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mercoledì 2 marzo 2016

L'URLO DISUMANO

Il corso Incursori mi tenne super impegnato per tutto l'anno 1980. Avevo solo diciannove anni quando arrivai al Comando Subacquei ed Incursori della Marina Militare, situato presso l'antico lazzaretto del Varignano a Le Grazie, in provincia Della Spezia.
Dodici mesi ardui, vissuti con intensità, determinazione, sacrificio e sofferenza, che però mi ripagarono con il conseguimento del brevetto da Incursore ed il poter indossare l'ambito basco verde del glorioso reparto della Marina.
Seguirono altri sei mesi di tirocinio pratico presso il reparto d'élite, il Gruppo Incursori, al termine dei quali fummo inviati a Pisa, presso la scuola di Paracadutismo dell'esercito per conseguire il brevetto di paracadutista militare.
Seppur il mese di corso fosse abbastanza pesante ed impegnativo, rispetto ai diciotto mesi pregressi, mi sembrò una divertente passeggiata ed al termine dei sei lanci previsti conseguii anche l'ultimo pass per potermi sentire a tutti gli effetti e con orgoglio un operatore incursore.
Il corso terminò, guarda caso, proprio in concomitanza dell'inizio dell'estate. Il periodo adatto per poter finalmente godere di una lunga e quanto mai meritata licenza, da trascorrere presso la mia famiglia a Marigliano.
Ma non era certo per questo che mi sentivo contentissimo, il mio solo pensiero, con tutte le preoccupazioni a seguire, era rivolto al mio maltrattato dito alluce, che ormai aveva preso la forma di una di quelle salsicce, tagliate a punta di coltello.
Era da circa dieci mesi che un unghia incarnita mi toglieva il sonno e più cercavo di tagliarla e più si allungava, più cercavo di smussarla, più cresceva sempre più appuntita per farsi strada tra le pieghe del letto ungueale e penetrare sempre più in profondità, procurandomi un dolore insopportabile, accentuato dal dover calzare quotidianamente scarponi pesantissimi per affrontare le ripetute marce, o scalare le scoscese pareti rocciose o ancora peggio calzare le pinne di gomma per le lunghe nuotate, che andavano ad esercitare la loro maggior pressione proprio in corrispondenza del mio ditone malato.
Tutte le sere ero costretto a bagni di acqua salata ed amuchina, per tentare di ammorbidire la parte dolorante nella speranza di poter chiudere occhio e non sentire le continue fitte che ormi avevano preso il posto dei rintocchi orari di una campana.
Anche il podologo di via Chiodo, il dott. Olivieri, un giorno sentenziò: "E' inutile che vieni da me a buttar via dei soldi, non posso più aiutarti, quest'unghia va curata, anzi va estratta da un chirurgo"!
Ma come facevo a farmi operare, voleva dire dare l'addio al corso Incursori, buttare all'aria quasi un anno di corso che mi vedeva ormai tra i pochi superstiti rimasti.
Trovai la soluzione. Cominciai a calzare doppi calzettoni di lana grezza grossa, per attutire la pressione della pelle durissima degli scarponi ed aumentare la grandezza di questi ultimi. Decisi così di calzare un numero in più, fino ad arrivare a due numeri in più al corso parà. Stessa cosa dovetti fare con le scarpe e con le pinne.
Questo palliativo, seppur poco pratico, fu la scappatoia per poter, seppur in modo impacciato, terminare tutto l'iter corsuale previsto.
Il chirurgo mi accolse nello studio a Nola e quando vide il mio alluce, ormai dal colorito violaceo marrone, a forma di melanzana matura e con l'unghia ormai completamente ingoiata dalla pelle, mi guardò e mi disse: "Guagliò tu stai per perdere il dito. Domani vieni a digiuno che ti faccio 'o servizio"!
Si alzò ed uscì dallo studio, mi lasciò solo, sbigottito e preoccupato, non tanto per la paura di perdere il mio alluce, non mi ci sentivo più affezionato, ma per quel "ti faccio 'o servizio"!
Mi ritrovai, dopo l'ennesima notte insonne, sdraiato su di una specie di sedia gigante coperta di lenzuola verdi, leggermente inclinata. Gli infermieri cominciavano a preparare intorno a me i vari ferri in acciaio brillanti. Un dottore preparò una siringa e mi iniettò, direttamente alla base dell'unghia un liquido infernale. Il bruciore mi salì rapidamente come un torrente in piena e straripò nei pressi del cuore. Avrei voluto urlare, ma l'aria espulsa violentemente dai polmoni si affievolì prima di attraversare le corde vocali, non facendole vibrare. Un'altra puntura seguì la prima all'apice del dito. Lo stesso liquido, velocissimo, freddo e tumultuoso, prese la strada del cervello, lo sentii bussare alle tempie. Il dottore mi disse di non preoccuparmi, che da li a poco avrebbe finito. Aspettò qualche secondo, frazione di tempo in cui il mio ditone si estraniò dal mio corpo. Non era più mio, lo vedovo lì, davanti a me, ma non mi apparteneva.
Il chirurgo afferrò una specie di cucchiaino capovolto, lo diresse verso la punta dell'alluce malato, lo conficcò sotto l'unghia, penetrando con facilità fino in fondo. Poi come una leva caricò verso l'alto. L'unghia saltò dalla sua sede lasciandola libera. Mi sembrò di vedere un cratere con la lava rossa che ne fuoriusciva. Avevo visto e seguito tutto, ma senza sentire nessun dolore, senza vivere nessuna emozione, il dito non mi apparteneva. Gli infermieri iniziarono a tamponare ed a medicare, fino a quando mi ritrovai con mezzo piede fasciato da garze idrofile dal bianco candore. Non avvertivo nessun dolore.
Quella notte invece fu ancora più insonne delle altre. L'effetto dell'anestesia finì e come una rapporto inversamente proporzionale, cominciò ad affacciarsi il dolore, sempre più insistente, sempre più penetrante.
La notte successiva si ripeté in fotocopia la stessa cosa ed ancora quella a venire e per i due giorni che ne scaturivano vicini. Chiedevo a mia mamma fare qualcosa, fino ad implorarla a procurarsi della morfina, pur di mettere fine a quel patimento. Il terzo giorno mi sembrò di cominciare a migliorare. Dovevo aspettare una settimana prima di andare a Marinferm Napoli, l'infermeria del presidio militare, per poter eseguire una visita e conseguire un'eventuale idoneità a rientrare al reparto di appartenenza. Non mi alzai mai dal letto o dalla sedia a sdraio, regalatami, per l'occasione, da mio zio Felice.
Ricevetti, in quei giorni parecchie visite di parenti ed amici. Tra questi ci fu quella graditissima di Giovanni , che si offrì di accompagnarmi con la sua auto a Napoli per la visita di idoneità.
Al mattino presto del giorno stabilito, Giovanni no si fece attendere, la sua Mini 90 entrò nel cortile di "Shangai". Partimmo alla volta di Napoli, con la musica dei Rolling Stone in sottofondo.
Arrivammo a Napoli, in via Rampe di Sant’Antonio, dietro la la chiesa di Santa Maria a Piedigrotta. Lì era ubicato il vecchio Marinferm Napoli.
Giovanni doveva sostenermi per camminare, il piede si presentava ancora dolorante e sentivo pulsare il ditone sotto la medicazione che trasudava macchie umorali di sangue.
Mi fecero entrare in una saletta con un lettino, Giovanni aspettò fuori. C’erano due medici o presunti tali, uno con il camice bianco, con un mazzo di penne colorate, in bella vista nel taschino e lo stetoscopio che strabordava dall’altro taschino. L’altro sanitario aveva un camice verde senza nessun ausilio o attrezzature evidenti, molto più giovane.
Quello con il camice bianco, che ormai avevo individuato come il dottore capo, mi fece sdraiare sul lettino e mi chiese i motivi della mia visita all’infermeria della Forza Armata, oltre a leggere le carte rilasciate dalla chirurgia di Nola. Mi legò il piede al lettino in modo che io non potessi avere movimenti incontrollati e cominciò con calma a sbendare la medicazione. Cominciai a sentire il battito impulsivo dell’alluce ancora più forte, quasi a voler presagire un avvertimento. Ad un tratto la porta si aprì e si affacciò un infermiere. “Dottore dovrebbe venire in reparto c’è un urgenza”,
Il dottore si rivolse al suo assistente con dei cenni per me insignificanti ed incomprensibili. L’altro annuì.
Rimanemmo soli. Mi fissò negli occhi, mi sembrava che volesse trasmettermi qualcosa, ma non capii. Non so perché dalla mia testa partì un segnale di consenso. Abbassò la testa prese ad armeggiare con le garze che erano diventate un tutt’uno con la superfice ferita dell’alluce. Le pulsazioni mi lasciarono per far posto al dolore intenso. Cominciai a supplicare il medico o presunto tale di fare più piano. Questo continuava, solleva di qua, solleva di la, il dolore diventò insopportabile. I miei lamenti lasciavano il medico impassibile, più si lamentava e più toccava i punti nevralgici del dolore. Volevo ritrarre il piede, ma era legato, cominciai a scalciare con quello libero. Lo afferrò e lo tenne fermo e nello stesso tempo tirò con forza l’ultimo lembo di garza e pelle verso l’altro. Ebbi la sensazione stranissima come se tutte le mie interiora fossero state tirate fuori con quel lembo di garza idrofila. Una massa impressionante di aria venne espulsa in un attimo dai miei polmoni, attraversò le corde vocali tirate allo spasmo, che vibrarono in un modo cavernicolo ed inusuale. Le orecchie cominciarono a fischiarmi, il cuore accelerato a mille. Aprii un attimo gli occhi gonfi di lacrime e vidi il tizio che mi mostrava felice il groviglio di garze sanguinolente.
Mi lasciai andare, sfinito, completamente zuppo di sudore, sul lettino. Credo che persi i sensi per un piccolo periodo di tempo.
Entrò il medico, quello vero, “tutto a posto? Come va? Perché l’ho sentito urlare dal piano di sopra”?
Non riuscii a rispondere. Il dottore si rivolse di nuovo al suo assistente con segni a me sconosciuti. “Cosa succede dottore”? Gli chiesi.
“Sa il mio assistente infermiere è in tirocinio è un disabile “sordomuto”!
Volevo morire.
Il dottore mi rifece la medicazione e nel frattempo mi disse che la ferita era fortemente infetta ed avevo bisogno ancora di una ventina di giorni di convalescenza a casa. Fece entrare Giovanni che mi aiutò a sistemarmi. Giovanni aveva sentito e probabilmente partecipato emozionalmente a tutto il mio dramma di quella mattina. Solo fuori gli spiegai che seppur urlavo ed imprecavo, quello era sordo e non avrebbe mai potuto sentire. Giovanni cominciò a ridere, come solo lui sa fare, mi offrì una delle sue sigarette e ci incamminammo per il ritorno a casa.

Non tornai mai più a Marinferm Napoli.
Marigliano settembre 1981
Nello RICCIARDI




L'URLO DISUMANO


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