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mercoledì 2 marzo 2016

VOLERE È POTERE


La “fase terra”, del corso ordinario Incursori, volgeva quasi al termine. Dopo circa quattro mesi di intensa attività fisica, pratica e teorica, i partecipanti rimasti erano già meno della metà. 
Quella mattina, insolitamente calma, di un lunedì del mese mariano, sul pullman che doveva portarci a Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, per far visita alla famosa fabbrica di armi Beretta, eravamo rimasti una ventina dei cinquantotto allievi iniziali.
Per completare la “fase terra” rimaneva l’ultimo test fisico da superare, oltre agli esami teorici. 
La quaranta chilometri di marcia su strada in assetto operativo. 
L’ultima prova era da tutti ritenuta la più dura fisicamente da superare.
Ero molto preoccupato, durante tutto quel viaggio. Erano due o tre notti che non dormivo e che camminavo a fatica. 
Una rovinosa caduta, rimediata sul percorso di guerra, mi aveva causato un forte trauma al livello del coccige.
Speravo che il riposo dalle attività fisiche delle due giornate precedenti, avessero attenuato per lo meno il fastidiosissimo dolore.
Invece quella mattina mi ritrovai con un grosso ematoma purulento nella bassa regione lombare.
Facevo fatica a rimanere seduto durante il viaggio. Mi toccavo con la mano e sentivo con le dita una formazione molliccia grossa quasi come una palla da golf.
Chiesi agli altri di lasciarmi il sedile in fondo, dove provai a fare il viaggio sdraiato supino.
La mia preoccupazione era per il test che si sarebbe dovuto tenere il venerdì successivo.
Non potevo assolutamente sottopormi ad una sfida simile in quelle condizioni.
Non fu per me una bella e rilassante gita, vidi ben poco delle lavorazioni della fabbrica. Non riuscivo a camminare e ne parlai con il Direttore del corso, il Signor Gattoni.
La risposta scontata fu: “vedi tu, se non ce la fai venerdì, ti aspetteremo il venerdì successivo, dopodiché o ti fai questi quaranta chilometri e li finisci in tempo oppure il giorno dopo ti saluteremo, lascerai il corso e tornerai sulla sacre navi armate dalla Patria”.
Più chiaro di così non poteva essere. Nessuno doveva essere avvantaggiato, ognuno doveva dare il suo, con una sola possibilità di recupero. Quelle erano le regole.
Il viaggio di ritorno fu oltremodo terribile, si alzò anche la febbre, stavo veramente male.
Quella sera non feci ritorno nella camerata con tutti gli altri, ma fui ricoverato in infermeria.
Il mattino seguente il medico mi visitò e sentenziò: “Deve essere inciso e quindi va portato in ospedale. Certo è, che se va in ospedale, gli daranno sicuramente una quindicina di giorni di convalescenza. Pertanto non  vedo come possa continuare il corso”.
Supplicai il direttore, affinché mi desse una possibilità, mi disse però che avrebbe dovuto parlarne con tutta la direzione del corso e con lo staff medico. La decisione venne solo momentaneamente rinviata.
Stavo malissimo, ero avvilito, sfiduciato, non riuscivo a trovare una via di scampo, una soluzione. Contro tutti i pronostici, dovuti ai miei novantasei chili iniziali ed una scarsissima forma fisica, ero riuscito ad arrivare, non senza pochi sacrifici, a terminare la prima delle tre fasi del corso, lasciando per strada una quindicina di chili e scoprendo una buona fiducia nella mie, fino ad allora ben nascoste,  capacità fisiche.
Non potevo mollare per colpa di una stupida caduta, senza una prova d’appello.
Tornò il direttore insieme al medico del Varignano, responsabile del corso e mi disse: “Stammi bene a sentire, il dottor Maroni si è offerto, assumendosi lui personalmente tutte le responsabilità, di eseguire con le sue mani l’intervento domattina, sempreché cali la febbre. Non potrai prendere nessun giorno di convalescenza e starai qui in infermeria qualche giorno. Ti daremo la possibilità, se recuperi fisicamente, di tentare un’unica prova, la settimana prossima. Altro non possiamo fare. Questo solo perché abbiamo valutato quello che hai fatto fin qui e crediamo di poterti dare ancora un’opportunità”. Poi continuò abbassandosi fino a parlarmi nell’orecchio, “Ricordati quello che diciamo sempre a tutti, “Volere è Potere”!
Decisi subito, senza nemmeno pensarci. “Voglio essere operato qui, non voglio andare in ospedale, voglio provare a percorre quei quaranta chilometri”.
Il mattino successivo, mi svegliai senza febbre, ma il dolore mi invadeva con il ritmo di un pendolo. La pallina era ancora lì, calda, grossa e sgradita, appoggiata sul fondoschiena.
Mi sdraiarono supino su di un lettino operatorio, il dottor Maroni cominciò a disinfettare la parte da incidere. Mi disse: “ragazzo ora iniziamo, non potrò farti un’anestesia, per ovvi motivi, cercherò di farti sentire meno dolore possibile, non assicurandotelo, spruzzandoti solo del ghiaccio spray. E’ l’unico sistema anestetico che ho a disposizione. Dimmi se vuoi che io prosegua”. Alzai leggermente il capo e vidi davanti a me il Signor Gattoni che, con il suo dialetto piemontese ed il sorriso sempre stampigliato sulla bocca, mi esortò ad aprire la bocca e stringere tra i denti un canovaccio di panno bianco.
Guardai il dottore e dissi senza mezzi termini: “si, dottore, mi tolga questo impedimento”!
Strinsi forte il canovaccio tra i denti e appoggiai il capo sul lettino.
Sentii immediatamente due ferree prese ad entrambe le mie braccia, altre due alle gambe divaricate. 
Mi sentivo inchiodato ed inerme su quel letto di supplizio.
Il dottore cominciò subito a spruzzare il gas anestetizzante. Un freddo intenso si propagò velocemente all’altezza del mio sedere, ignudo oltremodo. Mi sentii bruciare forte lo scroto e tra le gambe. La sensazione di freddo era mista a quella di bruciore. Poi aspettò qualche minuto e ne approfittò per dare le ultime indicazioni ai suoi aiutanti.
Sentii chiaramente il corpo estraneo affilatissimo, entrare nella mia carne malata, nella regione coccigea. I miei nervi si tesero come corde di violino ed un urlo mi rimase strozzato in gola, non avendo trovato sfogo tra il canovaccio ben assestato tra i denti. 
Sentivo Gattoni che imprecava per la puzza che emanava quella materia molliccia mista a sangue, che fuoriusciva dal tessuto cutaneo aperto dal bisturi.
Un infermiere tamponava con delle garze ed il dottore disse che avrebbe dovuto aprire ancora qualche centimetro. Avvertii di nuovo il bisturi che divideva in due lembi la ferita, ancora più lunga.
Volevo scalciare, quando infilò con un attrezzo specifico delle garze dentro quel varco per pulire a fondo la parte infetta. Volevo dimenarmi per scappare dal dolore terrificante, ma quei quattro energumeni, scelti non a caso per tenermi saldamente, non mollavano un centimetro.
Non ricordo altro, credo che i miei sensi si misero autonomamente in protezione inducendomi nello svenimento.
Mi risvegliai nel tardo pomeriggio, nell’unico letto ubicato in una tranquilla camera dell’infermeria. L’infermiere, scusandosi per avermi svegliato, mi disse che doveva praticarmi una puntura.
Avevo una cannula in vena che proveniva da una flebo. Mi disse che non capiva come io avessi potuto accettare tutto quello, che aveva assistito all’intervento e che non lo avrebbe mai più dimenticato. “Figurati io”! Gli risposi.
Il venerdì mattina ormai riuscivo, seppur a fatica, a camminare. Avevo i punti di sutura che tiravano la cute ad ogni passo e quindi ero lento ed impacciato come una lumaca, ma non sentivo più il dolore. Ero rinato.
Chiesi la possibilità di poter assistere alla prova dei quaranta chilometri a cui si dovevano sottoporre i miei compagni di corso.
Rimasi tutta la notte a seguire chilometro dopo chilometro, seduto su di un’auto di assistenza utilizzata dagli istruttori.
Forse sbagliai a chiedere di presenziare. Fui volontario protagonista di tutta la loro sofferenza e ne rimasi perturbato dal sacrificio.
Ora sapevo bene cosa mi sarebbe aspettato il venerdì seguente, con l’aggravante di doverlo fare da solo. Avevo solo sette giorni per recuperare la convalescenza e trovare un minimo di forma fisica. 
Ma avevo bene in mente le parole del Signor Gattoni. “VOLERE E’ POTERE”!
Io volevo fortissimamente provare assolutamente.
Varignano, maggio 1980

Nello RICCIARDI


1 commento:

Unknown ha detto...

Simpatica la storia della palla da golf sul coccige-
Einstein diceva:
"C'è una forza motrice più forte del vapore, dell'elettricità e dell'energia atomica: la volontà",
e tu, allora, senza conoscere l'aforisma di Albert (penso...), hai messo in atto la tua FORZA.
Saluti.
Giovanni Libardo