnanti, ognuna con indosso una maglietta del colore della propria squadra, ci radunarono e ci portarono negli alloggi.
Un camerone enorme, i letti a castello non si riuscivano a contare. I materassi erano di pagliericcio duro ed i cuscini imbottiti di lana dalla consistenza e forma di sassi. Provai il mio letto era scomodissimo.
La maestra ci disse di cambiarci e di utilizzare gli abiti assegnati e di stare attenti a non perdere il cappellino, altrimenti oltre alla prevista punizione avremmo dovuto far rimborsare dai nostri genitori l’eventuale costo di un altro cappellino.
Il giorno dopo già non trovai il cappellino.
Piansi tutto il giorno, pensando alla punizione che mi aspettava.
Al mattino la sveglia era molto presto. Ci facevano scendere nel piazzale ed inquadrati si faceva l’alza bandiera e si ascoltava l’Inno Nazionale.
Subito dopo, finalmente la colazione. In una grossa scodella di plastica ci veniva versato del latte, che appena si assestava formava una crosticina sulla superficie. Un mestolo di liquido nero, forse orzo, veniva versato successivamente solo a chi lo voleva. Una grossa fetta di pane completava la colazione.
Al termine inquadrati per tre e tenendoci per mano, i più piccoli avanti, si andava verso il mare.
La spiaggia della colonia era delimitata da una grossa corda di canapa ed all'interno dell’area riservata a noi non c’erano ombrelloni o ripari dal sole.
Ogni maestra, invece, aveva il suo ombrellone e la sedia, lì dovevamo lasciare, ognuno nel suo cestino personale la maglietta, il pantaloncino, il cappellino, scarpe e calzini.
Dopodiché potevamo scorrazzare a piacimento sulla piccola spiaggia e giocare sotto il sole.
La mia pelle color latte, molto sensibile al sole diventò in pochissimo tempo color melograno.
C’era chi scavava buche nella sabbia, chi giocava con i sassi, chi a mosca-cieca o altri giochi. Ma c’era sempre quello che aveva il dono di distruggere buche e castelli e rovinare i giochi e la quiete degli altri. In genere questi erano i più grandicelli che assumevano spesso atteggiamenti da bulli e non di rado arrivava anche qualche schiaffone o calci assestati sempre di nascosto dalle insegnanti.
Il bagno si poteva fare solo per dieci minuti, sotto stretta sorveglianza delle insegnanti, che si mettevano in fila in acqua e quando si sentiva il trillo di un fischietto, partiva la gran corsa in acqua.
Naturalmente io mi guardavo bene dal bagnarmi e me ne restavo tranquillamente dieci minuti in compagnia di pochi che avevano il mio stesso problema.. Erano i dieci minuti più rilassanti della giornata.
Al rientro si poteva andare a pranzo. Il cibo era ottimo, considerato quello a cui la maggior parte di noi era abituato a mangiare a casa. C’era sempre un primo ed un secondo con contorno. Mangiavo fino a sfondarmi senza lasciare nulla e spesso mangiavo anche quello che lasciavano i vicini.
Effettivamente il pranzo e la cena erano per me considerati gli unici motivi validi per l’esistenza di quelle colonie.
Non sopportavo il sonnellino obbligatorio del pomeriggi. Costretti a stare seduti con la testa sul tavolo senza potersi muovere. Chi si muoveva o non stava zitto, veniva messo in ginocchio per tutto il tempo.
Nel pomeriggio si poteva giocare liberamente nel parco, per un’ora. Io mi guardavo bene di non allontanarmi dalla vista delle insegnanti, altrimenti si andava a finire in balia dei bulletti più grandi e si veniva sottoposti alle angherie più strane.
Il giorno dopo mi svegliai senza aver quasi dormito nulla, ricordo che passai tutta la notte con il viso affossato nel cuscino a piangere.
Il tempo, nonostante la nostalgia di casa, i malesseri e le angherie, passò tutto sommato velocemente. La mia pelle aveva subito ustioni abbastanza serie e fui inviato più volte in una specie di infermeria per le cure del caso. Addirittura venni esentato, con mio grande piacere, per due giorni dall’andare al mare. Lo odiavo!
Una mattina qualunque, dopo l’alzabandiera, la maestra ci disse di andarci a cambiare e rimetterci i nostri abiti, di lasciare la divisa bianca sul letto. Chissà cosa se ne facevano di quelle magliette e pantaloncini sdruciti e sporchi, che ormai di bianco avevano solo il nome.
Capii il vero motivo quando vidi nel piazzale i miei genitori con il signor Messina.
Andai di corsa verso di loro, non li salutai nemmeno, aprii la portiera dell’auto e mi infilai dentro.
“Andiamo, andiamo via” li supplicai. “Basta colonia, basta mare, voglio stare nel mio cortile con i miei amici”. Non mi girai mai indietro, mi addormentai tra le braccia di mia madre, un porto tranquillo e profumato. 
Luglio 1967
Nello Ricciardi


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